Dal punto di vista dello sviluppo tecnologico di un paese, vi sono vantaggi inerenti nel tipo di risorse disponibili all’interno dei confini del suo territorio: minerarie, per la costituzione di un particolare approccio all’ingegneria; idriche, nel campo dell’agricoltura e successivamente, la generazione d’energia. Ma ci fu più di un popolo, nel mondo antico, il cui destino fu sempre indissolubilmente legato a quello di una specifica razza di cavalli. Una faccenda che entrò a pieno titolo nella storia, secondo quanto ricordato dal grande narratore Erodoto, attorno alla fine del quinto secolo a.C, quando re Dario il Grande, durante la sua prima invasione della Grecia, si presentò alla testa di un esercito di 100.000 lancieri e “10 cavalli sacri, che accompagnavano il suo carro togliendo il fiato a coloro che avevano l’occasione di vederli”. Essi erano, per quanto fu chiaramente riportato, equini provenienti dalla città di Nicea, la città tra i monti Zagros oggi nota come İznik, la cui leggenda diventò un filo conduttore dei molti secoli a venire. Si diceva che lo stesso grande re di Persia fosse salito al potere quando l’imperatore achemenide Cambise II era caduto da uno di questi cavalli, proprio mentre il suo nitriva nella direzione dell’alba. Quando successivamente, nel 481, l’odiato Serse prese possesso della Tessaglia, lo fece in sella ad uno di queste magnifiche creature, che notoriamente fece gareggiare con le rinomate cavalle di quella regione, vincendo. Nel 479 a.C, poco prima della gloriosa vittoria di Platea, gli ateniesi elaborarono un piano specifico per uccidere il cavallo del generale nemico Mardonio, a tal punto era temuta la sua capacità di condurre una carica in battaglia. Mentre oltre un secolo dopo, all’inversione dell’intera tendenza del flusso delle civiltà, quando Alessandro Magno avrebbe infine invaso le terre dello sconosciuto Oriente, l’avrebbe fatto in sella ad uno di questi stessi animali, quel Bucefalo tradizionalmente rappresentato nel colore marrone chiaro che oggi sappiamo provenire da una combinazione dei due tratti genetici definiti Isabella e Palomino, rispettivamente ocra chiaro ed ocra dorato.
Ma non prima che detta linea ereditaria, per un tramite che il mondo ha sostanzialmente dimenticato, giungesse fino in Turchia, nella regione circostante le oasi a nord della catena montuosa Kopet Dag, nota come Akhal. Dove vivevano, da tempo immemore, le genti che sarebbero diventate note col nome di Teké, andando a costituire la principale tra le cinque tribù turcomanne. Ora, se è possibile affermare che la gente si adatta a ciò che il fato gli ha concesso per farsi strada in mezzo alla folla dei popoli confinanti, questo è del resto vero anche per i loro animali. Ed è così che quella razza, custodita e tenuta in massima considerazione da tutti coloro che ebbero la fortuna di possederla, venne qui allevata per lungo tempo, cambiando progressivamente attraverso i secoli a venire. Il cavallo di Nicea si trova, da un punto di vista della discendenza, alla base dell’intera genìa dei cosiddetti equini a sangue caldo, inclusivi del cavallo Arabo, quello Berbero, il Lusitano, ed anche il Turcomanno, cambiò significativamente in base a chi l’aveva adottato. Affinché potesse dare il suo massimo anche nelle terre dell’odierna Turchia, esso si guadagnò progressivamente degli zoccoli più sottili, perfetti per avanzare sul terreno roccioso, ed una schiena lunga per i lunghi viaggi, poiché a differenza dei Beduini, queste genti non possedevano la capacità di ammaestrare il cammello, ed utilizzavano quindi la stessa cavalcatura in guerra ed attraverso le loro peregrinazioni nella vastità del deserto. L’Akhal-Teké, come divenne noto all’incirca verso la fine del Medioevo, era per questo uno dei cavalli più resistenti che il mondo avesse mai conosciuto, naturalmente agile, snello e leggiadro nei movimenti, soprattutto in forza della selezione che ne era stata fatta al servizio di molte generazioni dei predoni locali, che sfruttavano principalmente l’arco, al contrario dei Persiani specializzati nelle cariche di cavalleria con la lancia. La cultura che nacque dietro all’allevamento di simili bestie, quindi, assunse gradualmente un che di mistico, conducendo alla soluzione, certamente innovativa per l’epoca, di tramandare di padre in figlio informazioni sulla linea di sangue dell’uno o dell’altro stallone e delle loro compagne. Era nato, attraverso soluzioni per lo più orali, il primo vero allevamento selettivo nella storia dell’uomo.
Così come avvenuto precedentemente col suo antenato della città di Nicea, il cavallo Akhal-Teke ebbe quindi una diffusione a macchia d’olio, sull’onda di commerci straordinariamente proficui per ciascuna delle personalità coinvolte (non ultimo colui che, acquistandoli, poteva rivenderne i discendenti).. A tal punto che si diceva che il Califfo di Baghdad, nel XVII secolo, possedesse dei cavalli completamente d’oro che venivano impiegati dalle sue guardie di palazzo, così come d’oro erano le sue vesti, il suo trono e le armi che utilizzava durante la caccia e nelle occasioni di rappresentanza ufficiale. Proprio tali creature, quindi, avrebbero dato le origini alla linea Muniq’i della razza Araba, notoriamente incrociata con il cavallo Turcomanno. I russi li chiamavano Argamaks, ovvero “cavalli sacri” mentre per svariate generazioni d’imperatori cinesi si trattò del divino “cavallo celeste” una creatura per la quale spendere parti rilevanti delle loro infinite e ricchezze e risorse commerciali.
In Italia, nelle pianure tra Napoli e Caserta, una certa quantità di queste bestie giunse per vie poco chiare, venendo successivamente integrata tra i branchi dei pastori locali per dare origine al rinomato Corsiero Napoletano, un animale noto per la sua forza, l’affidabilità e il coraggio.In epoca più moderna, notoriamente, qualcosa di simile venne creato dagli inglesi, che visitando le terre d’Oriente nel corso delle loro lunghe avventure coloniali, riportarono in patria una certa quantità di Akhal-Teke, tra cui il celebre stallone Marv, posseduto dal soldato Baker Pacha nel XIX secolo, che al termine della sua carriera nell’esercito chiedeva 85 sterline (all’epoca una fortuna) per il privilegio delle sue prestazioni di monta. Anche se il successo sperato tardò ad arrivare, e l’animale venne alla fine venduto nel 1877 al Conte di Claremont. Il seme, metaforico o meno, era stato ormai gettato su un terreno più che mai fertile, così che negli anni a seguire, da costui ed i suoi simili, sarebbero venuti al mondo i primi esemplari del Purosangue Inglese, una razza che oggi si trova alla base dei principali cavalli da corsa nel mondo. Attorno all’inizio del secolo scorso, quindi, iniziò il periodo più oscuro per questi animali: quando la nascente Unione Sovietica aveva decretato, per far fronte alle dure esigenze di quel periodo ed in forza di una fiducia smodata nelle nuove tecnologie di trasporto, che una gran quantità dei cavalli della nazione fossero soggetti al destino della macellazione, per nutrire i popoli che avevano combattuto a sostegno (?) della Rivoluzione. Nel giro di neppure una decade, gli Akhal-Teke rimasti furono meno di un migliaio, mentre sulle cronache segrete dei popoli turcomanni comparvero nomi come quello di Maria Tcherkesova, eroina popolare che portava in segreto i cavalli lontano dagli occhi del potere costituito. Altrettanto lesiva per la sopravvivenza della razza, fu la tendenza successiva a far accoppiare questi fortunati superstiti con dei Purosangue Inglesi di ritorno, nella speranza che potessero rendere di più durante il loro impiego sull’erba degli ippodromi e contesti similari. Fu strumentale, in questo, la figura di Vladimir P. Chamborant, ricercatore zoologico moscovita che aiutò a definire quali fossero i cavalli da considerare dei veri Akhal-Teke, e quali invece avessero ormai ricevuto una quantità eccessiva di sangue proveniente da razze diverse.
Oggi, benché distanti dall’antica preminenza internazionale, questi cavalli sono tornati ad una popolazione complessiva di circa 6.000 esemplari, di cui oltre un migliaio si trovano nel grande allevamento fuori dalla capitale del Turkmenistan di Ashgabat. Uno soltanto di loro, in funzione della sua bellezza e le notevoli prestazioni atletiche, nonché la capacità di apprendere con facilità, può costare dai 100 ai 200.000 dollari, ma anche superare notevolmente simili cifre, se si tratta del figlio di un campione. Gli stessi enti statali, noncuranti di questo, possiedono tuttavia la maggioranza degli esemplari locali, di cui fanno un largo impiego durante le occasioni di rappresentanza, come parate o esibizioni militari. A tal proposito, uno degli aspetti più affascinanti dell’amministrazione turcomanna è l’esistenza di un Ministero del Cavallo, incaricato di preservare ed accrescere questa ricchezza dell’intero popolo che discende dai guerrieri dei monti Kopet Dag, nel bel mezzo delle steppe dell’Asia Centrale.
Secondo l’iconografia acquisita con gli anni e l’idea popolare, resa popolare dai libri della J.K. Rowling sul maghetto Harry Potter, c’era un solo tipo di essere equino che potesse avere una sua naturale lucentezza rispondente alla luce del sole come se fosse fatto di metallo, ovvero l’unicorno. E forse non è un caso che, basandosi su alcuni resoconti, i cavalli provenienti dalla città di Nicea possedessero delle evidenti preminenze ossee in prossimità della fronte, dovute ad una struttura del cranio che oggi è svanita dai loro eredi, in funzione dei geni che si sono aggiunti in seguito alla loro discendenza. Del resto l’aspetto vagamente spettrale, snello e per certi versi ultramondano di simili creature, direi che appare evidente a tutti. Il resto, come avviene assai spesso, è un prodotto delle storie e della fantasia del Mondo.