Uno degli aspetti più singolari dell’Etiopia, vista la sua collocazione geografica nel bel mezzo dell’Africa orientale, è l’alta fascia della popolazione che pratica la religione cristiana: oltre il 60% del totale, aderente alla Chiesa di Tewahedo, una parola Ge’ez che significa “essere una cosa sola”. Questo perché, contrariamente al Cattolicesimo romano e all’Ortodossia, fin dai tempi antichi qui vige la credenza, detta monofisismo, secondo cui Cristo non avrebbe mai avuto una duplice e contrastante natura, al tempo stesso divina ed umana, poiché la seconda sarebbe stata completamente assorbita dalla prima. Con una popolazione che oggi crede, in maniera compatta, in questa ipotesi redatta per la prima volta da San Cirillo di Alessandria nel V secolo a.C. Ma non fu sempre così; nell’epoca in cui il re Ezana dell’antica dinastia di Axum (320 – c. 360 d.C.) si convertì per primo al culto cristiano copto importato dall’area di Costantinopoli, e soprattutto nell’epoca seguente al concilio di Calcedonia del 451 che le rese eretiche, simili posizioni erano ancora viste come un crimine punibile assai duramente. Il mutamento iniziò alle soglie dell’anno 500, per quella che potrebbe essere vista come una semplice coincidenza, i cosiddetti Nove Santi non varcarono i confini del regno. Erano uomini di chiesa, teologi ed eremiti, provenienti dall’Europa e dall’Asia, che concordavano nella definizione stilata da Cirillo della natura del figlio di Dio. I quali ben presto, grazie all’implicito carisma e le capacità di fare proselitismo, si ritrovarono seguìti da una nutrita schiera di fedeli. Ed un problema: dove avrebbero mai potuto costruire, costoro, le loro chiese, affinché rimanessero distanti dagli occhi scrutatori dell’ordine costituito? Per loro fortuna, le genti della regione del Tigrè, parlanti di un’antica lingua semitica e storicamente allineati all’ebraismo, vennero ben presto in loro aiuto. Applicando, all’accrescimento della nuova dottrina, le loro capacità architettoniche coltivate attraverso i lunghi secoli di guerre e conflitti tra i popoli africani, che li avevano portati a costruire in alto, sempre più in alto sui rilievi che bloccavano lo sguardo verso la curvatura dell’orizzonte. Ovvero le scoscese colline e montagne, per non parlare delle caratteristiche amba (termine in lingua Ge’ez riferito delle mesa isolate, ovvero secondo la terminologia internazionale dei butte) che punteggiano il territorio, come altrettante placche sporgenti dalla schiena di un dinosauro dormiente. E se a questo punto, dovesse venirvi spontanea la domanda di come sia possibile costruire una chiesa al di sopra di un sentiero pressoché verticale, percorribile soltanto utilizzando nel contempo mani e piedi, vi invito a programmare un viaggio, anche virtuale, nella regione. Per prendere conoscenza con gli straordinari 120 istituti religiosi, talvolta trasformati in trappole per turisti, altre abbandonate, più raramente, ancora in uso da parte del clero, che si trovano al cospetto di alcune delle viste più straordinarie del Tigrè. Letteralmente scavati nel fianco delle più alte rocce, mediante una tecnica oggi per lo più dimenticata, prima di essere ricoperte di strabilianti affreschi, e riempiti dei tesori iconici, letterari e figurativi di innumerevoli generazioni d’artisti ed autori.
È un’esperienza che assai raramente viene dimenticata dal viaggiatore. Generalmente s’inizia il giro da uno dei siti più antichi e famosi, il monastero di Debre Damo, non troppo distante dall’antica capitale di Axum, luogo di provenienza dell’obelisco sottratto dagli italiani come bottino di guerra, poi donato dall’imperatore Hailé Selassié e quindi restituito cionondimeno, a partire dall’ottobre del 2002. Ma molto difficilmente, i soldati stranieri avrebbero mai potuto trovare e saccheggiare un simile luogo, nascosto sulla sommità della più alta tra le amba locali e raggiungibile unicamente da una singola corda di peli di capra. Gettata tradizionalmente a tutti gli amici (maschi) dei monaci che intendono salire, secondo un rituale che si richiama alla leggendaria origine di questo luogo di culto, che sarebbe stato edificato dal santo Abuna Aregawi dopo che l’arcangelo Michele in persona aveva evocato per lui un miracoloso serpente, che l’aveva avvolto tra le sue spire e condotto fin quassù. Su una cima piatta, destinata ad essere coltivata dai religiosi raccolti in preghiera, mentre costruivano i secolari edifici destinati a conservare alcune reliquie ed i sacri manoscritti del santo. Tra cui la singola chiesa più antica del paese. Creazioni architettoniche per lo più ordinarie, ovvero composte di mattoni e calce, laddove in zone assai più isolate i seguaci degli altri otto santi si misero alla prova in maniera decisamente più severa. Vedi ad esempio, lo straordinario eremo di Abune Yemata Guh.
Benché non sia particolarmente facile ricostruire la storia e la vicenda personale dei Nove Santi, attraverso le cronache talvolta confuse del Medioevo Etiope, possiamo almeno fare un esempio. Quello di San Päntäléwon, che secondo una biografia postuma scritta nel tardo XV secolo, era un figlio di famiglia nobile a Costantinopoli, prima di farsi monaco e partire per le nazioni remote, con lo scopo di allontanarsi dalle persecuzioni e diffondere la novella della dottrina del monofisismo. Una volta giunto nel regno dell’imperatore ‘Al’améda, assiso sul trono di Axum, passò del tempo assieme agli altri otto Santi, prima di essere costretto a rifugiarsi sulle montagne. Dove, trovata una grotta idonea, vi rimase per 45 anni, rigidamente in piedi e raccolto in preghiera, operando miracoli e guarendo gli ammalati. Alla sua dipartita, quindi, tale luogo fu dichiarato sacro, e attraverso una lunga opera di riqualificazione, trasformato in una vera e propria chiesa. Un destino non largamente dissimile, probabilmente, da quello toccato ad Abba Yem’ata, colui tra i suoi colleghi che scelse di dirigersi presso la montagna di Hawzen, nella parte settentrionale del Tigrè, dove negli anni successivi sarebbe stata scavata la chiesa che porta il suo nome. Proprio così, non certamente eretta: stiamo parlando essenzialmente di un’apertura che si apre letteralmente nella roccia, a strapiombo sulle vaste valli incontaminate di uno dei luoghi più caratteristici della Terra. Dove i (pochi, coraggiosi) fedeli venivano chiamati a raccolta, non prima di una lunga e difficile scalata e attraverso alcuni “ponti” ricavati da una coppia di tronchi, grazie all’impiego di un paio di campane, in realtà rocce legate a delle corde per far riecheggiare il loro impatto sopra il baratro senza tempo. Ma raramente coloro che effettuavano la traversata, poi se ne pentivano, vista l’occasione di sperimentare con i propri occhi la gloria stessa del Signore. Attraverso i numerosi affreschi, di fattura estremamente pregevole e caratteristica, rappresentanti le storie della Bibbia ed alcuni importanti episodi nella vita dei Nove Santi. Un fascino che dura ancora, come sperimentato da una manciata di turisti ogni anno, per lo più appartenenti alla categoria degli scalatori, alpinisti e free-climbers, possessori di una serie di doti che in effetti, vengono date per scontate nel selvaggio Tigrè. I sacerdoti locali quindi, come da prassi particolarmente nota, faranno il possibile per accogliervi, offrendo pietanze locali e mostrando la parte migliore dei loro tesori. Ben più problematico, nel frattempo, sarà compiere la scalata, per poter effettuare la quale sarà necessario pagare le inevitabili guide locali, il cui stile d’insegnamento e le pressioni fatte per salire più in fretta, almeno a giudicare da alcuni resoconti online, risultano essere tutt’altro che graditi ai più. Davvero certe spiacevoli implicazioni del turismo non cambiano mai, qualunque sia il paese preso in esame.
Altre chiese importanti includono quella di Petros we Paulos, in parte scavata ed in parte residente all’interno di un candido edificio, costruito con legno e mattoni, attorno al quale sono tutt’ora disseminati gli scheletri degli antichi pellegrini, in una sorta di mistica ed inquietante sepoltura all’aperto. Eclatante fu il caso negli anni 2000 dell’incidente subìto da una donna, che precipitò e perse la vita mentre si recava per assistere alla funzione mattutina, caso a seguito del quale venne disposta una ripida scala saldamente infissa nel fianco della montagna. Curioso è il rituale associato a Medhane Alem Adi Kasho, chiesa che sarebbe dotata di poteri curativi, per sprigionare i quali i visitatori venivano invitati a spalmare del miele sulle colonne della sala principale, prima di assumerlo direttamente mediante l’impiego della loro stessa lingua (fonte: New Faces, New Places). In altri luoghi, letterali singole camere strappate con lo scalpello alla compattezza del rilievo orografico, tutto ciò basta è scrutare pensierosamente verso l’incredibile panorama. Acquisendo, spontaneamente, una momentanea comprensione della gloria del Creatore.
Se l’analisi della religione permette di acquisire una via d’accesso privilegiata alla cultura e alle propensioni di un popolo, allora è indubbio che le genti dell’Etiopia, ed in modo particolare del Tigrè, fossero degli eclettici costruttori in grado d’instradare la possenza stessa della Natura. Poiché la necessità di coltivare un culto in luoghi distanti ed irraggiungibili dalla società non implica, necessariamente, la possibilità di disporre di luoghi degni di essere citati in un antologia sull’architettura che sfrutta il paesaggio.
Se tali strutture esistono, è quindi in funzione di ciò che sarebbe diventato, molti secoli dopo, lo stesso concetto della chiesa monolitica etiope, generalmente associato alla singola città di Lalibela (regione di Amhara) dove 11 luoghi di culto furono ricavati da altrettanti poderosi macigni, spesso al di sotto di quello che potrebbe essere definito il livello del suolo. Se uno spazio abitativo è ricavato da un rilievo paesaggistico chiaramente distinto, come un amba, non si tratta dopo tutto della stessa identica cosa? La stanza ricavata da un solo sasso. Il buco nella svettante una montagna. Sormontata, presumibilmente, dallo sguardo compiaciuto di Dio.