L’uomo onnisciente dall’alto del suo ramo, tra i recessi più elevati della quercia della sapienza, che divide il mondo in due ali perfettamente distinte. Da una parte le cose della Natura, dall’altro l’opera delle sue stesse mani, tutto quello che deriva da un’opera finalizzata ad uno scopo di convenienza. Ma non è forse, egli stesso, parte del grande flusso che percorre l’universo? Dove dovremmo porre la paratìa divisoria, tra quanto è stato assemblato in una fabbrica del mondo contemporaneo, e il bastoncino usato dai primati per estrarre le deliziosi termiti dal loro nido? Uno strumento resta pur sempre quello: uno strumento. E in quest’ottica non è poi così scontato che il prodotto dell’ingegneria chimica che deriva dalla polimerizzazione espansa dello stirene, usata generalmente come isolante o materiale antiurto per le spedizioni, sia radicalmente diverso dal legno fossilizzato (ovvero la sua derivazione del petrolio) da cui alla lontana deriva. Se ne volete la prova, considerate questo: persino il polistirolo può essere digerito. E con ciò non intendo, meramente fagocitato e lasciato passare attraverso un organismo, per poi emergere sotto diverse spoglie all’altro capo della sequenza degli organi concatenati. Ma da questi ultimi, effettivamente scorporato, nella sua materia costituente, affinché diventi qualcosa di totalmente diverso: concime. E datemi retta quando vi dico che il più delle volte, una volta sepolto, il bicchiere di polistirolo che si usa ai fast-food non aiuta in modo sensibile a far crescere i pomodori. Ottime opportunità di riciclo? Non solo. Considerate che i polimeri sono tra le sostanze più difficili a biodegradarsi, con un tempo di permanenza ipotetica nell’ambiente che supera spesso i milioni di anni. Qui siamo di fronte ad uno dei più innovativi, e diretti, approcci al riciclo nell’epoca della storia contemporanea. Il che non significa, per inciso, che dovremmo metterci a mangiare simili sostanze come fossero l’involucro esterno di un cono gelato. Intanto perché avrebbero un pessimo sapore. E poi, questione non da poco, poiché derivano dalla lavorazione di un liquido notoriamente tossico per l’organismo umano. Ma come si usa dire anche nei proverbi italiani: “La spazzatura di qualcuno, il tesoro di qualcun’altro.” Ed è così che l’autore del Grande Disegno, ovvero il filo del Fato che guida l’evoluzione, deve aver pensato quando ha progettato le larve del tenebrionide, coleottero polifago con circa 15.000 specie diffuse nel mondo, famoso in modo particolare per la sua tendenza a infestare la farina. Ma come fu scoperto nel 2015 attraverso un celebre studio dell’Università di Stanford di Yu Yang et al. (Biodegradation and Mineralization of Polystyrene by Plastic-Eating Mealworms) altrettanto capace di trarre nutrimento dalla candida sostanza che un tempo proteggeva i nostri dispositivi elettronici fino all’acquisto, prima che fossero inventate le scatole di cartone ad incastro che vanno per la maggiore di questi tempi. Ma cosa più sorprendente ancora: senza risentirne affatto, tanto che le larve nutrite esclusivamente di un simile scarto del mondo moderno, non hanno incontrato alcuna difficoltà a raggiungere lo stato di ninfa, per poi trasformarsi in scarabeo e sfarfallare via, in cerca di una compagna assieme alla quale portare a termine l’atto riproduttivo. Polistirolo per me, polistirolo per i miei figli. Polistirolo per i figli dei miei figli?
Difficile da credere, poco ma sicuro. Talmente assurdo che lo YouTuber scientifico The Thought Emporium, facendo il favore a un amico di tenergli la lucertola barbuta durante un viaggio all’estero nel periodo del Natale scorso, non poté fare a meno di mettere alla prova l’idea. O meglio di farlo per il tramite di un approccio, se vogliamo, persino più avanzato di quello dell’accademia costituita. Questo perché i professori e i loro assistenti di Stanford, alla compilazione dello studio, avevano impiegato principalmente un particolare tipo di larve, appartenenti all’insetto Tenebrio molitor, comunemente noto come mealworm. Ma come ben sa qualsiasi erpetofilo, o comunque possessore d’animali domestici insettivori (ad esempio la carpa koi giapponese) esistono al mondo esseri brulicanti parecchio più impressionanti e massicci all’interno della stessa famiglia biologica. Tanto da meritarsi l’appellativo indubbiamente significativo, in questo ambiente di appassionati senza riserve, di supervermi.
Il ragionamento messo in campo da questo ingegnoso ragazzo, sulla carta, non fa una piega: se un verme della lunghezza di un centimetro e mezzo mangia e trasforma una certa quantità di polistirolo, che cosa farà un suo cugino misurante tra le quattro e cinque volte dalla testa alle piccole pseudo-zampe, situate in corrispondenza della parte posteriore del corpo? Lo Zophobas morio, talvolta chiamato anche “re verme” è in effetti una creatura dalle molte risorse, in grado di adattarsi a contesti di alimentazione straordinariamente vari. Che proprio per questo, è stata sempre particolarmente amata da chi ha necessità di fornire ai propri beniamini squamosi delle ingenti quantità di biomassa artropode. Questi vermi possono essere tenuti in un apposito contenitore, con considerevole riduzione delle spedizioni richieste al negozio di animali. E c’è un’ulteriore misura di convenienza: se tenuti a stretto contatto con i loro simili, essi non passano mai allo stadio successivo del ciclo vitale, permettendo uno stoccaggio su tempi persino più lunghi di quanto si potrebbe tendere a pensare. Così quando l’amico di Mr. Thought Emporium ha sentito della sua propensione a verificare l’esperimento di Stanford, non ha esitato a fornirgli una quantità sufficiente di supervermi a realizzare un progetto dotato del migliore presupposto scientifico: l’analisi statistica su un gruppo distribuito. Ciò detto, iniziare subito con la totalità delle piccole creature sarebbe stato decisamente anticlimatico. Così lui ha preso un barattolo, ci ha messo un pezzo di polistirolo e da principio, soltanto 5 vermi. L’effetto fu subito evidente: nel giro di appena un giorno, sull’ammasso di stirene espanso hanno iniziato a comparire dei buchi, non dissimili da quelli visibili sulle foglie delle piante infestate dai bruchi. Mentre sul fondo del contenitore, prevedibilmente, iniziava a comparire la deiezione insettile convenzionalmente definita come frass, in realtà molto utile nel campo dell’agricoltura. Di un colore, tuttavia, chiaramente bianco, come se il polistirolo non fosse stato effettivamente digerito dai vermi. Se non che il nostro eroe iniziò ben presto a rendersi conto di due cose: primo, che la massa complessiva di quanto defecato dai vermi era notevolmente inferiore al polistirolo di partenza, nonché compattato in delle particelle simili a una polvere finissima. Il che voleva dire, secondo la legge della conservazione dell’energia, che almeno una parte della materia di partenza doveva essere stata scorporata ed era rimata a vantaggio del piccolo organismo strisciante. E secondo, che i padroni di casa, portata a termine l’espulsione, iniziavano a subito a mangiare di nuovo l’ammasso di deprecabili particelle, quasi come se esse contenessero ancora delle sostanze utili a trarne del nutrimento. Ed è a questo punto, secondo quanto documentato chiaramente dalla videocamera, che accadeva la magia: perché dopo la seconda o terza ingestione, immancabilmente, il polistirolo cambiava colore, tingendosi di un marrone che, nell’opinione di Thought Emporium, potrebbe essere un chiaro segno dell’avvenuto mutamento del polimero di partenza in qualcosa di radicalmente diverso. Il processo è quindi continuato per diversi giorni, accelerando all’aggiunta di ulteriori 20 esemplari, arrivando a far scomparire la maggior parte del pezzo di polistirolo prima del ritorno dell’amico e proprietario dei vermi dalle vacanze.
Le implicazioni, in effetti, potrebbero essere monumentali. Immaginate, afferma l’autore, quantità equivalenti ad intere piscine di questi insetti che vengono scaricati in un impianto apposito, consumando a velocità record l’intero prodotto americano di polistirolo… Per poi essere dati in pasto, poco prima di trasformarsi in scarabei, a schiere di galline, che a loro volta potrebbero crescere per fare da ostacolo al diffondersi della fame del mondo (o eliminare l’intermediario, e nutrirci direttamente dei vermi…) Un proposito certamente valido a risolvere problemi plurimi in un colpo solo, che tuttavia richiederebbe ulteriori gradi di analisi prima di essere implementato. Siamo sicuri, ad esempio, che gli organismi tirati su esclusivamente a polistirolo non contengano dei princìpi tossici in grado di diffondersi a chi dovesse nutrirsene, secondo il processo di accumulo noto come biomagnificazione? Di certo lo stirene non ha alcun effetto nocivo sui vermi. Ma noi non eravamo vermi, l’ultima volta che ho controllato.
E poi, va analizzata l’effettiva efficienza di un simile approccio allo smaltimento: il polistirolo effettivamente, in un contesto industriale, non è poi così difficile da liquefare con l’acetone. O incenerire col fuoco, trasformandolo essenzialmente in anidride carbonica. Con il risultato imprescindibile, tuttavia, d’inquinare un altro po’ l’ambiente. Ciò che determina l’intera fattibilità dell’idea, dunque, è l’ipotesi che i supervermi riescano effettivamente a trasformare detto polimero in un qualcosa che non presenti più propositi negativi per il mondo che ci circonda. Evidenti o meno evidenti. Prossimi o remoti. Perché non importa quanto scegliamo di non guardare davanti. Prima o poi, l’avvicinarsi dell’esaurimenti finale ricoprirà del tutto la nostra porta d’accesso privilegiata verso il sentiero dell’indomani. E sarà allora che ci ricorderemo dei coleotteri che ogni cosa mangiano, con un sorriso delle mandibole che non conoscono la stanchezza. Mentre noi dolcemente affoghiamo, in un oceano di candido e indeperibile polistirolo.
1 commento su “Non si può vivere di solo polistirolo (vermi esclusi)”