Un’intera tavolata di funzionari, politici locali ingegneri ed architetti, oltre ai capi dei pompieri e della polizia, gli aldermanni, i direttori dei comitati costituiti dai diversi quartieri della città. E a capotavola, con atteggiamento compunto, niente meno che il Principe del Galles, Carlo d’Inghilterra. L’anno è il 1987, l’occasione: una cena della Corporation of London presso il palazzo reale di Hampton, organizzata per presentare la medaglia d’oro all’architetto indiano Charles Correa. Inaspettatamente, la conversazione devia verso un argomento piuttosto delicato. In un’espressione accalorata dal tenore non propriamente British, l’eterno erede al trono pronuncia una frase destinata a restare negli annali: “Bisogna ammettere una cosa in merito alla Luftwaffe. Quando ha bombardato i nostri palazzi, almeno non li ha rimpiazzati con niente di più offensivo che un cumulo di macerie.” Risate nervose, un lungo silenzio. Lo sguardo di lui diretto con sicurezza a nord-ovest, attraverso la finestra, dove attraverso il complicato skyline cittadino, si scorgono appena tre torri. I loro nomi? Cromwell, Shakespeare e Lauderdale. Per molti, parte di un incubo di cemento che getta la propria ombra sui londoners senza colpa. Per alcuni, tra cui la stessa regina Elisabetta: “Uno dei miracoli più significativi dell’epoca moderna.” Che differenza. Del resto, la chiave interpretativa non può che essere differente, per l’unico capo di stato ancora in vita che quella guerra l’ha vissuta in prima persona, arrivando a servire come autista e meccanico nel Corpo Ausiliario delle Donne Volontarie, ottenendo ovviamente il rango di comandante onoraria nel giro di poche settimane. Lei, tuttavia, c’era. E quando quei palazzi sono risorti dalle ceneri di una delle epoche più cupe nell’intera storia del Regno Unito, deve certamente averli interpretati come un segno di cosa potesse riuscire a fare il popolo inglese, quando gli riesce di mettere da parte le sue differenze. Furono il frutto di un grande concorso pubblico, questi palazzi e il loro intero quartiere, che vide l’assegnazione, a partire dagli anni ’60, della riqualificazione della zona allo studio di giovani architetti Chamberlin, Powell and Bon, già famosi per aver costruito il complesso di case popolari di Golden Lane. I quali, in quegli anni di boom economico, erano fermamente intenzionati a rivoluzionare il concetto di vita urbana, attraverso una serie di soluzioni che non avevano mai trovato precedente applicazione sull’isola di Robin Hood.
Così sorse The Barbican, l’utopia. E al tempo stesso una distopia, apparentemente fuoriuscita dai romanzi di fantascienza sul più oscuro destino dell’umanità. 140.000 mq, occupanti la zona dove ai tempi antichi sorgeva un forte romano presso il fiume Tamigi, nel pieno centro della città. Costruito sui resti dei bombardamenti tedeschi secondo i crismi estetici del modernismo dell’architetto svizzero Le Corbusier, da cui i tre londinesi dissero di aver tratto la loro principale ispirazione. Ma attraverso una lente che guardava ancora più avanti, quella della corrente cosiddetta (non senza una certa carica denigratoria) del brutalismo architettonico, che non venne mai formalizzata con un suo fondatore, manifesto o precise misurazioni operative. Certo: nessuno voleva averci a che fare, ufficialmente. Ma che vide spuntare i suoi formali e rigidi prodotti qui e là in Europa, negli Stati Uniti e soprattutto all’interno dell’Unione Sovietica, dove diede i natali alla più grande parte dei monumenti e delle strutture sanzionate dal partito. Finendo per diventare, irrimediabilmente, uno dei simboli di quest’epoca e quelle immediatamente a venire. Certo a guardarli oggi, i tre grattacieli inclusi nel progetto fanno una certa impressione. Parallelepipedi di 42 piani, completamente grigi e privi di tratti distintivi, circondati da un intero complesso di 13 palazzine residenziali rese lievemente più slanciate unicamente dal modulo dei semicerchi bianchi, che si ripete lungo l’intero confine superiore delle facciate-muro. Perché in effetti, è di questo che si tratta: una vero e proprio castello, come suggerisce anche il suo nome (il barbacane fu, tra le alte cose, una fortificazione medievale) nettamente separato da ciò che lo circonda. Nessun segno del traffico o il vociare costante della città di Londra. È un luogo stranamente silenzioso dove le automobili non possono accedere, abitato principalmente da tecnici e artisti benestanti, che occupano in solitario l’infinità quantità di appartamenti, piuttosto piccoli e costosi per il tenore di vita dell’epoca contemporanea. Le finestre interne si affacciano su piazze verdi, i cui sentieri di accesso sono volutamente poco visibili dalle strade esterne. E strutture comuni come una grande serra, un museo e una libreria permettono, per lo meno in linea di principio ai suoi residenti di godersi la vita senza mai dover uscire da questa zona privilegiata e distinta. Senza dover entrare troppo nei particolari, tuttavia, sarà il caso di sottolineare che non fu sempre così…
All’epoca della sua prima edificazione, il Barbican fu finanziato analogamente al già citato Golden Lane coi fondi del sistema delle Council House, case costruite dal governo e poi date in affitto ai residenti a un prezzo di convenienza. Esso doveva costituire quindi un ausilio al problema della mancanza di luoghi per vivere, benché rivolto a un pubblico della classe media borghese, vista la complessità e qualità complessiva del progetto. Soprattutto per questo, furono inclusi appartamenti per tutte le tasche, secondo una visione che prevedeva un muoversi delle famiglie verso i piani più alti, man mano che il loro standing sociale aumentava di pari passo con la carriera. In questo, la tentacolare creazione di Chamberlin, Powell e Bon ricordava sostanzialmente il concetto di un’arcologia, la “città nella città” teorizzata per la prima volta dall’architetto italiano Paolo Soleri e portata alle sue più estreme e cupe conseguenze da autori come letterari Peter Hamilton, Ben Bova e Paulo Bacigalupi. È del resto lo stesso brutalismo, come stile, che tende ad essere interpretato come disumanizzante. Gli svettanti ed enormi edifici, privi di grazia in senso classico, in cui la funzione deve dominare sulla forma. E nessuna concessione viene fatta ad alcun margine di presunta frivolezza, con elementi mirati ad alleggerire o rendere più piacevole il profilo degli edifici. Mentre l’impiego di materiali dall’alto grado di utilità che non vengono più nascosti, quanto piuttosto portati in massima evidenza. Perché la funzione dovrebbe costituire, in se stessa, un merito da evidenziare. Nel Barbican, ad esempio, fu applicata una procedura che prevedeva il trattamento delle pareti più esposte con dei martelli pneumatici, per mettere in evidenza la granularità del cemento e creare profili d’ombra più esteticamente intriganti. L’elemento del camminamento sopraelevato, usato per collegare tra loro i diversi edifici, diventò anch’esso un tratto distintivo, quasi ad evidenziare la natura fluttuante di questo mondo a parte, intenzionalmente costruito ad un livello superiore dal suo vicinato.
I più critici dello stile, come il principe Carlo, tendono inevitabilmente a criticare l’incapacità di simili strutture nell’integrarsi in un’armonia pre-esistente, costituendo un punto di stacco troppo netto con la precedente architettura cittadina. Inoltre non aiuta il fatto che il cemento lasciato intenzionalmente scoperto tenda, soprattutto in un ambiente umido come quello delle isole inglesi, a macchiarsi a chiazze col tempo, dando agli edifici un aspetto vagamente dismesso che non corrisponde assolutamente a verità. Anzi: negli anni a partire dalla sua costruzione, questo complesso è diventato famoso per il senso di comunità che riesce ad indurre nei suoi residenti, notoriamente puntuali in molte attività di abbellimento civile come il mantenimento del verde pubblico e l’esposizione di piante sui balconi. Così che vivere tra queste mura, in posizione assolutamente centrale nella city, è diventato negli anni un segno d’indubbio prestigio, con le case che passavano progressivamente di mano fino ai ceti sociali più alti. Già, perché lo stato non ci mise molto, al termine della luna di miele, a trasformare il sogno del Barbican in un qualcosa di riservato a…
La responsabilità viene generalmente attribuita all’amministrazione della lady di ferro Margaret Thatcher, che tra il 1979 e il 1990 mise in atto una politica di privatizzazione a tappeto, che vide tra le altre cose la messa in vendita della stragrande maggioranza delle case popolari londinesi, scelte tra quelle di maggior prestigio e interesse economico per il mercato immobiliare. Così nel giro di pochi anni, i più facoltosi affittuari del Barbican si avvalsero del diritto di prelazione per acquistare l’abitazione, mentre altri furono indotti a trovare una sistemazione più consona alle loro disponibilità finanziarie. Fatto sta che al giorno d’oggi, quasi nessuno dei residenti paga più l’affitto al governo, né a proprietari terzi. Quasi come se il privilegio di vivere in questo mondo a parte fosse in se stesso talmente meritorio, da prescindere il desiderio di una rendita ulteriore.
Molti studi sono stati redatti, alla ricerca di cosa abbia permesso a questo complesso di “appartamenti chiusi” di raggiungere uno stato di equilibrio duraturo, laddove innumerevoli altri, costruiti con gli stessi metodi nell’intero territorio inglese ed altrove, non hanno tardato a trasformarsi in covi del degrado più drammatico e vari tipi di criminalità. La spiegazione più probabile a cui si giunge, tuttavia, è sempre la stessa: fu merito del suo trovarsi al centro esatto di una delle zone diventate destinate a diventare più ricche di tutta Londra e per estensione, del mondo intero. Il che, in un certo senso, dimostra una visione ottimistica dell’animo umano. Quasi nessuno si rivolge alle attività illecite, a meno di averne bisogno per sbarcare il lunario? Un’ottica secondo cui, talvolta, la separazione tra i diversi settori di una città non è più (necessariamente) un male.
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