È una legge di natura ampiamente nota, quella secondo cui più ci si avventura in profondità dalla superficie del mare, maggiormente si si trovi al cospetto di animali che paiono provenire da un diverso pianeta. A patto di riuscire a trovarli: poiché oltre i 5.000 metri al di sotto del volo dei gabbiani, sussiste un ambiente di assoluta e inconcepibile oscurità, dove la distanza media tra singole creature visibili ad occhio nudo si misura spesso in centinaia di metri, se non di più. In cui l’unico punto di riferimento, a patto di essere molto fortunati, è la lanterna luminescente sulla fronte della rana pescatrice, tenebroso divoratore di altri esseri decisamente meno intraprendenti. Denti aguzzi, ossa rigide, grandi polmoni e reni, un sistema nervoso perfettamente sviluppato. Stiamo parlando, a tutti gli effetti, di un tenace e pericoloso predatore, in grado di attrarre a se la preda, piuttosto che dover andare a cercarla. Ma spingiamoci ancora oltre, o per meglio dire inviamo laggiù i nostri strumenti, e quello che vediamo potrebbe stimolare in noi il senso dell’impossibile scoperta: oltre i 6.000, sotto i 7.000, fin quasi nel punto più remoto della depressione più irraggiungibile del baratro incalcolabile nelle profondità del Nulla. O come sono soliti chiamarlo i geografi, la fossa delle Marianne. Dove, ad 8.000 metri di profondità, le telecamere dei Friday Harbor Laboratories, inviate assieme ad una certa quantità di esche irresistibili, hanno iniziato a scorgere dal 2014 una forma di vita piuttosto peculiare. Stiamo parlando, essenzialmente, di un appartenente alla famiglia dei liparidi o pesci lumaca, parenti prossimi degli scorpaeniformi (scorfani) che hanno sviluppato, nel corso dei secoli, adattamenti molto particolari. Tanto che è possibile trovarli, oggi, nei luoghi più inaspettati: tra le foreste di kelp del golfo di St. Lawrence, così come nella cavità interna delle conchiglie Placopecten magellanicus, con le quali hanno stabilito una relazione di mutua convenienza. Oltre i fondali inclinati e fangosi dei margini continentali, così come al di sotto persino di tali luoghi, quasi oltre la crosta stessa di questo azzurro e sconosciuto pianeta.
Il liparide in questione, scoperto vivere in nutriti branchi in maniera del tutto dissimile da quasi ogni altro pesce abissale, ha preso quindi l’appellativo scientifico di Pseudoliparis swirei, dal nome di Herbert Swire, ufficiale di navigazione a bordo della spedizione Challenger, che a partire dal 1872 effettuò la prima circumnavigazione oceanografica del globo, sondando per prima l’effettiva profondità della fossa delle Marianne. Una scelta atipica, che ha sostituito quella più consueta di qualche celebre naturalista o scienziato, compiuta coscientemente per ringraziare i propri collaboratori da parte della responsabile della ricerca Mackenzie Gerringer, che negli scorsi giorni, dopo una lunga analisi dei dati morfologici raccolti, ha pubblicato sulla rivista Zootaxa una descrizione scientifica della creatura. Senza inoltrarsi necessariamente nelle misure e descrizioni più minuziose (comunque disponibili all’interno dell’articolo lliberamente consultabile online) il nuovo liparide ha un aspetto grottesco ma stranamente familiare, totalmente privo di scaglie e di un diafano colore rosa. È lungo all’incirca una quindicina di cm. La sua coda appuntita, simile a quella dei pesci topo (Macrouridae) può vantare una somiglianza ancor più marcata a quella dei piccoli di rana, causa la prominenza della grande testa bulbosa, punteggiata da occhietti neri dalle funzionalità decisamente ridotte. Privo di una dentatura particolarmente sviluppata, si tratta comunque di un pesce carnivoro, che va a caccia di piccoli gamberi e altri organismi del suo ambiente remoto, che cattura risucchiandoli con la piccola bocca spalancata. O forse sarebbe più appropriato dire, nuotandogli semplicemente attraverso, vista la natura assolutamente rudimentale del suo sistema digerente e l’assenza di qualsivoglia vescica natatoria. Certo: a ben pensarci, non poteva affatto essere diversamente, vista la spaventosa pressione a cui viene sottoposta una creatura a simili profondità, paragonata in modo eloquente da alcuni commentatori a “un elefante che si appoggia sul vostro pollice teso.” In altri termini, superiore di oltre 1.000 volte a quella dell’acqua di superficie, tanto che un essere umano, qui sotto, morirebbe nel giro di un istante, per il catastrofico collasso dei propri polmoni. Se non per la formazione di bolle d’idrogeno nella circolazione del sangue, o il semplice schiantarsi delle proprie ossa, rese più fragili dalle bassissime temperature. Come è possibile, dunque, che un essere tanto piccolo e all’apparenza fragile possa condurre una tranquilla esistenza in un luogo tanto inospitale?
Gli adattamenti sono prevedibilmente molteplici, e piuttosto in linea con quelli riscontrati in altre specie di pesci abissali. Per quanto concerne la componente ossea della loro anatomia, essi possono contare sulla presenza al loro interno dell’elemento silicio, che non presenta le stesse limitazioni termiche del calcio impiegato dagli esseri di superficie. Un altro artificio è l’essere composti in massima parte d’acqua, un liquido che non può essere compresso se non in maniera infinitesimale, garantendosi una forma invariabile persino sotto la forza costante d’incalcolabili quantità dello stesso fluido trasparente. Persino i loro muscoli sono composti in massima parte di liquido, donandogli una potenza di nuoto decisamente limitata. Per quanto concerne invece la conservazione dell’energia in un ambiente tanto inaccessibile, i liparidi abissali possono contare sulla semplicità essenziale del loro fisico, che presenta ben pochi organi e tutti di tipo rudimentale, incluso un cuore che batte una volta ogni svariati minuti. Nonostante tali caratteristiche poco entusiasmanti, la Mackenzie riesce a trasmettere nel suo studio il senso di sorpresa vissuto da lei e il resto dell’equipe, al momento dell’apertura delle trappole, seguita dalla scoperta del loro contenuto relativamente ben nutrito e paragonabile, per apparente successo nella caccia, a qualsiasi altro pesce carnivoro di altri ambienti più noti. È apparso perciò chiaro, fin dal primissimo momento, che l’evoluzione doveva aver dotato questi esseri di un qualche segreto strumento, che gli ha permesso di trarre il meglio da una nicchia ecologica per lo più priva di concorrenti. Una sicura ricetta, questa, per garantirsi una sopravvivenza continuativa nel tempo.
Dal punto di vista riproduttivo sappiamo invece molto poco su questo pesce, benché le uova presenti nelle femmine siano state sottoposte ad un’approfondita analisi presso lo stabilimento scientifico di Friday Harbor. Esse sono risultate stranamente variabili nelle dimensioni, con esemplari che ne possedevano fino a 851 del tipo più piccolo, o soltanto 23 di dimensioni relativamente grandi (9,4 mm, soltanto 0,4 delle maggiori noti nella loro famiglia). Naturalmente, al momento dell’analisi ogni singolo esemplare era già passato a miglior vita: per simili creature, l’esperienza di essere trascinate in superficie può essere paragonata a quella di un’umano che si trovi improvvisamente nel vuoto al di fuori dell’atmosfera. Le abitudini riproduttive variano sensibilmente nei liparidi, con una specie in particolare del Pacifico del Nord (Careproctus ovigerus) che arriva a far custodire le uova nella bocca del maschio, che rilascia i piccoli al momento della schiusa. Non sono state trovate prove in relazione all’esistenza di una simile prassi nella vita dello Pseudoliparis swirei.
Pescare per conoscere, uccidere per studiare. Non è semplicemente possibile, per un essere umano, pensare di poter toccare con mano un simile pesce nel suo ambiente di provenienza. E sarebbe possibile far vagare i propri sommergibili per settimane o mesi, prima di giungere a contatto con un solo branco di queste creature. È per questo che lo scienziato deve dimenticare gli indugi, adottando per la sua ricerca tecniche di furbizia spesso a discapito della sopravvivenza del proprio oggetto di studio. È un’imprescindibile legge di natura, o per essere più specifici, di approfondimento intellettuale di tutto ciò che ci circonda. Oltre i confini del cosmo più remoto, così come quaggiù, sotto i nostri stessi piedi di meri camminatori di superficie. È stato ragionevolmente affermato, in effetti, come sia maggiore il numero di persone che hanno lasciato l’atmosfera terrestre, rispetto a quelle che sono arrivate, con un batiscafo, fino alla profondità di Challenger Deep, il punto sondato per la prima volta nella spedizione di tanti anni fa.
E lo credo: quanto è più invitante puntare un telescopio verso l’immensità del cielo, facendo seguito coi propri gesti coraggiosi, piuttosto che buttare una gabbia legata ad un cavo ed attendere ore, finché non si riceva il segnale di un qualcosa, o qualcuno, che si agita debolmente al suo interno… Simili scoperte ci danno da pensare su quanti segreti, ancora del tutto inimmaginabili, possano nascondersi anche nel nostro più prossimo vicinato. Quali mostri e altri fantastici animali, ci possano attendere sotto il ghiaccio impenetrabile delle lune di Giove o Saturno…