1795: una visione artica, un sogno ed un incubo, la scena di un dramma teatrale che trascende la mera plausibilità. Un episodio che, come spesso capita nella storia della guerra, può essere raccontato in molti modi. Ma personalmente, preferirei di gran lunga questo: il profilo di vele distanti, che si stagliano in diagonale contro il promontorio che è l’isola di Texel. Siamo all’ingresso dello Zunderzee, il principale mare interno dei Paesi Bassi, un luogo chiamato Helsdeur (la Porta dell’Inferno) per le terribili correnti oceaniche che ne sconvolgono le acque, scaraventando egualmente le navi contro gli scogli e le dune sabbiose della riva antistante il paese di Den Helder. Sabbiose per la maggior parte del tempo, ma non quella notte illuminata fiocamente dal chiaro di luna. Quando la morsa stessa del gelo ha trasformato sia la terra, che l’acqua, nella stessa identica cosa: una distesa immutabile di solido e impenetrabile ghiaccio. Sul quale, come fantasmi dell’oltretomba, avanza una schiera di cavalli. Ciascuno recante in arcione un ussaro, assieme ad un fante dell’esercito francese, fucili e sciabole saldamente assicurati nei loro foderi per evitare il benché minimo tintinnio. Persino gli zoccoli degli animali sono stati avvolti nella stoffa, forse anche per favorire una presa migliore sul suolo così pericolosamente scivoloso. Finché una vedetta sul ponte del primo battello, posta a guardia dal suo capitano, non scorge le ombre che avanzano, dando prontamente l’allarme. Ma a quel punto è già troppo tardi. Poiché per uno scherzo crudele del destino, al momento in cui le navi sono state bloccate dal ghiaccio, si sono trovate orientate in maniera obliqua, con tutte le bocche da fuoco puntate verso il basso. Senza la copertura dell’artiglieria, i marinai sconvolti non riescono a respingere l’assalto. I cavalli partono al galoppo, mentre i loro padroni lanciano colpi d’avvertimento. I rampini compaiono nelle mani dei loro secondi, pronti a balzare a bordo con grida di battaglia spaventevoli e furibonde. La nave ammiraglia viene costretta ben presto alla resa, portando le altre a seguirla. In una singola notte, la guerra di liberazione d’Olanda finisce ancor prima di cominciare.
C’è un lampo insolito, nello sguardo mostrato nei ritratti d’epoca dell’ex ammiraglio della flotta olandese Jan Willem de Winter (inverno, un nome, un programma) passato nel 1787 all’Armata Rivoluzionaria di Francia assieme agli altri nemici dell’Ancien Régime. Il contegno atipico di un ufficiale militare in grado di elaborare piani fuori dagli schemi, e tuffarsi nella battaglia determinato a portarli fino alle loro più estreme conseguenze. Ma forse “tuffarsi” non è il termine più adeguato, viste le circostanze. È più una questione di camminare, anzi galoppare sulle acque stesse oltre cui aveva pensato di nascondersi il suo nemico. A quei tempi, quando la guerra non era tanto una scienza sottile studiata da schiere di tattici laureati, per poi essere decisa a tavolino da gente incapace di sfidare a volto aperto il frastuono caotico della battaglia, ma il frutto delle decisioni prese sul campo da individui talvolta inetti, talvolta geniali. Qualche volta, talmente ambiziosi da risultare completamente pazzi. Avete presente Napoleone? Il più scaltro e capace, lo svelto, il genio in grado di conquistare l’Europa grazie alla semplice forza di volontà. Ma non fu l’unico, né il primo. In uno scenario in cui, al rendersi conto della fin troppo letterale decapitazione di Francia e dopo il Terrore causato dalla fazione di Robespierre, le nazioni confinanti si unirono in una lega ufficiosa, con lo scopo dichiarato di punire l’arroganza dei rivoltosi, e quello non tanto ufficiale di spartirsi i territori di una nazione che sembrava ferita e incapace di reagire. Che errore! Fu così che nel 1792, compresa fin troppo bene la situazione, il direttorato della Prima Repubblica bruciò le tappe, dichiarando guerra ad Austria e Prussia, assieme al loro storico alleato, l’Olanda di William d’Orange, Statolder delle Sette Province Unite. Una confederazione di stati del settentrione, uniti storicamente a partire dal momento in cui ci si era resi conto che una “Potenza” poteva avere colonie all’estero, massimizzando così i suoi profitti in ambito commerciale. E governato da un inglese, secondo le complicate relazioni dinastiche della casa d’Hannover. Il quale, pur avendo competenze militari tutt’altro che trascurabili, era pur sempre sicuro di una cosa: che il suo paese non sarebbe stato invaso d’inverno. Quando le strade erano avvolte da una coltre di ghiaccio, e l’aria stessa pareva del tutto irrespirabile per quanto era infusa del gelo al di fuori della semplice concezione umana. Se non che, egli non aveva considerato due fattori: il primo, l’odio che il suo popolo nutriva ormai da anni verso il governo assolutista di un sovrano proveniente dall’estero, riacceso dalla trionfale vittoria dei rivoltosi nella terra di Francia. Talmente acuto da permettere, a un’armata francese percepita come liberatrice, di ricevere approvvigionamenti nel corso della sua marcia, senza bisogno di una catena logistica preparata nei benché minimi dettagli. E secondo, che un fiume, o uno stretto completamente ghiacciati, possono essere attraversati in armi con estrema facilità. Esattamente ciò che si dimostrò in grado di fare il generale Jean-Charles Pichegru, inviato dal governo repubblicano a riformare il concetto stesso di cosa dovesse essere Olanda.
Pichegru era, come molti altri trionfatori sui campi di battaglia delle guerre rivoluzionarie, un uomo del popolo, che il caso voleva fosse stato anche l’insegnante di matematica di Napoleone, presso la scuola militare di Brienne-le-Château. Nel 1783 entrò nel primo reggimento d’artiglieria, dove fece rapidamente carriera fino al grado di secondo tenente. Allo scoppio della Rivoluzione nel 1789, quindi, fece la scelta giusta di allearsi dichiaratamente coi Giacobini guadagnandosi la loro piena fiducia. E il resto, come si dice, è storia. Ormai generale, all’epoca della guerra contro la prima coalizione aveva 34 anni, ed impiegava al suo servizio molte nuove leve dell’organizzazione militare di Francia. Tra cui il nostro eroe di origini olandesi Jan Willem de Winter, protagonista di uno dei fatti più insoliti e imprevisti della sua intera epoca militare. Un personaggio destinato, in seguito, a fare carriera nel suo campo del comando navale vincendo anche una famosa vittoria contro gli inglesi, una volta restituito al paese di provenienza ormai rinominato Repubblica di Batavia, proprio grazie alla vittoria che lui stesso aveva conseguito tanti anni prima con truppe di terra… Per mare. Le circostanze esatte dell’epica vicenda, come accennato più sopra, sono discordanti a seconda della fonte storica selezionata. Il racconto più famoso, e quasi poetico, di questo assalto notturno condotto al chiaro di luna è in effetti proveniente da uno scritto molto successivo (1819) del generale svizzero Antoine-Henri Jomini, che disse di essersi basato primariamente sui diari degli ussari francesi coinvolti nell’episodio. Mentre lo storico olandese coévo J.C. de Jonge nel suo Geschiedenis van het Nederlandse zeewezen (Storia delle questioni marittime dei Paesi Bassi) preferisce basarsi tra gli altri sul resoconto di un membro dell’equipaggio francese, il medico chirurgo della nave “Snelheid”, il quale scrisse “La mattina, uno dei servi venne a informarmi che che c’era un ussaro francese vicino alla nostra nave. Io mi affacciai dall’oblò ed in effetti, lì c’era un ussaro che mi guardava.”
Niente atroce battaglia dunque, nessuna gloriosa carica verso la Storia. Ma una semplice resa, già concordata tra il generale Pichegru e l’ammiragliato, e comunicata alle navi in evidente incapacità di combattere, data la morsa del mare ghiacciato. Nel 1846 il tenente-generale Baron Lahure, facente parte dell’unità sotto il comando di Winters, rispose piccato a de Jonge, inviando una lettera ai giornali secondo cui le truppe francesi avevano effettivamente marciato attraverso il mare ghiacciato per essere ricevuti “de bonne grace” dai marinai olandesi. Paradossalmente tuttavia, non fa menzione esplicita di alcun tipo di battaglia.
Che la carica presso Den Helder sia effettivamente avvenuta, secondo la straordinaria narrazione qui riportata in apertura, resta dunque una argomento di discussione da parte degli storici, interpretabile a seconda dei casi e le proprie preferenze di attendibilità. Il fatto stesso che la storia esista, e sia stata ripetuta attraverso le generazioni, la dice tuttavia lunga sul clima politico e militare di quegli anni. Quando tutto appariva possibile, purché si combattesse dalla parte dei “giusti” e l’assoluta separazione tra lo stato civile e il suo braccio militare permetteva, talvolta, di operare in maniera completamente distinta dalla mera logica del senso comune. Stranamente, simili episodi sono sempre legati alla nascita leggendaria di un particolare tipo d’ideologia. Vedi ad esempio la battaglia del lago ghiacciato di Peipus, combattuta nel 1242 tra il principato di Novgorod e l’Ordine Teutonico, durante cui le pesanti armature dello schieramento tedesco l’avrebbe portato a sprofondare nella sua interezza tra le vendicative acque ghiacciate della Grande Madre Russia. Una vicenda destinata ad essere promossa a mito nazionale dal capolavoro cinematografico del regista Ėjzenštejn sulla vita del condottiero Aleksandr Nevskij (film del 1938). O il leggendario kamikaze (vento divino) che nel 1274, e ancora nel 1281, spazzò via le navi dei mongoli intenzionati ad invadere il distante arcipelago giapponese, e del quale si sarebbero attribuiti il merito stuoli di templi buddhisti, che si dichiararono in grado di influenzare gli elementi con le proprie ferventi preghiere.
C’è sempre qualcosa di mistico e imprescindibile, quando le condizioni del clima si allineano con il volere dei popoli, decidendo accidentalmente il nostro domani. Che parla del nostro difficile, eppure entusiastico rapporto col mondo della natura. Che senso avrebbe, dunque, smentire una simile storia? Soltanto la Luna conosce la verità. E branchi di cavalli marini, sotto la superficie di un mare cristallizzato.