Se non fosse pressoché impossibile, saremmo pronti a giurare che nello sguardo del mostro bitorzoluto compare un lampo riconoscibile d’umana apprensione. L’ansia di un padre, che ha dato tutto per preservare ciò che di più prezioso ha a questo mondo, risultando ormai pronto a trasformarsi nella versione più viscida di una ruspa, spendendo la propria preziosa energia per cambiare le caratteristiche stesse del territorio. Fiume, torrente, rivolo, ruscelletto. Nella distesa secca e arida della savana sudafricana, la vita è sopratutto una questione di prospettive. La pozza piovana che, per i grandi mammiferi in cerca di acqua da bere, appare poco più che una goccia nel mare di erba tendente al marrone, può costituire per qualcun altro l’intero universo in cui trascorrere la prima stagione della propria vita. E quel qualcuno è il girino della Pyxicephalus adspersus, la seconda rana d’Africa per dimensioni e quinta su questo pianeta (ma sappiatelo: nessun altra ha la sua tenacia e capacità d’adattamento). Il luogo del concepimento e anche la nascita, una piazza liquida da occupare pressoché nella sua interezza grazie alla spropositata quantità dei propri fratelli e sorelle. Questione, anch’essa, di prospettive. Come una versione sovradimensionata del familiare spermatozoo, una testa e una coda che si agita per nuotare, puntando sui grandi numeri, perché soltanto un singolo individuo riuscirà a raggiungere l’obiettivo. Trovandosi, finalmente, nell’agognata occasione di replicare biologicamente se stesso. Per quanto concerne l’anfibio, stessa storia: dico, provate voi ad immaginarvi le probabilità di raggiungere all’età adulta quando si nasce in uno spazio ecologicamente sufficiente a sostenere più di una manciata tra le proprie migliaia di concorrenti e co-nascituri, senza parlare di eventuali predatori e il rischio ambientale di fondo. Che poi sarebbe l’inevitabile prosciugarsi, al termine della stagione delle piogge, di un simile piccolo stagno, rigorosamente non permanente. Inizia quindi così, dal momento stesso in cui si è venuti al mondo, la rapida corsa verso la metamorfosi, nella speranza che ai piccoli spuntino le zampe e siano completi i loro polmoni, poco prima che si ritrovino a morire soffocati, rimasti a secco sulla sabbia ormai incapace di trattenere l’umidità. Un triste episodio che purtroppo, rischia fin troppo spesso di verificarsi. Il che come spesso càpita, ha creato nei secoli una specifica strategia evolutiva, che può essere riassunta nell’espressione “salvare scavando”. Una volta completato l’accoppiamento e contestuale deposizione, il maschio è infatti abituato a restare sul posto, al fine di assicurarsi che tutto si svolga nella maniera ideale per le sue giovani speranze per il futuro. È questo lo stato in cui gli abitanti del suo areale, che include Angola, Botwswana, Tanzania e Zimbabwe, sono abituati generalmente a vederla, ferocemente pronta a difendersi da qualsiasi predatore, non importa quanto grosso e feroce. Il maschio della rana toro, più grande della femmina, è pur sempre un animale della lunghezza di fino a 26 cm, ed un peso che supera abbondantemente i 2 Kg, armato di due acuminate proiezioni ossee al posto dei denti, chiamate odontoidi. Più che abbastanza per scoraggiare eventuali serpenti, uccelli e altre creature in cerca di una facile merenda, ma completamente inutili contro il procedere inarrestabile delle stagioni. Ed è qui, quindi, che entra in gioco il tubercolo a forma di pala presente sulle sue due zampe posteriori.
È nella natura stessa dell’evaporazione infatti, che l’acqua tenda naturalmente a raffreddare se stessa, ritardando l’effetto spietato dei raggi solari che vi precipitano sopra dall’alto. Con il risultato che in un luogo come le pianure alluvionali del Gauteng o dello Swaziland, il processo tenda a creare una matrice di singoli casi, ciascuno più o meno capace di resistere al completo prosciugamento. Non è così per nulla insolito, il caso raffigurato qui sopra, del genitore ormai certo che il tempo a disposizione è finito, ed agisce per dare ai suoi figli e figlie il tempo di trasformarsi in dei veri e propri anfibi, in grado di sopravvivere fino alla prossima stagione delle piogge. Egli ha del resto, un piano ben preciso. Mentre osserva con gratitudine il grande lavoro che è riuscito a svolgere, apre la bocca e lascia srotolare l’appiccicosa lingua. Con un tonfo sordo, quella ricade ai margini dello stagno nuovamente riempito. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, lui si riporta in bocca una mezza dozzina dei suoi stessi girini, ed inizia pensierosamente a masticare.
Cibo? Vita? Morte? Credevate che una creatura a sangue freddo come questa potesse restare perfettamente immobile per i 18-33 giorni necessari affinché i piccoli si guadagnino l’indipendenza, nutrendosi esclusivamente di…Che cosa? Non c’è letteralmente nulla, nel suo habitat di appartenenza, che risulti individualmente sufficiente a sostenere il metabolismo della grandissima rana toro. Così tanto per semplificarsi la vita, quella ha iniziato a mangiare qualsiasi cosa si muova e riesca ad entrare nella sua bocca completamente spalancata: insetti, roditori, rettili, serpenti, persino gli uccelli se gli riesce di prenderli (è più agile di quanto possa sembrare) e poi inevitabilmente, rane toro più piccole, nel più efferato crimine concepibile dai codici comportamentali umani: il cannibalismo. Anzi no, qualcosa di persino peggiore, attribuito generalmente a una sola figura nel corso della Storia, il personaggio dantesco del conte Ugolino: mangiare gli stessi individui a cui avevi precedentemente dato i natali. Perché no, in fondo? Questione, ancora una volta, di prospettive: poiché l’essere umano rappresenta, in se stesso, la massima espressione del concetto ecologico di strategia K, in cui vengono prodotti una minima quantità di eredi, ciascuno latore di una significativa fetta di speranza per il domani. Mentre queste rane dal canto loro, come molti altri anfibi, appartengono alla tribù della strategia r, per cui ciascun figlio è individualmente nulla più che una nota a margine del processo riproduttivo. Ed è soltanto l’estrema pluralità degli stessi, alla fine, a consentire che lo meno QUALCUNO raggiunga l’età adulta. Ma se il genitore protettivo dovesse morire di fame, o allontanarsi anche soltanto qualche ora per andare a cacciare, è altamente possibile che i girini finirebbero per lasciare tutti questa valle di lacrime, nessuno escluso.
Una volta portata a termine la trasformazione in rane verso il mese di marzo, gli ex-girini saranno ormai al termine del tempo utile a sopravvivere in superficie, e dovranno iniziare una nuova stagione della propria corsa alla sopravvivenza. Prendendo ispirazione forse da quanto già fatto dal genitore, inizieranno quindi a scavare, per ricavare una tana in cui andarsi a nascondere durante il corso di tutta la secca e caldissima estate. Là sotto, a quel punto, metteranno in moto il processo per liberarsi della loro pelle più esterna, che andrà a costituire un guscio in grado di proteggere e mantenere umido l’animale. Sarà soltanto l’ottobre successivo, successivamente alla caduta di esattamente 23 cm di pioggia, che le giovani rane sopravvissute, al caldo, ai predatori e alla fame del padre, torneranno finalmente in superficie, per fare anch’esse la loro parte nel complicato processo di sopravvivenza della specie.
Nella stagione degli accoppiamenti le rane toro si trasformano, abbandonando la loro consueta indole semi-letargica mirata a conservare fino all’ultima caloria. Iniziano allora ad emettere quel verso da cui prendono il nome, stranamente simile ad un muggito, riunendosi in prossimità delle pozze più vaste ed accoglienti, nella costituzione di veri e propri lek (raduni dei maschi in età riproduttiva). Inizieranno quindi a combattere ferocemente, procurandosi ferite anche piuttosto gravi, mentre gli esemplari più grossi scaraventano letteralmente via con la forza del proprio morso gli sfidanti incapaci di competere con la loro potenza e cattiveria. Finché al centro resterà soltanto lui, il maschio dominante, trionfale mentre affiora dall’acqua, nell’attesa di quello che sa, ben presto dovrà verificarsi: l’arrivo della prossima femmina. Persino allora, tuttavia, qualunque maschio dovesse avvistarla sia accoppierà con lei, ragione per cui il gentil sesso della Pyxicephalus ha imparato a nuotare sott’acqua come un ninja, premurandosi di non essere individuata dal consorte sbagliato. Una dopo l’altra, a turno, tutte quante riceveranno così facendo le attenzioni dell’esemplare più forte, in una nuova analogia con il celebre processo del singolo spermatozoo, trionfatore tra la massa dei suoi simili inadeguati. Il processo di accoppiamento in se stesso risulta essere tra l’altro alquanto traumatico, con il maschio molto più grande che spinge a fondo la partner, rischiando più volte di farla annegare. Mentre si assicura che la spropositata quantità di uova restino fuori dall’acqua al momento della fecondazione, massimizzando la buona riuscita di tale processo per lui niente meno che fondamentale. Gracidando la sua quieta saggezza, la rana scruta nervosa l’assolato orizzonte. Chiunque dovesse pensare di andarla a disturbare, ve lo assicuro, vedrà il proprio sangue prima di sera.
E così via, verso il ripetersi infinito di un simile procedimento. È una delle più incredibili contraddizioni della natura: un genitore tanto devoto ai suoi piccoli, da essere disposto persino a fagocitarli. Perché ancora una volta, distruggere non significa necessariamente annientare, costituendo piuttosto la sicura via d’accesso verso una rinascita futura. Credete che al mondo esisterebbero così tante mucche, se non le mangiassimo al ristorante? E che i cerbiatti brucherebbero ancora l’erba nelle foreste europee, senza l’istituzione continua di nuove riserve dedicate alla caccia? Certo, in un mondo ideale, uomini e bestie potrebbero vivere nell’idillio e l’assoluta comunione d’intenti. Ma allora noi non saremmo più esseri umani. Mentre loro, tutt’altro che beneamati animali.