Mentre ogni settimana le notti si allungano, e il tepore autunnale inizia a dissiparsi trascinato via dai venti della nuova stagione, i giorni di ottobre avanzano rapidamente verso il giorno cardine di una particolare serie di credenze. Che sia Halloween, Ognissanti, oppure il Dia de los Muertos, non importa quanto il brivido che ha origine da profondo del cuore, per estendersi fino alla punta delle dita dei piedi umani. Quando il significato dell’attesa cambia, e persino gli alberi sembrano assumere toni più cupi. Perché tutto è possibile, se si erode il sottile velo tra credenza e realtà. Incubo. Trasformazione. Metamorfosi. Un ritorno al senso di stupore e meraviglia che per sua stessa implicita definizione, trae l’origine dal mondo a volte misterioso dei bambini diventati ormai qualcosa di totalmente diverso. Il caso è raro e anche per questo, mai documentato: ci si sveglia un giorno con un senso di mal di testa, per l’emersione del bottone di montaggio del blocco “cappello”. Quindi s’ingrossano le braccia, mani, gambe, tendendo ad assumere un aspetto insolitamente squadrato. Le spalle si sollevano. Le ginocchia spariscono. Le mani si trasformano in crudeli pinze semi-circolari, in grado di ruotare a 360 gradi. Gli occhi, due puntini neri, accompagnati dall’unico altro tratto somatico di una bocca stilizzata che sorride in un rictus eterno e decisamente inquietante. La quale non si muove, non può muoversi, mentre dall’improbabile creatura si provenire uno strascicato richiamo: “Montaag-gio, montaag-gio!”
E il tutto non sarebbe poi così impressionante, se misurasse appena 4 cm, nell’espressione di un qualcosa che conosciamo fin troppo bene. L’elemento nato come fattore “umano” per le costruzioni più famose della storia danese comparso per la prima volta nel 1975, chiarendo finalmente la dimensione immaginaria dei blocchi modulari per le costruzioni creati da Ole Kirk Christiansen più di 30 anni prima di quella di data, All’epoca, non prevedendo certo di diventare un giorno il personaggio a sostegno di interi franchise d’intrattenimento, inclusi film e videogames, l’omino della Lego era qualcosa di molto più semplice ed impersonale. Una mera sagoma, senza neppure i lineamenti sommari sopra descritti, né braccia e gambe articolate o di nessun tipo. Poiché il cardine del sistema era il mondo delle cose, e perciò sembrava controproducente ridurre il numero di blocchi principali per produrre un qualcosa che comunque, non avrebbe avuto la capacità d’interfacciarsi più di tanto con il resto. Finché il figlio dello stesso Christiansen, Godtfred, non comprese qualcosa di straordinariamente fondamentale e forse all’epoca, meno palese che ai giorni nostri: l’assoluta identità tra gioco ed immedesimazione, ovvero l’importanza di fornire un’ancora ai piccoli, e non tanto piccoli utilizzatori del suo prodotto, prolungando l’esperienza di gioco ben al di là del semplice assemblaggio del contenuto della loro fervida fantasia. Fu un processo per lo più graduale, passando dai set degli anni ’50 dedicati alle categorie operose della società moderna, quali poliziotti, pompieri, addetti alle ferrovie, ad alternative più caratteristiche e fantasiose, quali reinterpretazioni pseudo-storiche del Medioevo dei galeoni dei pirati caraibici all’epoca delle grandi esplorazioni. E fu proprio allora, inevitabilmente, che l’omino iniziò ad arricchirsi di alcuni segni specifici di riconoscimento, quali bende sull’occhio, cappelli stravaganti, uncini e gambe di legno. Eppure senza mai perdere la sua inquietante ed innaturale conformità: tutti alti uguali, la pelle gialla come un Simpson, la posa rigida e impostata. Per tornare all’analogia da calendario, un po’ come gli scheletri del folklore messicano, in grado di superare ed in qualche modo costruire l’antitesi del concetto stesso d’identità. È incredibile quanto si possa cambiare, sfruttando semplicemente l’effetto di un costume ritagliato ed incollato a partire da qualche anonimo foglio di cartone!
Non che sia immediato ed automatico, s’intende. Occorre quanto meno, disporre di un certo grado di abilità manuale. Che qui non manca affatto, anzi! Stiamo pur sempre parlando di The Q, uno dei più popolari canali di YouTube dedicati al fai da te d’impianto immaginifico, utilizzatore straordinariamente esperto di taglierino, colla e spessi strati di cellulosa in grado di diventare gli strumenti di un sogno che non ha limiti procedurali apparenti. Già celebre per la nutrita serie di accessori creati col cartone a beneficio del suo grazioso cagnolino di razza Yorkshire, pur non disdegnando progetti tecnici dal superiore grado di complessità, come sistemi d’arma o piccole casseforti funzionanti in ogni aspetto del loro meccanismo. Il tutto come espressione, l’ennesima, di quanta gente straordinariamente sia pronta a dimostrare il prodotto del proprio laboratorio al popolo del Web, con la sola speranza d’introiti pubblicitari dignitosi, in un universo ormai dominato dai filtri monopolistici dei contenuti ed i programmi di AdBlock. Ma forse lo scopo, semmai, è un altro: trasferire ed attualizzare quello spirito che vigeva originariamente nell’ambito delle costruzioni-giocattolo, non tanto dedicate ai maggiori successi dell’universo multimediale, come Star Wars, Harry Potter etc, bensì al mondo della fantasia più libera e sfrenata. Dove, per un bambino o un rappresentante degli AFOL (Adult Fan of Lego) ciò che contava di più era l’immagine interiore della finalità prefissata, la ricerca di un’applicazione pratica di quanto elaborato in maniera, paradossalmente, del tutto priva d’influenza sulla materia. In questo senso, non tanto una forma d’assemblaggio a semplice scopo d’intrattenimento, bensì una vera e propria forma d’arte popolare, di chi gioca in pubblico per invogliare gli altri a partecipare.
Di questo potere rappresentativo dell’anonimo omino, la Lego sembra essersene resa conto a pieno nell’ultimo ventennio, con una curiosa, quanto significativa, corrispondenza con il periodo di maggior successo del marchio in queste ultime generazioni. La prima produzione ufficiale in stop-motion è Spellbreaker, un corto fantasy dei primi del 2000 usato nei parchi a tema della compagnia, ben presto seguìto da Revenge of the Brick, una parodia di Guerre Stellari trasmessa su Cartoon Network nel 2005. Dalla cui ispirata sinergia, si decide finalmente di trasporre in forma digitale quella che era stata a partire dal ’99 una delle licenze di maggior successo dell’intera compagnia danese, uscita contestualmente alla discussa, ma innegabilmente significativa seconda trilogia di film. Nasce così Lego Star Wars: the Game, il primo videogioco di reale successo nella storia dei mattoncini, a inaugurazione di una formula dalle molte ramificazioni e che sta riscuotendo successo tutt’ora. Nel 2011, quindi, questo legame con lo spazio assume toni decisamente più importanti, quando come elemento fondamentale di un programma di collaborazione con la NASA intitolato “Lego Bricks in Space” una delle ultime missioni dello Space Shuttle trasporta tra le altre cose 13 kit di montaggio, inclusivi degli omini d’ordinanza, agli occupanti apparentemente un po’ annoiati della Stazione Spaziale Internazionale. Per poi includere, contestualmente, tre omini in alluminio sulla sonda spaziale Juno, lanciata quell’anno verso il pianeta Giove, raffiguranti l’omonimo padre divino, sua moglie Giunone e l’astronomo Galileo Galilei, primo osservatore scientifico di quel particolare angolo d’infinito. Certo, viene da chiedersi quale conclusione possano trarre eventuali alieni nel caso dell’incontro con tale nave spaziale, sull’aspetto cubettoso e poco flessibile di un’ipotetica razza lego-umana.
È possibile assumere, dunque, l’identità di colui che per suo stesso principio generativo, non possiede neppure il concetto di identità? Una creatura che ha una singola forma standardizzata, declinata unicamente in funzione del cappello, gli accessori, la capigliatura e la decorazione esteriore del blocco “centrale”. In tal senso, l’omino della Lego è una metafora della nostra stessa società contemporanea, in cui l’iniziativa personale è considerata spesso inadeguata a risolvere i problemi, se non addirittura sconveniente e una valida ragione per essere emarginati. A scuola, sul lavoro, nella vita. A volte bisogna liberare se stessi dalle catene stringenti del ruolo contestuale che ci è stato assegnato dal fato. Trasformare il proprio aspetto per tentare, in qualche piccola ed insignificante maniera, di cambiare l’universo. Spostandosi da un blocco all’altro, senza mai neppure sognarsi di riuscire a piegare un paio d’inesistenti ginocchia.