Attraverso lo scorrere delle decadi, la tecnologia sembra diventare progressivamente più complessa e difficile da sfruttare: ciò è indubbiamente vero da un punto di vista ingegneristico e produttivo. Ma assai probabilmente, non da quello concettuale. Mano a mano che la potenza di calcolo dei dispositivi aumenta, in effetti, l’interfaccia uomo-macchina diventa più potente, e conseguentemente intuitiva. L’aveva compreso il telefilm Star Trek, in cui tutto quello che occorreva era chiedere le cose ad un computer usando la propria voce, disquisire, argomentare con lui. Mentre oggi, la soluzione del controllo vocale trova un approfondimento dovuto essenzialmente al desiderio di poter disporre della stessa soluzione nell’ambito della realtà tangibile ed effettiva. Spostando tale analisi all’odierna condizione uomo-macchina, quindi, ci si rende conto di come la semplificazione permei ogni ambito dell’elaborazione non \ale: dal momento in cui i computer sono diventati piccoli, talmente insignificanti nelle dimensioni da poter occupare un singolo tavolo o scrivania, la loro potenza è cresciuta esponenzialmente, arrivando a poter contenere, ed elaborare artificialmente, qualsiasi immagine o video introdotto dai loro padroni. Chi non ha mai visto un video delle vacanze creato con i programmi di montaggio di Microsoft o Apple, in cui le immagini si susseguono con improbabili dissolvenze e scorrono dai lati, mentre nomi di persone o luoghi compaiono da tutti gli angoli dell’inquadratura? Ora immaginate di dove fare la stessa cosa, ma lavorando su pellicola di celluloide. Ovvero lavorando direttamente nello spazio non-digitale dell’intera questione.
Computer analogico: sembra una contraddizione in termini. Uno spauracchio ucronistico, come i dirigibili a vapore, il continente di Atlantropa o i caschi raffigurati nei geroglifici egizi tra carri magici e coccodrilli spaziali. Eppure nella natura stessa di tale termine, non è implicato un metodo, bensì una finalità: elaborare, cambiare le carte in tavola al fine di perseguire un idea. Tutto può servire a farlo: un abaco è una forma primordiale di tale apparato, così come la macchina differenziale di Charles Babbage (1822) può affrontare il problema dei logaritmi attraverso un ammasso di ingranaggi e cremagliere interconnesse reciprocamente. Va quindi da se che negli anni ’70 e ’80, quando il boom dell’intrattenimento televisivo si apprestava a raggiungere il suo apice di pubblico e guadagni, esistesse un apparato in grado di elaborare ed impreziosire le immagini inviate nell’etere dei segnali. Qualcosa che oggi faticheremmo a riconoscere per ciò che è, se non fosse per l’esauriente guida di Dave Sieg, uno degli ingegneri elettronici che in tale epoca seppero reinventarsi artisti della grafica, per dare una forma alle idee dei network e qualche volta, dei registi del cinema di allora. E sembra proprio un cattivo dei film di James Bond così seduto di spalle, nella penombra, mentre manovra pulsanti e levette dalle funzionalità arcane. Mentre la sua opera potrebbe essere paragonata a quella di un animatore della Disney dei primordi, mentre lavorava al dispositivo che un tempo serviva ad unire il personaggio disegnato su pellicola trasparente con gli scenari dipinti del fondale. Soltanto che la sua tavolozza, stavolta, è un’effettiva ripresa della scena da brandizzare. E la sua matita, nei fatti, non esiste neppure. L’improbabile marchingegno è uno dei nove Scanimate prodotti originariamente dalla Computer Image Corporation di Denver, Colorado, grazie alla capacità inventiva di Lee Harrison III, che riuscirono ad imporsi come standard dell’industria per oltre 20 anni a partire da quel fatidico 1969. Immaginate per un attimo la fortuna di questi pionieri: ogni sigla, pubblicità qualsiasi telequiz e di tanto in tanto, un film hollywoodiano o due, dovevano necessariamente passare di lì o per una delle pochissime compagnie che possedevano uno di questi computer, situate in Inghilterra, Giappone, Lussemburgo e New York. Nel corso degli anni d’oro, un’ora di lavoro allo Scanimate poteva venire a costare al cliente anche 2.500 dollari, spendendo i quali poteva tuttavia disporre di un’animazione che, altrimenti, avrebbe richiesto giorni o intere settimane di lavoro. Naturalmente nessuno ti regala niente e se si pagavano simili cifre, era perché qui trovava espressione un servizio impossibile da trovare altrove…
Parlando del suo lavoro con il pacato entusiasmo che spesso si può trovare nei professionisti prossimi all’età della pensione, Mr. Sieg ci guida nel giro degli ZFx studios di Asheville, North Carolina, la compagnia da lui fondata negli anni ’90 e che possiede l’unico esemplare ancora funzionante (a quanto ci è dato di sapere) di una completa macchina Scanimate. Il sapiente tecnico, che possiede anche un canale di YouTube e un sito personale ricco d’informazioni storiche e funzionali, sembra aver preso particolarmente a cuore l’opportunità di preservare i segreti del suo precedente ambito lavorativo a vantaggio delle nuove generazioni, dimostrando al grande pubblico come le cose venivano un tempo portate a compimento, senza l’impiego di straordinarie facilitazioni. Il che diventa ben presto un fantastico viaggio un fantastico della memoria, tra strumenti che sembrano fuoriusciti da un film retro-futurista dei tempi andati. Il funzionamento della macchina Scanimate, come potrete facilmente immaginare, è piuttosto affascinante: in uno dei suoi video più tecnici, il suo proprietario ci descrive e guida passo passo nell’elaborazione di una semplice scritta mobile sul video stesso che ha caricato online. La procedura inizia con la scansione, ovvero la riproduzione delle immagini che dovranno essere rielaborate mediante l’impiego di un monitor ad alta definizione, mentre una telecamera, collegata alla macchina, si occupa di trasferirlo su una pellicola nuova. Ma non prima che l’enorme marchingegno, secondo il copione prestabilito, possa compiere la sua magia. L’immagine “virtuale” dello Scanimate veniva introdotta mediante una sorta di lavagna luminosa, sfruttando l’impiego della stampa su pellicola trasparente. Si trattava di una tecnica già nota fin dagli albori della Tv. Ma l’aspetto innovativo, in questo caso, è che non veniva fatta apparire tale e quale su schermo, ma prima rielaborata grazie alla manipolazione di un flusso elettronico, portata a termine direttamente dall’ingegnere/artista di turno. È tutto molto manuale e complesso, tanto che non può che causare stupore il grado di maestria necessario a portare a termine persino un semplice effetto come la traslazione e lo zoom. L’addetto doveva, quindi, spostare una serie di manopole che impostavano la posizione di partenza dell’animazione, ed un’altra per l’esito finale desiderato. Quindi impostava la velocità desiderata e calibrava attentamente il punto di partenza nel corso dello show. Oltre a questa operazione basilare, ovviamente, c’erano numerosi effetti addizionali: oscillazione, rotazione, trasformazione. Chi li ha mai combinati, tra i grafici moderni, giocando con le opzioni di programmi finalizzati alla creazione di banner o grafica per il Web? Farlo con questa macchina, tuttavia, richiedeva un grado di creatività tecnica decisamente superiore. L’artista poteva, ad esempio, sfruttare dei ponti elettrici mediante l’impiego di appositi cavi, esattamente come si usava fare nei primi sintetizzatori audio (gesto da cui, tra l’altro, deriva il termine di plug-in, oggi usato per un tipo di software, ma che un tempo indicava l’effettivo “inserimento” di uno spinotto nella presa corretta).
All’epoca della Image West, Ltd. di Hollywood quindi, la compagnia in cui Dave Sieg iniziò a lavorare subito dopo la scuola, era l’usanza che il committente supervisionasse l’intera procedura di creazione dell’animazione, richiedendo cambiamenti come “fallo un po’ più grande” oppure “giralo di 35° a sinistra, per piacere.” Erano gli albori del lavoro di grafico con supervisione diretta da parte del cliente, una delle attività più stressanti del mondo digitale. Talvolta quest’ultimo faceva ritorno a distanza di tempo, richiedendo un nuovo lavoro sulla base di quello precedente, con modifiche magari di poco conto. Tale operazione, tuttavia, risultava spesso la più complessa di tutte, poiché la Scanimate non poteva, ovviamente, salvare alcun parametro, e nessuno aveva modo di ricordare la precisa posizione delle innumerevoli manopole, i pulsanti e le levette usate la volta precedente. Poco male: ogni ora trascorsa, dopo tutto, erano 2500 dollari guadagnati per la compagnia.
Oggi simili computer, grandi come un armadio eppure estremamente specifici e limitati nel loro utilizzo, ci appaiono come i dinosauri della Preistoria terrestre: inutili e grezzi, tristemente superati ed avvolti da un vago alone di nostalgia e splendore. Lo stesso Sieg sembra rassegnato nella sua personale missione, che vede un po’ come i mulini di quel cavaliere della Mancia, famoso per il suo magro ronzino, considerato al pari del leggendario cavallo Bucefalo di Alessandro Magno. Non c’è in effetti nulla, e sottolineo neanche un pixel, di quello che una simile macchina può produrre, ad esulare dal vasto catalogo di effetti realizzabili con pure una versione gratuita degli odierni sistemi di elaborazione grafica usati nella post-produzione, sia amatoriale che professionale. Neppure i difetti, la grana e gli artefatti, che a dire il vero proprio in questi ultimi tempi, stanno tornando in auge per la costante ricerca nostalgica dei vecchi stili ed un mondo non ancora stritolato dal pessimismo economico e sociale. La vetusta Scanimate, dunque, ha ormai perso la sua funzione.
Ma siamo poi così sicuri che questo basti a renderla del tutto inutile? Oggi è possibile realizzare fotografie tramite l’impiego di un sensore di luminosità, immagazzinandole come bytes all’interno di un minuscolo blocco di silicio. Eppure esiste ancora una corrente di artisti, che coraggiosamente continuano a sviluppare le vecchie lastre, mediante la sperimentazione del momento catartico dell’immersione nel metolo. Diamine, c’è persino ancora chi traccia i ritratti a mano, armandosi di matita, colori e pennello! Nessuno ha mai veramente pensato che il superamento di una tecnologia debba necessariamente soprassedere lo spazio che essa possiede nell’immaginario umano. E da un certo punto di vista, l’elaborazione della grafica analogica è stato un breve, significativo momento che ci ha portato oggi al punto in cui siamo. Dovrebbe essere preservata. Molto probabilmente, attraverso l’immagazzinamento di questi video. In digitale, s’intende. Non esageriamo!