Alcuni dei migliori pescatori del suo villaggio erano soliti affermare, con espressione compunta e schiena rigida per l’ovvietà: “Il mattino è l’ora giusta per catturarsi la cena. Chi si sveglia tardi, troverà soltanto la fame.” Ma Samang non era un pescatore, con tanto di barca, canna e largo cappello per farsi scudo dal Sole. Lui che apparteneva, piuttosto, alla classe sociale dei contadini, avrebbe messo in campo l’energia di un diverso tipo di antica sapienza, uscendo verso la parte finale di un pomeriggio di questo caldo inverno tropicale. La luce a 45° penetrava, almeno in parte, tra le foglie delle canne da zucchero e i pandani, piante tradizionalmente collocate ai margini della risaia. Sotto i suoi piedi nudi, franava e si spalmava il terreno cedevole del bund. Un… Argine, avremmo potuto chiamarlo, l’accumulo di terra oltre il quale iniziava lo spazio deputato alla coltivazione del più nobile dei cereali, stagionalmente sommerso in uno strato d’acqua per proteggere la pianta dai parassiti.E adesso, nel pieno della stagione secca verso la metà di febbraio, era il momento perfetto per fare la sua mossa: quando i semi migliori dell’area rurale sita ad est di del grande lago di Tonle Sap stavano per dare il loro prezioso raccolto, e la carpa di prato (koan ikan) era pronta a dare sfogo alla sua indole maggiormente esplorativa, finendo dritta nella rete d’inganni creata dalla mente fervida del suo principale nemico, l’uomo.
Raggiunto il punto desiderato, Samang smise di camminare e depose a terra la parte più pesante della sua attrezzatura, dall’alto grado di specificità: nella mano sinistra, portava infatti una busta di plastica riempita da 10 sezioni di un tronco di bambù, dal diametro di circa 25 cm, tagliati ad arte con la sega manuale conservata nella sua abitazione galleggiante lungo il corso del grande Mekong. Nella destra, aveva una pratica paletta di metallo, con cui senza particolari esitazioni si mise a scavare il friabile suolo del bund. Un poco alla volta, il suo progetto iniziò a prendere forma: non una piscina per lillipuziani, bensì una buca profonda all’incirca 45 cm, dai bordi perpendicolari e gli argini perfettamente ben compattati. Apparentemente soddisfatto del suo lavoro, passò quindi alla parte successiva del progetto: uno alla volta, inserì i tubi di origine vegetale nella barriera argillosa, avendo cura che fossero situati l’uno a ridosso dell’altro, come in una sorta d’insensato sistema d’irrigazione. Così che, da una parte, le condotte sfociassero sul fondo fangoso dei margini della risaia, e dall’altra finissero a strapiombo sulla fossetta da lui scavata. Per buona misura, il bambù non era perfettamente orizzontale, bensì inclinato in salita: questo per evitare l’allagamento, e conseguente inutilità della trappola da lui costruita. Dallo zainetto sulle sue spalle, quindi, il costruttore tirò fuori un recipiente con il coperchio, nel quale erano presenti alcuni granchi vivi ed un piccolo sasso appuntito. Usando il secondo sui primi, ne fece ben presto una pappa simile a un pureé, che venne disposta ad arte all’interno del bambù, sopra e tutto intorno all’ingresso della sua personale applicazione del simpel jebak, il “semplice trucco” tramandato in via diretta dal popolo degli Khmer. Per nascondere l’effetto del suo lavoro, quindi, Samang prese dei rami caduti attorno al teatro della sua opera, e li dispose con cura a fare da tetto alla piccola voragine che per lui, avrebbe sostituito il supermercato.
Le ore passano, verso l’ora del rosseggiante tramonto, mentre gli agricoltori e i pescatori del villaggio fanno ciascuno ritorno alla propria casa-barca, per un atteso convivio con la famiglia e il riposo meritato dei lavoratori. Mentre i loro occhi si chiudono, senza un suono, letterali dozzine di misteriose forme nerastre iniziano a strisciare dagli smunti rigagnoli dei torrenti. Sotto la luce riflessa di un Luna a metà, le bestie serpentiformi chiudono le loro branchie ed iniziano, finalmente, a respirare.
La vista di una carpa di prato, altresì detta testa di serpente (fam. scientifica: Channidae) in caccia è indubbiamente un’esperienza bizzarra. Perché il pesce non sembra mai, effettivamente, a suo agio fuori dall’acqua, come avviene per i Protopterus polmonati di talune zone ambientali africane. Esso balza tuttavia fuori, con entusiasmo, dalle basse acque che è solito chiamare casa, per iniziare ad agitarsi e contorcersi tra le sabbie argillose della palude. In cerca di… Qualcosa: un buco, un pertugio, uno spazio semi-allagato in cui nascondersi, nel quale il suo istinto gli dice che troverà il cibo. Granchi, naturalmente, ma anche altri pesci più piccoli corsi ai ripari per il progressivo ritrarsi delle acque nel lungo periodo invernale. Col proseguire di una simile ricerca di sostentamento, quindi, l’essere scaglioso finirà inevitabilmente per incontrare la barriera emersa del bund, costruita al fine di delimitare le proprietà agricole dei loro incomprensibili vicini, gli umani. E con essa, le letterali dozzine di trappole simpel jebak, chiamate spesso nella vasta antologia di documenti video disponibili sul Web, Cambodian Deep Hole (il profondo buco cambogiano). Ora, se stessimo parlando di un pesce particolarmente intelligente, un vero genio tra la sua genìa, esso dovrebbe provare istantanea diffidenza dinnanzi alla vista di simili paralleli pertugi, perfettamente distanziati e regolarmente disposti a invitarlo con la loro umida oscurità. Ma poiché un pesce è in ultima analisi, pur sempre un pesce e niente di più, la koan ikan media cede la richiamo di un simile inganno, strisciando con la testa fino al punto d’ingresso più vicino. Dopo aver mangiucchiato un po’ la polpa di granchio, quindi, infila la testa nel buco ed inizia a spingersi innanzi con poderosi colpi di coda. Prima di rendersi conto di che cosa stia effettivamente succedendo, il pesce si ritrova all’interno dello stretto tronco di bambù e può fare soltanto una cosa: continuare ad avanzare verso il buco, dove si troverà a vivere gli ultimi istanti del suo illusorio stato di libertà.
Naturalmente, la carpa testa di serpente non è l’unica preda di questo tipo di trappole, particolarmente rappresentative della vita extraurbana di questo paese all’estremità meridionale del continente eurasiatico. Giacché tra le altre prede, mostrateci con orgoglio nei già citati video, compaiono anche diverse tipologie d’anguille, pesci gatto e gli immancabili granchi del fango, utili come esca e non solo, vista l’eccezionale varietà di preparazioni previste per loro dal vasto canone della cucina cambogiana. Ma il pesce principe della questione resta la cattura più prelibata, in parte per le dimensioni generalmente maggiori dei suoi colleghi e poi per il gusto, che viene descritto come intenso ma non sgradevole, restando connesso ad uno specifico metodo di preparazione, all’interno di pentole d’argilla con latte di cocco, aceto di canna da zucchero, pepe e cipolle. Prima della cottura, il pesce viene pulito e le branchie sono rimosse, ma non il fegato e la sacca delle uova, considerate parte inscindibile di un buon piatto a base di koan ikan.
In tutta tranquillità, dopo l’ora di colazione, Samang aprì la porta della sua barca, sentendo di nuovo coi piedi il fresco fango del fiume Mekong. Nel corso di una piacevole passeggiata fino alla risaia, accompagnato dal distante richiamo dell’anatra marzaiola, salutò un familiare della sua consorte, che si dirigeva anche lui ad effettuare lo svuotamento mattutino del buco. “Che lo sciamano serpente del cielo possa assisterti nella raccolta, Chanvatey!” Con un cenno della testa, il collega ricambiò brevemente l’augurio, quindi ciascuno proseguì dritto per l’obiettivo. La proprietà privata, oggi, era un caposaldo della civiltà lungo il corso del fiume Mekong. Ma non si sa mai… Così chinandosi sopra il bambù, Samang rimosse le frasche di copertura, per pescare a piene mani nell’acqua fangosa, in grado di nascondere completamente il contenuto della trappola su cui aveva scommesso la propria cena. La sorpresa era parte del divertimento. Chele si agitavano freneticamente, mentre bocche dagli affilati dentini schioccavano rumorosamente, a pochi centimetri dai suoi polpastrelli. Nel buco, la vita dell’acquitrino brulicava in condizioni d’assoluta ed irrisolvibile prigionia. Sfoderando il secchio d’ordinanza, il sapiente demiurgo cominciò la sua spietata raccolta. E mentre quello si riempiva, il suo sorriso si faceva più largo, e il guizzo dei pesci terrigeni sempre più debole e rassegnato.
Quello che abbiamo visto corrisponde all’assoluta verità? Tutte le letterali dozzine di questi video, che si affollano in alcuni canali di YouTube con milioni e milioni di visualizzazioni, sono frutto di effettive sessioni di pesca portate avanti sul territorio? Oppure come alcuni affermano con convinzione nei commenti, nonché certamente facile da organizzare in potenza, durante lo stacco delle riprese il contadino si è recato al mercato rionale, per acquistare le gustose creature da gettare all’interno del suo “miracoloso” fossato… Non è realmente chiaro. Perché oggi, il pesce da cuocere e fare in salmì mantiene intatto tutto il suo valore. Ma lo stesso vale per le visualizzazioni su Internet, valida fonte di guadagno per le nuove generazioni agrarie dell’Asia. Non che abbia davvero importanza: la tecnica esiste, e nel corso della sua applicazione storica, deve senz’altro aver ottenuto gradi simili di successo. È semmai lo strumento digitale, assieme al McDonalds di fronte alla risaia, ad aver costruito su di essa un castello aleatorio d’irragionevoli aspettative. Ciò che conta davvero, alla fine, è guadagnarsi la cena.