Molti sono i segni della primavera nella boscosa regione geografica del Wisconsin, confinante con le acque gelide del lago Michigan e quello Superiore: la viola sororia, presente sull’emblema dello stato, sboccia in un tripudio di viola dall’emozionante intensità; il tasso nazionale si risveglia dal letargo, per andare in cerca di lombrichi, radici e frutti, prima di essere di nuovo sufficientemente in forze da tornare lo spietato carnivoro che era; mentre il pettirosso sugli alberi emette il suo canto melodioso, ettolitri di acqua vengono risucchiati dalle torbiere, permettendo a un tesoro di riemergere dal buio cupo delle Ere. Quel tipo di acquitrino, particolarmente tipico del continente nordamericano, in cui freddo e moto lento delle acque cooperano per creare un ambiente acido e limoso, in cui soltanto alcuni batteri e piante possono permettersi prosperare. Il che è fantastico per i contadini, che più di ogni altra cosa, aspirano alla purezza incontaminata delle proprie preziose messi, auspicabilmente impervie alle erbacce e ai bruchi predatori. Che fortuna! Dico questo, perché tra il vasto erbario locale, persiste da tempo immemore un particolare frutto, che non è una bacca nonostante le apparenze, la cui prerogativa principale è proprio il vivere felicemente sotto l’acqua che ristagna per l’intero inverno. È il cranberry (Vaccinium oxycoccos) altrimenti detto, per analogia genetica, mirtillo rosso americano. Oppure “Quella cosa con cui fai la salsa che poi metti nel tacchino degli amati Padri Fondatori” un punto fermo della Festa del Ringraziamento e del Natale, paragonabile per diffusione stagionale ad un’alimento come i nostri panettone o torrone. Il che pone, molto chiaramente, l’ora del raccolto non adesso ma in autunno. Quando finalmente, la mano sapiente del contadino ricoprirà di nuovo l’acquitrino di una rinnovata marea, tale da nascondere le piante per il tempo di qualche lungo minuto. Prima che il passaggio di un trattore, con le sue pale spietate, le separi dal loro dono “spontaneo” per l’intera umanità.
La produzione industriale dei mirtilli su larga scala è un’attività che non appartiene in modo particolare alle nostre terre, e benché la coltivazione della varietà nera (Vaccinium myrtillus) sia attestata, soprattutto sui monti del Centro e del Nord, nell’ora della raccolta ci si limita ad assumere un numero sufficiente di braccia, per coglierli uno ad uno esattamente come fossero dei pomodori. Mentre negli Stati Uniti d’America, luogo d’origine del vermiglio ossicocco, esiste un intero business plurisecolare dedicato a questa pianta, che attraverso numerosi esperimenti e qualche errore, è giunto alla codifica di un chiaro rituale delle stagioni, attraverso cui si ottengono due tipi di prodotto: imperfetto, pronto alla lavorazione (per fare succhi o salsa/marmellata) e perfettamente integro, inscatolato e pronto alla vendita nel reparto ortofrutta del supermercato. Forse contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, il più importante mercato dei due è il primo citato, poiché il mirtillo rosso mangiato a morsi ha un gusto piuttosto amaro che definire acquisito, sarebbe riduttivo. Chi lo acquista il più delle volte, vuole in effetti usarlo per fare la marmellata in casa. E a questo punto, perché non eliminare questo oneroso passaggio? Gli eventi, dunque, prendono il seguente corso: per tutto il corso dell’estate le piante, scoperte dallo strato protettivo d’acqua per stimolare la crescita con maggior quantità di luce e ossigeno, vengono mantenute umide e protette dal calore tramite l’impiego di sistemi d’irrigazione a getto. Nel corso di tale periodo, vengono noleggiate delle api al fine di impollinare il maggior numero possibile di nuovi virgulti, che assicureranno la continuazione della redditizia venture per ancora il prossimo anno a venire. Quindi, mentre il tasso torna finalmente satollo nel suo rifugio pedemontano, il contadino trascina le pompe idrovore fino alla torbiera e sposta l’interruttore sulla posizione “immettere”. Al che succedono, in rapida sequenza, due cose: le piante spariscono di nuovo e i loro frutti iniziano ferocemente a galleggiare. Questo perché all’interno del mirtillo maturo c’è uno spazio, attorno ai semi, in cui riesce a penetrare l’aria e resta lì dentro intrappolata. Il che significa che i frutti galleggiano, esattamente come innumerevoli boe di segnalazione. E per quelli più recalcitranti, il passaggio del trattore basterà a fare il resto. A questo punto lo spazio viene recintato con dei galleggianti morbidi in materia plastica, costringendo i mirtilli a raccogliersi attorno alla macchina che molto semplicemente, li raccoglierà.
La soluzione è straordinariamente rapida e diretta ricordando, per l’efficacia in cui sposta il cibo dai campi agli stabilimenti di lavorazione, taluni sistemi usati per la raccolta del riso. Inoltre, ha il vantaggio di separare naturalmente i frutti già maturi (e quindi galleggianti) con quelli dell’anno successivo, generalmente già presenti sulle piantine. In questo modo, i proprietari del terreno non possono mai mancare di pensare al domani, pianificando tutto in maniera estremamente attenta e procedurale. Le torbiere di qualità vengono regolarmente misurate con strumentazione laser, onde limitare la presenza di dislivelli. Questo per limitare il dispendio d’acqua al momento dell’allagamento ed un drenaggio equanime la primavera successiva. Quindi, nel corso dell’inverno lo strato d’acqua tende a congelarsi nel clima degli stati più rinomati per la loro produzione di cranberries (oltre al Wisconsin, il New England, Washington, il Massachusetts…) diventando essenzialmente impervio ad alcun tipo di contaminazione. È il periodo in cui, come fatto per la prima volta dal celebre capitano Herry Hall nel 1816, si usa ricoprire l’acquitrino ghiacciato con uno spesso strato di sabbia, che al momento dello scioglimento si depositerà naturalmente sul suolo della coltivazione, incrementandone sensibilmente la fertilità. Trascorsi lunghi mesi dell’estate, a quel punto, il ciclo ricomincerà da capo.
L’importanza dei cranberries per la cultura gastronomica americana è particolarmente difficile da sopravvalutare: fin da quando i primi pellegrini giunsero fino a questi luoghi nell’entroterra del nuovo continente, dove alle tribù native degli Hiawata erano già note le notevoli qualità antiossidanti di tale alimento, usato sia come cibo che medicinale. Numerosi sono gli esempi di citazione storica dell’alimento, a partire dal 1550, quando un certo James White Norwood scriveva di essere sbarcato in Virginia trovando l’accoglienza dei Nativi, che vennero incontro alla sua spedizione con canestri di corteccia letteralmente ricolmi di mirtilli. Nel 1643, lo studioso puritano Roger Williams ne parla in un trattato, definendoli bearberries (bacche degli orsi) a causa dell’amore dimostrato per loro da parte del più grande e potenzialmente pericoloso animale della foresta. Non che esista nulla di commestibile, a questo mondo, che non venga lietamente trangugiato dal plantigrado per eccellenza, qualunque sia il contesto abitativo della sua provenienza. Le attestazioni e i riferimenti al frutto selvatico, completi di ricette e metodi di preparazione, continuano per tutto il XVI e XVII secolo, ma è soltanto a partire dalla seconda decade del 1800, che attorno al mirtillo inizia a nascere una vera industria nazionale. Ben presto, i fatturati volano letteralmente alle stelle.
Tra i primi coltivatori industriali di mirtilli troviamo Henry Hall ed Eli Howes nel Massachusetts del 1816, che riuscirono a selezionare una varietà particolarmente idonea al clima della penisola Cape Cod. Un aspetto rilevante di questo ambito agricolo, particolarmente esclusiva dell’ambiente americano, fu la formazione fin da subito di grossi gruppi di monopolio, dei veri e propri cartelli con tanto di prezzi imposti, che rendevano particolarmente difficile l’ingresso di nuovi players nello stabile e prevedibile mercato stagionale. John Gaynor nel Wisconsin ed A.U. Chaney nello Iowa collaborarono attorno al 1904 per fondare la prima cooperativa, presto seguita da numerose altre. Ogni anno a settembre, in preparazione delle feste comandate, le aziende cooperavano nella produzione di uno sforzo di marketing collettivo, che nel tempo permise alla cultura dei mirtilli di fare il suo ingresso integra nel nuovo contesto generazionale. Si stima ad esempio che già nel 1918, la vendita di mirtilli negli Stati Uniti abbia fruttato la cifra considerevole di 1 milione di dollari di allora.
Nel 1959, quindi, arrivò una vera e propria doccia fredda per questo ambito produttivo: in quello che passò alla storia come il Grande Spavento dei Mirtilli, il funzionario Arthur S. Flemming dell’HHS (Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani) dichiarò di aver trovato nel raccolto di quell’anno tracce potenzialmente nocive del pesticida aminotriazolo. Lo sfortunato periodo della preoccupante rivelazione, effettuata a novembre, causò un drastico calo delle vendite, tale da minacciare la sopravvivenza dell’intero sistema precedentemente e tanto faticosamente creato. La Festa del Ringraziamento fu depennata. Dai tavoli del Natale, scomparve letteralmente il colore rosso. Per l’anno successivo, naturalmente, nessuno si ricordò più di nulla. Tranne loro. A partire da quel momento, i coltivatori delle torbiere appresero due importanti lezioni: primo, non fare affidamento soltanto sul marketing mirato a uno specifico periodo dell’anno; secondo, andarci piano con i pesticidi. Ma il vero problema dei monopoli non fu mai realmente affrontato dall’antitrust. Dopo tutto, qui stiamo parlando di un pregiato tesoro americano, non grigi computer o odiose automobili straniere. Il popolo dei semplici, benevoli contadini della regione dei Grandi Laghi non tradirebbe MAI la fiducia dei suoi cari consumatori e connazionali. No?