Esiste un detto anglosassone che recita, letteralmente: “La bellezza non va più a fondo della pelle” (Beauty is just skin deep) che si fonda sull’utilizzo del termine beauty il quale, rispetto al nostro equivalente, ha ben poche connotazioni astratte e in genere, si riferisce soltanto all’aspetto visuale della questione. Un’individuo dal carattere degno d’encomio, in inglese, è più solita ricevere l’appellativo di good person, il che gli permette al tempo stesso di essere deep, ovvero profondo. Questo non ha mai voluto dire, del resto, che al di sopra dell’involucro dell’organismo umano fosse impossibile arricchire se stessi, costruendo in altezza, piuttosto che all’interno dello spazio metaforico dell’io pensante. Portando in tal modo, attraverso i secoli, alla nascita del concetto stesso di moda. Poiché condividere se stessi, la propria figura esteriore e dare un significato evidente alla propria venuta nel contesto sociale, significa condividere dei valori che sono tanto variabili quanto arbitrari, frutto dell’influenza dei pochi e il beneplacito dei molti….Disposti a far tutto, pur di apparire in qualche modo memorabili.
In questa intrigante ricostruzione offertaci da Pauline Rushton, curatrice del dipartimento costumi del Museo Nazionale di Liverpool, Inghilterra, viene mostrato il complesso ed elaborato processo di vestizione di una donna di buona famiglia verso la metà del XVIII secolo, quando l’estetica roboante del tardo Barocco stava già lasciando il passo alle forme più organiche e naturalistiche del Rococò, ma le corti d’Europa sembravano ancora fermamente intenzionate a rendere complessa la vita di chi aspirava, un giorno, a farne parte. Il punto di vista dello scenario mostrato è in effetti esplicitamente British, come reso esplicito dall’opera d’arte ispiratrice della sequenza: il dipinto facente parte della collezione della galleria noto col titolo di “Mrs Paine & Co” in cui due giovani londinesi suonano il clavicembalo sotto lo sguardo rapito di un’anziana signora. C’è una storia interessante dietro a quest’opera datata 1765, del pittore Joshua Reynolds, che l’usò per pagare un architetto dei lavori effettuati sulla sua abitazione: per molti anni la figura della probabile nonna delle fanciulle era stata cancellata tramite l’applicazione di un’ulteriore strato di pittura, prima di essere riscoperta in epoca moderna. Chissà poi perché? L’abito mostrato nel nostro video, ad ogni modo, è una fedele ricostruzione di quello indossato dalla figura in primo piano nella scena. Il che lo colloca in un ambiente che interpretava l’estetica francese soltanto in maniera indiretta, rientrando piuttosto nella corrente che oggi prende il nome di Colonial Dress. Proprio così: stiamo parlando della stessa visione, in materia di abiti femminilio, che di lì a poco sarebbe stata esportata al nascente Nuovo Mondo, e che oltre un secolo e mezzo a venire sarebbe rimasta un punto cardine delle gentildonne del cosiddetto Sud (Alabama, Kentucky, Mississippi, Louisiana… Dritti fino alla Georgia di Via col Vento, ambientato parecchie generazioni dopo). Ma non abbiate dubbi sul fatto che tutto questo, a conti fatti, incidesse in alcun modo sull’impressionante complessità della sua composizione, tale da richiedere, regolarmente, l’assistenza di una o persino due domestiche
Questa procedura di vestizione, così curiosamente simile a quella di un cavaliere che si avvia in battaglia, ne è la prova diretta ed inconfutabile: la scena inizia, per ovvie ragioni, con l’attrice che già indossa lo shift, una lunga sottoveste che costituisce, essenzialmente, l’unica biancheria femminile di quell’Era. Questo per varie ragioni: intanto perché i drawers (una sorta di rudimentali mutande) indossati sotto i calzoni dagli uomini erano visti come eccessivamente mascolini e inadatti alla conformazione fisica delle donne, e poi perché in effetti, sarebbe stato pressoché impossibile slacciarli per andare in bagno sotto i letterali chilogrammi di stoffa che stanno per essere sovrapposti al primo di questi strati. Seguivano quindi degli alti calzini, generalmente di lana, che venivano assicurati al di sopra del ginocchio con dei nastri legati manualmente, talvolta spostati più in basso, quando la signora prevedeva di camminare o danzare nel corso della giornata. A questo punto, si aggiungeva la prima delle petticoat, le sottogonne. Per dare il via a una lunga sequela di aggiunte che dal punto di vista di noi moderni, non può che apparire ai confini del surreale…
La prima è di lino bianco, finalizzata più che altro a fare volume. A meno di assurdi imprevisti, essa non dovrà essere vista da anima viva fuori da questa stanza. A questo punto, veniva quell’immancabile strumento di tortura, ciò che più di ogni cosa permetteva alle donne di assumere quella forma del corpo che sarebbe rimasta loro prerogativa fin quasi all’epoca della prima guerra mondiale, con l’invenzione del reggiseno: il terribile corpetto. La letterale armatura di stecche di balena legate tra loro, che veniva stretta all’inverosimile tramite l’impiego di un cordino intrecciato. Che oggi gli storici ritengono il principale responsabile dell’esistenza di “divanetti da svenimento” il particolare elemento di arredo, presente in tutte le case nobili degne di questo nome, su cui si presumeva che almeno una partecipante ad ogni occasione mondana finisse per collassare, causa il semplice sforzo e la compressione sperimentata per apparire. Più di un aborto fu inoltre provocato dall’impiego inappropriato di questo capo di vestiario, che si addiceva naturalmente soltanto a poche, fortunate rappresentanti del gentil sesso. Terminata l’implementazione di tale panoplia, la cameriera porge quindi alla sua signora un qualcosa che potrebbe effettivamente fare l’invidia delle donne moderne: un paio di enormi tasche, da legare alla vita. I vestiti di allora presentavano infatti delle discrete fessure, attraverso cui le loro portatrici potevano introdurre gli oggetti più diversi, tra cui denaro, monete, le chiavi di casa… Fu soltanto successivamente, quindi, che questo elemento del vestiario fu letteralmente scollegato dal corpo, diventando la moderna borsetta da portare sulla spalla o in mano. Qualcuno afferma, non senza un certo grado di risentimento, che sia stata una cospirazione delle grandi aziende produttrici per vendere un ulteriore costoso accessorio alla loro clientela. Segue un breve momento in cui, con l’armatura rigida sul corpo superiore e tale coppia di elementi tecnici all’altezza della vita, la nostra protagonista ricorda quasi un samurai pronto ad andare in battaglia. E non è forse, in un certo senso, esattamente quello che è?
Trascorso l’attimo fugace, a quel punto, si ricomincia ad aggiungere strati. Segue l’imbottitura per le anche, una sorta di ciambella semi-rigida con anima in sughero o legno, che mirava a tenere sollevata la gonna e rendeva impossibile la percezione dell’effettiva forma del corpo sottostante. Con sopra, provate ad indovinare? Una seconda petticoat bianca, tanto per fare volume. Ma non finisce ovviamente qui: sulle spalle viene aggiunta una fichu, grande fazzoletto di lino annodato a mo’ di sciarpa, talvolta infilato nella vita dell’ultima sottogonna, che doveva emergere in parte da sotto il vestito finale. A tenerlo fermo, niente meno che uno stomacher, elemento triangolare di stoffa riccamente decorato, che trovava la sua collocazione sul corpetto stesso mediante l’impiego di una serie di spilloni. Dopo tale passaggio, un’ulteriore petticoat: questa volta di un vistoso azzurro, per concordarsi con lo strato superiore che chiudeva il sistema dell’abito coloniale. Il quale, puntualmente, arriva, con l’aiuto di una seconda cameriera. Le due, cooperando come un team straordinariamente affiatato, lo pongono sulle spalle della padrona, che in un rapido susseguirsi di gesti, se lo accomoda secondo dei metodi ben precisi. Ulteriori spille chiudono e fissano il tutto, sigillandolo come il portellone d’ingresso di un sommergibile. Adesso immaginate voi, doversi spogliare all’improvviso per ragioni di salute! Assolutamente impossibile. E più di una rinomata signora del Sud, nel corso del secolo successivo, sarebbe così crollata, sotto un semplice colpo di calore dovuto all’incandescente clima nordamericano.
Ciò che serve per apparire è una diretta conseguenza dei tempi, che apparirà inerentemente superflua in qualsivoglia epoca che sia diversa da quella in cui venne implementato. Oggi possiamo sorridere, cupamente, della fatica fatta dalle nostre antenate per conformarsi a degli ideali costosi e complessi, ma state pur certi di questo: chiunque, tra loro, non avrebbe tardato a sconfessare i nostri più pregevoli capi d’abbigliamento, per loro nulla più che delle indecenti sottovesti. Così come l’attenzione moderna alla forma e all’attività fisica, nata dalla maggiore comprensione delle regole che governano il corpo umano, sarebbe apparsa come innaturale e potenzialmente nociva. L’obesità, del resto, era praticamente sconosciuta per mere ragioni di alimentazione. Il cibo era un bene prezioso, ed erano ben pochi a poterne vantare addirittura un eccesso nelle proprie dispense.
Corsi e ricorsi, come si dice: ma non è detto che i ricorso siano sempre della stessa lunghezza. Dalle ceneri della Rivoluzione Francese, quanto l’estetica della vecchia nobiltà apparve improvvisamente grottesca e perversa, emerse una nuova concezione di moda, conforme alla corrente dell’estetica Regency (con riferimento alla reggenza britannica di Giorgio Augusto IV, dinastia di Hanover – regno: 1811–1820). Le donne portavano abiti larghi, senza strutture crudeli e sovrapposizione di soffocanti strati. Durò il tempo di un breve respiro. Perché di lì a un paio di decadi, sarebbe sorta un’altra figura, talmente preponderante da monopolizzare i cardini stessi della Storia. Alexandrina Victoria dai cupi abiti ed ancor più cupi pensieri. Forse la più grande sovrana che le isole britanniche abbiano mai conosciuto. Forse la più terribile: severa, incrollabile, priva di turpi ed insignificanti passioni. Ed allora, finalmente, le signore di mezzo mondo avrebbero imparato a vestirsi in maniera realmente Adeguata.