Per tre giorni e tre notti, lungo la placida distesa d’acqua che è il Pacifico Settentrionale. Quando finalmente, l’Oceano sembrò aver deciso di fare la sua mossa. Nel giro di un pomeriggio, nubi fosche si addensarono attorno alla portacontainer Brubacker’s Thunderbolt. Onde alte come un palazzo di due piani presero a percuotere lo scafo del colossale gigante costruito dall’uomo. E veri e propri fulmini, manifestandosi a babordo, parvero costituire una parete elettrica tra l’equipaggio scrutatore e l’orizzonte. Qual’è in fondo, l’utilità di una vedetta designata durante una tempesta dei nostri giorni? Radar, sonar, GPS e altri strumenti ne fanno le veci, mentre nulla di imprevisto, a livello geografico e situazionale, potrà cogliere il natante impreparato. Nonostante questo, il giovane mozzo della situazione lo si trova sempre, e lo si colloca generalmente nello stanzino sul castello di prua. Dove la solitudine, se non altro, potrà insegnarli il rispetto del Re dei Mari. Ma per quella volta, soltanto in quel caso, il destino volle fare uno scherzo al neodiplomato di San Diego, salito a bordo per fare la sua prima esperienza di lavoro. Come un’ombra, tra le onde, con la forma di un cucchiaio messo in verticale. Non credendo ai suoi occhi, Derek fece il possibile per mantenere stabile l’inquadratura del binocolo, al di sopra delle oscillazioni brutali di quello che era ormai diventato tutto il suo mondo. Dopo un’altra rapida messa a fuoco, la scena iniziò a farsi più chiara. Era una torre, quella cosa, precisamente adagiata in un punto arbitrario del vasto mare. Circondata e sovrastata dalla furia degli elementi, eppure più stabile che se poggiasse le sue fondamenta su di un giacimento di granito delle colline ad est di Chula Villa. Su e giù, su e giù. Così la linea di quello che al momento costituiva il suo orizzonte. Mentre la misteriosa struttura restava perfettamente alla stessa altezza, e non pareva muoversi neppure in linea longitudinale. Gradualmente, l’unica possibile verità iniziò a farsi chiara nella sua mente: “È la prua! O la poppa! Sollevata verso il cielo, mentre il resto del battello inizia ad affondare. Devo…Chiamare subito il capitano…” Ma il suo istinto, affinato da una oltre decade di film sui pirati, gli diceva di aspettare. Ad un tratto, qualcosa parve muoversi all’interno dell’inquadratura. C’era un uomo, sopra il terrazzamento che in altre circostanze sarebbe stato una paratia verticale. Vestito di arancione, salutava Derek con la mano, in maniera all’apparenza totalmente rilassata. Ma la cosa più incredibile era il collega accanto a lui. Il quale, incurante della furia degli elementi, sembrava intento nel gestire un qualche tipo di strumento. Quindi, ad un tratto, il mozzo capì: si trattava di una griglia per il barbecue. Quei due signori, nel mezzo di una tempesta prossima al cataclisma, si stavano preparando il pranzo… Come si trattasse di uno scherzo rivolto personalmente a lui.
Tutto ciò perché la SP FLIP, nave oceanografica prodotta e gestita dall’istituzione scientifica Scripps, con fondi forniti dalla Marina degli Stati Uniti d’America, non può e non deve evitare le tempeste. Né disporsi nella direzione parallela al vento. Del resto, come ci riuscirebbe? Non ha nemmeno il motore. Fin dall’epoca del suo varo, avvenuto nel remoto 1962, non ha fatto altro che venire trainata nei pressi di un possibile tifone. Quindi, una volta calata l’ancora, è rimasta lì. Il segreto di un simile vascello, impossibile da comprendere semplicemente con lo sguardo durante la fase operativa, è la sua forma: in condizioni di navigazione normale, si presenta essenzialmente come la prua di una nave convenzionale, attaccata al corpo lungo e tubolare di un sommergibile militare. O in termini più prosaici, si potrebbe dire che un pezzo di barca con attaccata una gigantesca mazza da baseball, lunga esattamente 108 metri. Raggiunto il punto designato quindi, i serbatoi di zavorra vengono fatti riempire con tonnellate d’acqua, iniziando gradualmente ad affondare. Un po’ alla volta, il davanti si solleva vertiginosamente, in una macabra imitazione dell’antico naufragio del Titanic. Ma giunto al punto culmine del movimento, l’affondamento si arresta. L’assetto è stato trasformato e il dispositivo, pronto a fare il suo dovere, rimane lì. Già, ma qual’è lo scopo? Perché mai è stato costruito un qualcosa di così strano ed indubbiamente, anche costoso? E come mai dopo esattamente 55 anni, non è stato ancora inventato un modo MIGLIORE per farlo? Forse, volendo lanciare un’ipotesi lievemente azzardata, non ve n’era affatto la necessità…
La FLIP venne prodotta, dopo una lunga fase di test portata avanti con dei modellini misuranti anche 10 metri, dai cantieri della Gunderson Brothers Engineering Company di Portland, su un progetto diretto dai due scienziati Fred Spiess e Fred Fisher, membri dell’associazione Scripps con un preciso obiettivo impresso a fuoco fulgido nelle loro carriere: studiare la propagazione di un’onda sonora nelle profondità dei mari. Uno scopo all’apparenza privo di applicazioni dirette, finché non ci si ricorda della succitata implicazione militare; stiamo parlando, dopo tutto, dell’unico segno rivelatore di un sommergibile, magari armato di testate nucleari. Qualcosa da studiare e comprendere in ogni possibile situazione orografica dei fondali, soprattutto in un’epoca preoccupante come quella della guerra fredda col Blocco Orientale.
Ma c’era un problema: per portare a termine le osservazioni richieste, il team avrebbe dovuto trovare il modo per restare immobile, sia orizzontalmente che verticalmente, in un punto definito del mare. Non proprio un’obiettivo da nulla. Secondo la leggenda, l’idea risolutiva venne ad Allyn Vine, fisico e ingegnere già coinvolto nella progettazione di batiscafi e sommergibili per la Scripps. Egli aveva infatti avuto modo di vedere, durante uno dei suoi viaggi scientifici in mare, lo spettacolo di un mocio lasciato distrattamente cadere in mare. Dove l’implemento di pulizia, piuttosto che affondare, giacque perfettamente immobile per molti minuti, tenuto a galla dalla sua testa assorbente. Benché la più larga parte del suo peso, costituito dall’impugnatura, si trovasse interamente sommerso dai flutti del mare. Quello che stava succedendo, che poi è lo stesso principio della nave FLIP, apparve fin da subito chiaro alla sua mente allenata: poiché la massa principale dell’oggetto era al di sotto della linea di galleggiamento, e di molto, niente avrebbe potuto scuotere (facilmente) l’implemento dalla sua posizione corrente. Aggiungete a tale configurazione un’ancora, ed avrete esattamente il comportamento idrodinamico della “nave” in questione. Che da un punto di vista meramente tecnico, dovrebbe essere inserita nella categoria delle boe a palo, il più delle volte usate per portare a termine rilevamenti di precisione d’altura. Ma più grande di qualsiasi altra mai costruita, e dotata di un equipaggio di fino a 18 persone, di cui cinque marittimi e 11 scienziati. Non che il tutto esaurito, di questi tempi, abbia modo di verificarsi particolarmente spesso. L’Oceano non ha ormai più tanti segreti, e quelli probabilmente più interessanti, ce li abbiamo inevitabilmente disseminati noi esseri umani.
Trattandosi di uno spazio piuttosto ristretto in proporzione alla quantità dei membri a bordo, la nave rotante vede l’applicazione di un’organizzazione degli interni dall’alto grado di razionalità. Con un’area vivibile che occupa soltanto i primi 17 metri dello scafo, ogni stanza ha almeno un paio di funzioni ed ovviamente, due possibili orientamenti d’impiego. Dove possibile, a tal fine, sono stati implementate delle soluzioni di arredo montate su rotaia basculante, che durante il capovolgimento vengono accuratamente riorientati in una posizione idonea alla direzione della gravità. Per implementi necessariamente fissi, quali i lavandini, si è optato per la soluzione più semplice di costruirli a coppie, uno sul pavimento-parete e l’altro sulla parete-pavimento, in modo che l’utilizzatore posa selezionare, volta per volta, quale dei due sia il più adatto all’assetto corrente. E guai a chi dovesse sbagliare! Piuttosto curiosamente, invece, i WC possono essere spostati alla maniera del resto della mobilia, trovandosi allineati sull’una o l’altra oscura conduttura di scarico che conduce alle viscere della nave. Simili accorgimenti progettuali, nell’opinione di chi ha navigato a bordo della FLIP, gli donano un fascino unico nell’intero panorama marittimo, arrivando a costituire la base di un’esperienza difficile da dimenticare. Nell’intera Scrips, in effetti, non c’è un rito di passaggio e crescita professionale tenuto in maggior considerazione, che il primo viaggio a bordo della mazza-da-baseball/sommergibile/cucchiaio volante. Mentre i membri dell’equipaggio veterani, con un sorriso enigmatico, amano elucubrare sulla falsariga di: “Su questa nave, ogni viaggio è diverso. Perché c’è sempre qualcosa di pronto a mettersi per il verso SBAGLIATO.” (Vedi intervista a Ed Childers per il 50° anniversario della nave, che pur non arrivando a un simile estremo, ci si avvicina.) Nel 1995, quindi, il vascello è stato aggiornato dal punto di vista tecnologico e strutturale, con una spesa complessiva di 2 milioni di dollari circa. Persino oggi, la sua saga non sembra apprestarsi a trovare una fine.
Oggi entrambi i luminari di oceanografia alla base dell’innovativa idea, nati rispettivamente nel 1919 (Spiess) e 1927 (Fisher) sono passati a miglior vita, dopo una lunga carriera trascorsa, almeno in parte, a raccogliere ed analizzare i dati prodotti dal loro lascito più famoso. Ma neppure il trascorrere delle ere, e il volgere delle nuove generazioni, può cancellare l’utilità di un qualcosa che sostanzialmente, nessuno ha mai pensato di ricostruire. Tanto che a distanza di mezzo secolo, viene da chiedersi se ci saranno mai i fondi, o la necessità percepita, per tornare a farlo. O se piuttosto, così come il momento cardine del progetto Apollo grosso modo coévo, un simile approccio allo studio del nostro ambiente situazionale debba necessariamente restare il prodotto di un’epoca di feconda rivalità scientifica con “altri”. Che potrebbe anche non tornare mai più.