Vent’anni d’Italia vestita di latte e di lana

È nel bisogno dell’ora più oscura, talvolta, che il senso dell’innovazione trova il suo più forte stimolo e i creativi, sia tecnici che culturali, si mettono ai margini della ragnatela, tessendo i delicati fili che reggono la civiltà. E non credo che molti, interpretazione fuori dal contesto e nostalgia a parte, potrebbero negare che l’Italia all’uscita dalla “prestigiosa avventura” della guerra d’Etiopia del 1935, stesse vivendo uno dei suoi periodi più drammatici a memoria d’uomo. L’erario quasi totalmente esaurito dal bisogno, certamente opinabile, di sostenere 400.000 soldati al di là del mare, in un’area geografica logisticamente e climaticamente complessa; la crisi della risorse alimentari e industriali dovuta ad una crescita ed urbanizzazione troppo accelerate; l’apprezzamento smodato della lira, con conseguente difficoltà delle importazioni. Fu in questo clima già in bilico, dunque, che la Società delle Nazioni sorta dalle ceneri del primo conflitto mondiale, istituì le sanzioni economiche ed industriali verso il cosiddetto “Impero di Franceschiello” con un ritorno in auge del vezzeggiativo disonorevole un tempo affibbiato alle mire espansionistiche del re Francesco II di Borbone (1859-1861) ma anche alla proverbiale povertà del più celebre santo del Medioevo. E si può dire che qualcuno, alle più alte sfere della scena politica della penisola, non aspettava letteralmente altro. Mussolini, che allora conduceva il paese come Primo Ministro e duce del Fascismo (carica creata ed abolita con lui medesimo) diede l’ordine d’istituire il regime d’autarchia. Che cosa fosse esattamente, questo stato identificato da un tale grecismo lessicale proveniente da αὐταρχία, il desiderio e la capacità di governarsi da soli, si scoprì progressivamente. L’Italia, “assediata crudelmente dalla malvagità delle nazioni d’Europa” avrebbe trovato la forza per produrre tutto ciò di cui aveva bisogno sul proprio stesso territorio, dimostrando al mondo la sua feroce ed invidiabile autonomia. Secondo alcune interpretazioni storiche, nella realtà dei fatti, le sanzioni economiche imposte dall’estero non furono poi così terribili: diversi paesi, tra cui Germania, Austria, Ungheria ed Albania continuarono a commerciare con l’Italia, e lo stesso faceva, indirettamente, persino l’Inghilterra. Tale clima sarebbe stato dunque impiegato prevalentemente dai monopoli e le grandi aziende di stato, per soverchiare forzosamente le leggi del libero mercato. Ma ciò poco importa, ai fini della nostra analisi: il popolo era convinto che mancassero le risorse, ed in base a questo, operò.
È in questo drammatico scenario in bianco e nero, da più di un singolo punto di vista, che la storia della tecnica conobbe la figura di Antonio Ferretti, chimico di Gavardo, in provincia di Brescia, che nell’epoca della grande guerra aveva fatto la sua fortuna riconvertendo le fabbriche di famiglia per produrre granate e bombe Stokes. Base di partenza attraverso la quale, negli anni dell’autarchia, riuscì a suscitare l’interesse di Franco Marinotti, l’allora direttore della compagnia con forti partecipazioni pubbliche SNIA Viscosa di Milano, nata dal sodalizio tra la Società di Navigazione Italo Americana, originariamente incaricata dei trasporti atlantici, e la società Viscosa di Pavia, specializzata nella produzione di materiali chimici non naturali, sostanzialmente gli antenati della plastica successiva. Proprio quest’uomo, in effetti, aveva scoperto qualcosa di straordinario: una complessa procedura per estrarre la caseina e trattarla, affinché costituisse un materiale fibroso che poteva essere lavorato ed in qualche maniera, usato per sostituire la lana, un costoso materiale importato dai paesi non aderenti all’embargo commerciale. L’idea piacque e nel 1937, fu messa in commercio col nome di Lanital. Mussolini fu subito entusiasta di questa opportunità: “L’inventiva…L’orgoglio italiano…” nei suoi molti discorsi ed articoli, non fece mai segreto di provare grande ammirazione per coloro che, come Ferretti e Marinotti, trovavano il modo di sorpassare l’infingardo destino della nazione, proiettandola verso nuove vette di successi economici internazionali. Ed il lanital, in effetti, era un prodotto di alta qualità. Enormemente superiore ai primi esperimenti fatti nel settore quasi 10 anni prima in Germania, e persino alla controparte statunitense dell’Aralac, che non poteva vantare le stesse caratteristiche di flessibilità e resistenza. La storia di questa invenzione dal breve successo, in una maniera marginale benché importante, fa parte della storia di tutti noi.

Questo segmento dell’Istituto Pathé, prodotto in Inghilterra lo stesso anno di quello del Luce/Cinecittà nostrano riportato in apertura (1937) differisce significativamente da quest’ultimo nel tono impiegato: serio ed entusiasta il primo, divertito, persino scherzoso il secondo. Eppure, la tecnologia c’era.

Questa fibra del Lanital, ad ogni modo, non fu l’unico prodotto commercializzato con enfasi a nascere dai duri anni dell’autarchia. Nel 1934 da un misto di canapa e cotone disintegrati e mischiati assieme presso gli stabilimenti di Castellanza e Tresigallo nacque il Sodolin, mentre l’anno successivo si arrivò al Cafioc, creato a partire dalle fibre vegetali della ginestra. Ben presto il duce elogiò la ginestra come “grande pianta italiana” ed incoraggiò chiunque potesse a piantarla nei propri giardini. Il Rayon, prodotto con la soda caustica a partire dal legno, sostituì la seta. Anche se, aveva un problema: bastava che si sfibrasse anche soltanto in un punto, perché il filo perdesse completamente la trama e l’ordito, disfacendosi letteralmente sotto gli occhi basiti dei suoi sfortunati indossatori. Dalla Sardegna, nel frattempo, ritornò in voga l’orbace, proprio quello stesso tessuto di cui un tempo erano fatti i sai monacali, incluso, secondo la tradizione, quello del già citato San Francesco. Si trattava di una stoffa “Resistente, sportiva, buona anche per lo sci” creata da lana fatta infittire artificialmente con colpi maglio o calpestandola, al fine d’acquisire la non-permeabilità. Tale tessuto d’origine naturale, negli anni successivi avrebbe acquisito notevole prestigio, diventando la materia prima preferita per produrre le celebri camice nere, indossate preferibilmente dai gerarchi dell’oligarchia fascista e dai loro agenti sul territorio. Nel frattempo, presso la SNIA di Milano, la produzione della “stoffa del popolo” continuava.
Il processo prevedeva una serie di passaggi, tutti egualmente importanti per il raggiungimento della più alta qualità del prodotto finale. In primo luogo, occorreva separare la caseina proteica da tutto ciò che non riguardava la produzione, il che consisteva nello scremare completamente il latte, creando una sorta di cagliata incolore, che poteva essere tagliata e lavata. Quindi la soluzione veniva lasciata maturare, affinché acquisisse le caratteristiche di un materiale pronto alla fase di estrusione, da cui la successiva filatura. Di solito, in questa fase venivano aggiunti vari acidi, sali e piccole quantità di magnesio (o alluminio) al fine d’incrementare la resistenza della stoffa desiderata. Proprio nell’attenzione riportata a questo tocco ulteriore, il prodotto italiano risultò fin da subito superiore alle alternative coéve. A concludere la produzione, i fiocchi risultanti venivano lavati e consegnati alle case di tessitura, presso cui s’impiegava per creare i più diversi capi di vestiario. Vantaggio interessante del Lanital, rispetto alla lana tradizionale, è che questo giungesse ai telai perfettamente candido, in fiocchi identici tra di loro che non richiedevano alcun tipo di trattamento intermedio prima dell’assemblamento finale. Proprio questo, dopo tutto, è sempre stato il grosso pregio delle produzioni del tutto artificiale. Ma i vestiti di questa fibra miracolosa, a quanto pare, continuarono fino al dopo guerra ad avere un lieve odore di latte acido, che tendeva a riemergere ogni qualvolta venissero bagnati. Non raggiunsero mai, inoltre, la leggendaria ruvidità e resistenza dell’orbace. Chi mai, del resto, potrebbe vantare di esserci riuscito?

Nonostante l’omino anacronistico nella sua concezione, che pare quasi una moderna mascotte dell’epoca digitale, l’influenza dell’Art déco restò sempre fortemente visibile all’interno dell’estetica futurista. Notare, ad esempio, lae scelte di tipografia.


Tutto attorno alle fibre autarchiche, ma in modo particolare al Lanital, nacque uno sforzo di marketing quale l’Italia di allora non aveva, forse, mai conosciuto. La fibra caseinica fu definita più volte, anche da Mussolini stesso, come “tessuto della nostra vita” mentre i fautori del movimento culturale, letterario ed artistico del Futurismo lo elaborarono ben presto attraverso il loro specifico metodo interpretativo. Su esplicita commissione dell’Ufficio di Propaganda, Filippo Tommaso Marinetti creò il suo Poema del Vestito di Latte (1937) un’epica raccolta di aforismi e il racconto in versi della meravigliosa tecnologia, che venne stampata in serie in un prestigioso libro con fotografie pastorali e la grafica di Bruno Munari. L’opera rappresenta, con la sua singolare metodologia espressiva, il primo esempio di “poesia industriale d’avanguardia”. Tra i passaggi più significativi del testo, stringhe catartiche e prive di punteggiatura (come da rinomata prassi futurista) quali:

E voi forze liquide comprendo la vostra ansia non immalinconitevi otterrete certo il prodigio ecco allineati i filtri di bambagia di cotone e tu latte magro coàgulati e per questo caccia via a destra e a sinistra questi eserciti di calorie pensa bevi la grande idea essenziale dare al nastro di caseina una consistenza tale che si possa tagliare umido / […] – Via

Fino all’inizio della guerra, e ben oltre, gli italiani sostennero con apparente entusiasmo, più o meno sentito, i valori dell’autarchia. Le automobili funzionavano ad alcol estratto dal vino, quando non addirittura legna da ardere, tramite lo strumento importato del gassificatore. Le inferriate e i cancelli venivano dismessi e donati alla Patria, che li usava per produrre fucili, carri armati ed aerei. Persino i beni personali, come oro, argenteria e soprattutto le fedi nuziali, vennero destinati alla fusione a beneficio dell’ormai piangente Erario. Mussolini, con grande risonanza mediatica, si privò lui stesso tra le altre cose della medaglia ricevuta nel 1929 dal papa in persona, in occasione dello storico Concordato tra stato e chiesa. Fu tuttavia scoperto, con sommo stupore di tutte le parti coinvolte, che era si trattava di una patacca dorata [fonte].
Il successo delle fibre caseiniche, forse anche in forza dei monopoli di stato, continuò tuttavia ad aumentare. La realtà è che in quel contesto storico, con i problemi economici e diplomatici di allora, la povertà dovuta al conflitto e le alterne fortune di una classe dirigente tutt’altro che abile a barcamenarsi nel maelstrom di un’Europa in fiamme, si trattava di uno strumento sociale tutt’altro che inutile. Al termine del conflitto, contando sulla sua larga fama, la SNIA tentò nuovamente di commercializzare il Lanital, in una versione migliorata dal nome di Merinova. Nel frattempo, tuttavia, il panorama delle fibre artificiali si era arricchito di una nuova base, l’acrilico. Che non dava odori, non si sfilacciava e resisteva a qualsiasi tipo di abuso. Inoltre, fattore tutt’altro che indifferente, in Italia non vigeva più lo stato dell’autarchia. A quanto ne sappiamo, non sarebbe tornato mai più.

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