Tutti gli anni ad agosto, sui loro terreni verdeggianti della penisola californiana di Monterey, gli organizzatori della prestigiosa casa d’aste di Sotheby’s riuniscono alcune delle più lussuose, rare ed antiche automobili in cerca di nuovi padroni. È l’evento più atteso, discusso e visitato dai maggiori collezionisti americani, disposti a pagare letterali milioni di dollari per acquisire il possesso di un qualcosa che, da quel giorno, soltanto loro potranno vantarsi di avere. Al termine della leggendaria 6 giorni ha quindi luogo il Concours d’Elegance di Pebble Beach, mediante il quale vengono premiati in diverse categorie i possessori dei pezzi d’epoca su quattro ruote più ben conservati, integri e funzionanti in tutte le loro parti. Come potrete facilmente immaginare, molto spesso si tratta degli acquirenti dell’anno prima. E proprio per questo, direi già che il 2018 avrà un favorito: colui che, sborsando una cifra pari a quella per l’acquisto di un atollo con spiaggia e foresta nella regione delle isole Salomon, giungerà sul terreno di gara a bordo della sua fiammante Ferrari Uovo. A vederla, non ci si crede: una griglia del radiatore perfettamente ovale, con due fari sporgenti simili agli occhi di una lumaca. Un cofano lungo e bombato, dietro il quale trova posto l’abitacolo, con un parabrezza che sembra fare tutto il possibile per stare in orizzontale; è una chiara ricerca di forme aerodinamiche, questa. Ma non provenienti dallo studio scientifico di un tunnel del vento, bensì dalla cosiddetta “intuizione ottica” di uno dei principali rappresentanti della sua categoria: i piloti automobilistici italiani degli anni ’50. Stiamo parlando del conte Gianni Marzotto, l’erede di un impero tessile che a un certo punto della sua vita, dovette scegliere tra il continuare a correre su quelle che lui definiva “trappole mortali” o ricevere le redini della compagnia di famiglia. E scelse, io ritengo, piuttosto bene. Non che l’alternativa, del resto, potesse realmente definirsi sbagliata.
La Uovo nacque nel 1950 a Valdagno, provincia di Vicenza, per la volitiva iniziativa del giovane conte, che a quel tempo già costituiva uno dei migliori clienti, nonché amico personale di vecchia data, di un già leggendario Enzo Ferrari. Gli fu così possibile acquistare dalla casa di Marranello, per una cifra che si aggirava sui 7 milioni di lire di allora, due telai senza carrozzeria del nuovissimo modello Ferrari 2560, chiamato 212 “Export” per la sua concezione di veicolo idoneo alla vendita sui principali mercati stranieri. La sua idea era, infatti, di ricoprirli con una sua personale idea di carrozzerie aerodinamiche, per creare rispettivamente, un mezzo spider e una coupé. Non era ovviamente possibile, a quell’epoca, concepire un grande campione di gara che non fosse anche un ingegnere e un meccanico: a tal punto, simili veicoli erano soggetti a problemi di vario tipo durante le gare. E come nelle arti del Rinascimento, colui che guidava, spesso, era un appassionato dell’automobile in ogni suo aspetto, compreso quello progettuale. Giannino tuttavia, come lo chiamavano gli amici, non fu da solo nella sua impresa, per la quale reclutò due nomi decisamente insigni: la carrozzeria Fontana di Padova e il giovane artista e designer Franco Reggiani, ancora sconosciuto agli occhi del mondo. Sulla base dei suoi disegni ed idee, quindi, tali personalità realizzarono per lui questo veicolo che costituiva un punto di rottura netto con la convenzione, al punto da essere stato definito da particolari osservatori dei fatti come prima ed unica automobile futurista. La seconda creazione soprannominata “il ragnetto” invece, priva di tetto per ripararsi dalle intemperie e vagamente simile alle Bugatti degli anni ’20, presentava un corpo decisamente leggero e caratteristiche prestazionali tutt’altro che indifferenti. Prima di partecipare all’annuale Giro di Sicilia, quindi, il conte allora ventitreenne fece visita col fratello Vittorio a Marranello, al fine di mostrare all’amico Enzo quelli che riteneva essere i suoi due capolavori. La reazione del Commendatore, a quell’epoca già un uomo di mezza età dal prestigio e la fama spropositata, fu drammaticamente negativa: pare che senza mezzi termini, egli avesse assicurato che al primo accenno di difficoltà la Uovo sarebbe finita disintegrata, mentre il ragnetto avrebbe subito un crollo strutturale. Aggiungendo quindi che per difendere il titolo, avrebbe inviato Piero Taruffi con un’automobile più degna di rappresentare la casa del cavallino, una 2560/212 E. A seguito di questo evento alquanto imprevisto, i due fratelli si scambiarono le auto: Gianni avrebbe guidato la coupé, Vittorio la sua controparte spider. Prima di giungere a Palermo, tuttavia, venne dato sfogo ad un’altra iniziativa insolita: il ragnetto venne ridipinto con una vistosa livrea gialla, rossa e blu, acquisendo da quel preciso momento il soprannome di “carretto siciliano” con cui sarebbe passato alla storia. Raggiunta la linea di partenza e riscaldati i motori, quindi, i Marzotto si gettarono nella mischia, fermamente intenzionati a provare come il giudizio del Sig. Ferrari fosse del tutto errato. Nei suoi racconti, Giannino narra di come l’esperienza di guidare la Uovo fosse decisamente insolita ed interessante: con la sua postazione di guida particolarmente arretrata, l’auto trasmetteva al suo guidatore ogni accenno di scodamento e altre sollecitazioni, inducendo ad una guida più misurata. Essa risultava, inoltre, notevolmente più leggera e maneggevole delle Ferrari della sua epoca, correggendo i due principali difetti che il suo padrone aveva sempre segnalato al Commendatore. All’altezza di Messina, tuttavia, fu necessario fermarsi: Gianni, che era ben a conoscenza di una lieve perdita di carburante precedentemente tappata con un chewing gum, aveva visto un bagliore nello specchietto retrovisore, convincendosi che l’auto stesse per andare a fuoco. Ipotesi presto smentita, tuttavia, durante la sosta ebbe modo di notare che il differenziale si era sfilato, a causa di un errore da parte della casa di Marranello. A quel punto, il conte non ebbe altra scelta che ritirarsi dalla gara, che tuttavia fu vinta dal fratello Vittorio a bordo del “carretto”, che si rivelò in grado di battere anche il Taruffi inviato da Enzo Ferrari. Chiamando quindi il grande capo per telefono, al fine di vantare il suo successo di famiglia e forse rimproverargli scherzosamente il problema al differenziale, Gianni ricevette in risposta la storica frase “Proprio come immaginavo… Ha vinto una Ferrari.”
L’anno successivo, il momento della verità: Giannino avrebbe partecipato a bordo della Uovo a quella che costituiva senz’altro la più importante gara d’Italia, la Mille Miglia dove già in precedenza aveva trionfato nel 1950, a bordo di una Ferrari 195 S ed indossando niente meno che un doppio petto marrone prodotto dall’azienda di famiglia. Una vera prova del fuoco, visto come all’evento partecipassero anche le nuove e potentissime Ferrari 4.100 pilotate anche da Villoresi, nonché il fratello Vittorio, che evidentemente aveva preferito sostituire il ragnetto/carretto del trionfo siciliano. Nonostante questo, il conte era sicuro che la sua fuoriserie potesse competere dal punto di vista della velocità pura, grazie ai tre carburatori e alla potenza comunque notevole di 186 hp. E in effetti nei primi 600 Km di gara l’automobile si comportò molto bene, permettendo al suo pilota di avvantaggiarsi di 10 minuti arrivando ad avere un distacco di appena 30 Km sul secondo assoluto (nella Mille Miglia, si parte a intervalli regolari, come in un rally) A quel punto, tuttavia, di nuovo un imprevisto condizionò la prestazione di questa sperimentale automobile: il rumore di una strana vibrazione nel portabagagli, infatti, aveva convinto il pilota che il differenziale di Ferrari si fosse guastato ancora. Il conte a quel punto elaborò una massima che avrebbe portato con se per il resto della vita: “Nella Mille Miglia, essere in testa dopo 600 Km non significa arrivare vivi a 1.600.” E decise, non senza qualche rammarico, di andarsi a mangiare un brodetto di pesce a Senigallia. La gara fu quindi vinta da Luigi Villoresi, a bordo della sua Ferrari 340 America, mentre Vittorio Marzotto dovette anche lui ritirarsi, a causa di una scelta sbagliata di pneumatici e l’inizio della pioggia. Successivamente al ritiro, quindi, come da prassi, Marzotto portò la sua Uovo presso le officine di Marranello, per una revisione completa da parte del produttore. Occasione nella quale si scoprì che non era stato il differenziale a causare la vibrazione, bensì semplicemente un distaccamento parziale del battistrada di una delle gomme posteriori: Giannino avrebbe potuto semplicemente cambiarla, e proseguire la gara. Si narra che a quel punto Enzo Ferrari abbia avuto una reazione rabbiosa a tal punto, da scagliare al suo indirizzo una testa di cilindro che teneva nel suo ufficio, come fermacarte. Ma il giovane conte riuscì a scansarla.
La Uovo, dunque, aveva fallito di nuovo. Ma la sua carriera non finì lì. Giannino l’avrebbe infatti guidata una terza ed ultima volta in occasione di una gara certamente meno prestigiosa, ma comunque degna di rilievo: il Giro di Toscana. Partecipava anche il fratello Vittorio, tra una schiera di piloti forse non al pari di loro, che il conte aveva inizialmente preso sottogamba: al punto da darsi ai bagordi al sera prima, dimenticando i guanti di gara e riportando quindi piaghe alle mani dopo neanche metà del tragitto. Lo stress, tuttavia, non gli impedì di fumarsi una sigaretta durante uno dei passaggi più facili del tracciato. Dopo un centinaio di chilometri, quindi, il traguardo fu raggiunto: finalmente, un Marzotto aveva vinto a bordo dell’Uovo.
Dopo questo importante successo, l’auto fu quindi accantonata, in mezzo alla schiera di altre Ferrari possedute dalla famiglia. Nel 1953, dopo un’ulteriore partecipazione alla Mille Miglia da cui si ritirò per dichiarati problemi di salute, Gianni venne nominato a manager della G. Marzotto & F. Spa, prima di diventare direttore generale nel 1956. Il suo patto con la famiglia di abbandonare le pericolose corse automobilistiche in cambio di tale ruolo fu rigorosamente rispettato, ed egli non corse mai più, scegliendo invece di mettere su famiglia. La Uovo, invece, subì un destino imprevisto: nel 1953 era stata inviata in Messico, paese a partire dal quale i fratelli Marzotto avevano intenzione di partecipare alla gara Panamericana; un progetto tuttavia abbandonato, dopo alcuni giri di prova. L’auto fu quindi venduta a un certo Carlos Braniff, che la rivendette Ignacio Lonzano di Newport Beach, l’editore di un giornale locale. Passando di mano svariate altre volte, quindi approdò nel garage di Jack du Gan, celebre storico e collezionista di Ferrari, che la mantenne in suo possesso per un periodo di oltre trent’anni, durante i quali non venne quasi mai fatta uscire e non apparve in pubblico se non in rare occasioni. A partire dal 1986, quindi, fu riportata in Italia, dove partecipò ad alcune edizioni delle Mille Miglia, finché un pilota inesperto non la portò a marcia indietro a cappottarsi in un fosso, riducendola a poco più di un rottame. Pressoché immediatamente, con spesa assai significativa, la leggendaria automobile fu restaurata e rimandata negli Stati Uniti. Ed ora, eccola lì: tra le luci della ribalta di Monterey, prezzo di partenza dell’asta di Sotheby’s: 4,5 miloni di dollari. Ma è ragionevole pensare che cresca ancora. Dove altro sarebbe possibile, del resto, possedere un simile pezzo di storia dell’automobilismo creativo?