Ci vuole coraggio. Occorre fegato, per mettersi alla guida di un SUV al fine di inoltrarsi parecchie centinaia di Km nelle steppe desertiche del Kazakhistan, verso il brullo sito in bilico tra il fiume Syr Daya e il grande lago in via di prosciugamento del mare di Aral. Per eludere nella notte le pattuglie e sconfinare in una delle più vaste zone militarizzate al mondo parcheggiando, infine, a ridosso delle trappole trinciapneumatici, proseguendo a piedi nella notte dell’Asia centrale soltanto per raggiungere un vastissimo, cubico edificio. E tentando di non far rumore, strisciare fino a un’apertura nelle pareti rovinate, giù per una scala dismessa, finché la propria torcia non illumina di lato lo spropositato oggetto di cui si era alla ricerca. Un grosso aereo, lungo 36 metri e pesante a vuoto 42 tonnellate, dalla forma tutt’altro che aerodinamica almeno per quanto sappiamo del volo convenzionale. Questo perché è stato concepito, guarda caso, per qualcosa di totalmente diverso: raggiungere l’orbita terrestre ed iniziare a percorrerla, una volta ogni 40 minuti circa, alla velocità media di circa 28.000 Km/h. In un luogo in cui l’aria non esiste e quindi, ovviamente, neppure la resistenza dinamica dovuta alla sua densità. L’avete visto? Vi ricorda nulla? Se fossimo a Cape Canaveral, non esitereste neanche un secondo nel chiamarlo per nome: “È lo Space Shuttle, non lo dimenticheremo mai…” Ma qui siamo nell’ex Unione Sovietica, e questa cosa ormai ricoperta di ruggine si chiama Buran (tempesta di neve). Loro sono, invece, gli spedizionisti avventurieri del canale Exploring the Unbeaten Path, praticanti olandesi di quell’attività largamente abusiva che prende il nome di Urbex, e spesso consiste nell’insinuarsi all’interno della proprietà privata per prendere atto di un qualcosa di straordinario. Ma personalmente ritengo che mai, nella storia di quest’ambito, si sia giunti ad una simile faccia tosta, e la capacità di rischiare la propria libertà futura con una simile leggerezza. Il gruppo dei tre turisti sembra imitare in effetti, in diversi momenti, le tecniche delle spie dell’epoca della guerra fredda, mentre si nascondono nei recessi del torreggiante hangar, ascoltando suoni lontani e i movimenti delle guardie dell’installazione. Che pur essendo attualmente abbandonata, fa pur sempre parte del cosmodromo di Baikonur, ancora attivamente impiegato perché è l’unico luogo, dotato di rampa di lancio, con latitudine sufficientemente elevata per inviare gli astronauti sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS). E c’è poi anche il piccolo dettaglio che ad oggi, successivamente al ritiro degli Shuttle americani nel 2011, le navicelle Soyuz custodite nei dintorni di questo luogo sono l’unico veicolo esistente in grado di trasportare esseri umani nell’orbita del pianeta terra. A tal punto, è stato ridotto il budget del leggendario programma spaziale statunitense! Ma se Atene piange, come si dice, Sparta non ride. O per meglio dire, parti di Sparta cadono in rovina per il disuso e l’assenza di manutenzione. Parti costate, a loro tempo, 20 miliardi di rubli (oltre 71 miliardi di dollari) giungendo a contribuire in modo significativo al collasso sociale ed economico dell’Unione Sovietica, avvenuto nel 1991. E dire che all’epoca, erano sembrate COSÌ necessarie…
La comitiva è piuttosto bene assortita: c’è quello prudente, che accetta di buon grado di fare il palo nei momenti più delicati dell’esplorazione, verificando l’eventuale arrivo dei soldati richiamati dal rumore degli ospiti inattesi. C’è il tecnico audio-video, dotato di telecamere e drone d’ordinanza, fermamente intenzionato a documentare ogni minuto di questa irripetibile esperienza. Mentre il terzo uomo, scorpioni tatuati sul petto, si capisce subito essere lo scavezzacollo di ogni situazione, l’arrampicatore di strutture dismesse e remoti pertugi trovati di volta in volta ai margini delle circostanze scoperte. Se questo fosse un cartone animato, mancherebbe soltanto la figura comica del grosso e codardo Scooby Doo. Ma stiamo assistendo ad una situazione, ed un pericolo, assolutamente reale, nel preciso momento in cui i tre raggiungono una stanza senza finestre al primo piano dell’hangar e decidono di passare lì la notte, in attesa di un’alba che, come nel romanzo Rama di Arthur C. Clarke (l’autore di Odissea nello Spazio) illumini all’improvviso l’incredibile aspetto del luogo in cui sono giunti, dopo un lungo e pericoloso viaggio nell’infinito. Proprio mentre dietro la prima astronave, incredibilmente, si profila la sagoma in controluce di qualcosa di straordinario: una seconda, esteriormente del tutto identica a lei…
Ma nelle poche ore rimaste prima che sorga il Sole, sarebbe difficile non andare indietro con la memoria, ripensando all’epoca in cui dozzine di tecnici, scienziati e astronauti avrebbero percorso queste auguste sale, in preparazione di un giorno fatidico che in ultima analisi, non sarebbe arrivato mai. Il progetto Buran fu l’immediata reazione, inizialmente voluta dal ministro della difesa Dmitry Ustinov nei primi anni ’80, alla notizia che gli americani avevano lanciato in orbita un nuovo tipo d’astronave, capace di portare fino agli estremi confini di questo pianeta un carico di 15 tonnellate, di molto superiore a quello di qualsiasi velivolo predecessore. Furono elaborati degli studi, e fatte simulazioni su ordine del governo, finché non si giunse alla convinzione che l’unica ragione per costruire un’astronave riutilizzabile tanto potente era un progetto segreto relativo alla costruzione delle tanto temute armi orbitali, o in alternativa rientrare dall’orbita sopra Mosca, per scaricarvi il proprio carico di bombe nucleari. E il fatto che per ovvie ragioni, mancassero le prove di tali improbabili ipotesi, non fu certo abbastanza per fermare la paranoia, tanto da indurre il governo a ordinare la costruzione di un proprio Space Shuttle, di cui poter disporre “…In caso di necessità.” (Alias una terza, brevissima guerra mondiale). Non fu un vezzo semplice da realizzare, e nessuno pensò mai di fare le cose a risparmio. Il fior-fiore dell’ingegneria sovietica prese dunque a lavorare alacremente, per elaborare un mezzo che fosse in grado di rivaleggiare, e possibilmente superare, quello creato dai dominatori del Blocco Occidentale. Furono tuttavia proposte diverse forme e soluzioni aerodinamiche, soltanto per arrivare alla conclusione che, in effetti, quella americana era inerentemente la migliore. E questo è il motivo per cui lo Shuttle russo è superficialmente identico al suo predecessore americano, in una situazione analoga a quella del Tupolev Tu-144, l’aereo supersonico quasi indistinguibile dal Concorde. Tanto che in un primo momento, tutti sospettarono che il progetto fosse basato su un’opera di spionaggio, finché alla realizzazione dei primi test, non si scoprì che le navicelle Buran avevano in effetti capacità, prestazioni ed un potenziale notevolmente diversi. Dopo tutto, i primi prototipi erano stati costruiti quasi un’intera generazione dopo, in un’epoca in cui ancora, la tecnologia aeronautica avanzava in maniera vertiginosa.
Prima e significativa differenza tra i due velivoli, dunque, era l’assenza di motori principali nell’orbiter (la navicella propriamente detta) che secondo la visione sovietica avrebbero trovato posto invece in un grosso razzo di decollo, collocato in corrispondenza del serbatoio centrale dello Shuttle americano. Tale dispositivo, denominato Energia, era inoltre dotato di quattro vettori ausiliari, nessuno dei quali concepito per durare oltre una singola missione nel primo modello, ma che al raggiungimento della versione definitiva lo sarebbero diventati al 100%, creando la prima astronave pienamente riutilizzabile della storia. Il Buran presentava inoltre un’altra caratteristica, successivamente aggiunta al suo ispiratore statunitense in un ritorno di tecnologia all’ovile: la capacità di volare senza nessun tipo di equipaggio a bordo. Particolarmente famoso è rimasto, a tal proposito, il rientro dell’unica missione orbitale effettuata prima del collasso dell’Unione Sovietica, durante il quale un forte vento di traverso avrebbe messo in difficoltà anche il più esperto dei piloti umani. Mentre il vetusto computer dell’Orbiter K1, inviando la navicella lungo un tragitto d’approccio triangolare, riuscì a toccare terra senza incidenti al secondo tentativo. Al termine della missione, solamente 8 delle 38.000 mattonelle termiche che costituivano la sua protezione durante il rientro erano andate perdute. E volete sapere che fine ha fatto, oggi, tale eroica astronave? È finita distrutta nel 2002, quando un altro hangar del cosmodromo crollò a seguito di una forte pioggia, costando tra l’altro la vita a 8 lavoratori che stavano cercando di metterlo al sicuro. E a giudicare dall’evidente stato di manutenzione di quello esplorato dal gruppo olandese, non è che manchi molto affinché gli altri facciano la stessa fine…
Ciò detto, questi non sono certamente gli unici Buran rimasti integri: Wikipedia stima che nel corso del programma più che decennale furono costruiti circa 24 esemplari, per lo più incompleti o finalizzati a testare una singola specifica caratteristica del mezzo. Alcuni erano in scala ridotta, per testare l’aerodinamica e le capacità di manovra. Successivamente all’esaurimento del budget, e con la conseguente cancellazione del sogno spaziale russo, alcuni esemplari furono smontati, altri venduti all’estero, per istituzioni scientifiche di vario tipo. Altri, semplicemente, rimasero lì. Menzione a parte merita il caso dei quattro modelli OK-2M, dotati di motori a reazione addizionali e concepiti per decollare dalla pista di un aeroporto senza nessun tipo di assistenza, qualcosa che lo Shuttle non aveva mai neppure sognato di fare. I quali, unici superstiti, erano completi al 100% e per questo furono particolarmente ambìti, rispettivamente dal museo dell’aeroporto di Ramenskoye, a Mosca, dalla città australiana di Sydney in occasione delle Olimpiadi del 2000, dal museo della tecnica di Speyer in Germania e da un ignoto facoltoso acquirente del Bahrein, che custodisce il suo Buran tutt’ora presso il porto dell’isola principale, in attesa di risolvere alcune beghe legali in merito al possesso di un manufatto tanto eccezionale.
Nel 2003, per un breve momento, successivamente al blocco di tutti i voli dello Shuttle statunitense a seguito del disastro del Columbia, si pensò di poter resuscitare e finalmente mettere in funzione i loro analoghi russi, finché a qualcuno, finalmente, non venne in mente di andare a verificare in che condizione fossero le astronavi: rovinate, incancrenite, rugginose dopo poco più di una decade dal loro stoccaggio ed immagazzinamento. A tal punto, il periodo di ristrettezze economiche aveva condizionato il colossale complesso nel Kazakhistan, non più parte del territorio russo e per questo considerato “secondario” nel budget di manutenzione del nuovo governo. E il resto, come si dice, è la marcia inarrestabile della storia…
Questo è l’epilogo del video, il momento dell’ultimo, amaro trionfo: gli esploratori “urbani” (si, ma dov’è la città?) che dopo essersi nascosti nella cabina di volo senza strumentazione, lanciano verso l’alto il loro piccolo dispositivo volante radiocomandato, riprendendo da vicino le forme della possente astronave di un’epoca leggendaria e altrettanto trascorsa, oramai. Il minuscolo aeromobile che sfiora un paio di volte la coda del maestoso gigante, correndo un rischio d’impatto che fa trattenere il fiato ai padroni umani. Ma poi si salva, proprio perché nella precisione del suo sistema di volo, c’è un piccolo pezzo di quell’eccezionale, dimesso computer a bordo del primo fra tutti i Buran. L’unico ad aver assaporato il gusto e l’aroma del vero Spazio. Come assai probabilmente, se il mondo continua a girare nella stessa direzione, potranno fare ben pochi tra noi.
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