L’ascesa e il declino del cane più caro al mondo

Un milione e mezzo di dollari. Non credo che li spendereste per un animale domestico. Del resto, selvaggio non è forse migliore? Che cosa avrebbe mai da guadagnare, un essere a quattro zampe prodotto dall’evoluzione, nel venire incapsulato e condizionato dalle norme dell’umana società? Prototipica è l’immagine, talvolta utilizzata a scopo esemplificativo, del nostro amico cane che fronteggia il suo antenato, il lupo. Candido e tremante, il primo, cupo e minaccioso, gli occhi rossi dalla furia l’altro. Con denti acuminati dal consumo di carne e fresca e talvolta pulsante, laddove Fido è invece abituato a sgranocchiare croccantini e bocconcini e accetterebbe pure, Dio non voglia, venefici (per lui) cioccolatini! Per non parlare dei muscoli e la costruzione fisica, induriti nella bestia dal bisogno di correre col branco fra la neve e in mezzo ai boschi della taiga, ricercando il cibo per se stessi e i cuccioli in un territorio straordinariamente ostile. Un confronto molto facile da ponderare, questo, se si usano 9 su 10 compagni domestici di quest’epoca moderna e urbanizzata. Ma che sarebbe risultato assai diverso, all’epoca dei nostri antenati. Ritornando con la mente all’Era Classica, da Occidente a Oriente, quale pensate sia stata la prima funzione del cane… Se non proprio, quanto segue: spaventare, soverchiare e annichilire il lupo, per garantire la sopravvivenza del bestiame maggiormente vulnerabile in possesso dei padroni. Si dice che il principale cane tibetano sia in qualche maniera simile all’aspetto primordiale della sua genìa, poiché “mastino” o “molosso” è la forma che sarebbe stata giudicata ideale all’epoca della prima selezione artificiale effettuata dall’uomo: una creatura così formidabile, e possente, che nessun animale del suo ambiente d’impiego mai potuto contrastarla in un combattimento alla pari. Superiore, addirittura, al lupo. Per questo la chiamavano Drog-khyi, nel suo paese sopra il tetto del mondo, che significa “cane da tenere legato” in maniera analoga all’antico idioma inglese bandog, usato per gli incroci di razze finalizzate a produrre il più feroce guardiano dell’uscio e del giardino di frontiera americano. Ma che in Himalaya invece, per una endemica limitazione del pool genetico, sarebbe risultato sufficientemente conforme ad una serie di particolari caratteristiche da essere inserito nella FCI (Fédération cynologique internationale) come razza a tutti gli effetti, e nello specifico, una delle più grosse e forti del mondo. Fino a 83 cm al garrese, e 72 Kg di muscoli pelosi, in grado di rappresentare il più prezioso tesoro vivente di una famiglia di pastori o l’intera comunità di un villaggio isolato. Esistevano a tal proposito due varietà del cane, spesso prodotte nella stessa cucciolata e per questo non distinte dalla classificazione occidentale: Do-khyi, il cane “nomade” più scattante e leggero, Vs. Tsang-khyi, il “cane da monastero” un vero e proprio gigante in grado di fare praticamente qualsiasi cosa, tranne muoversi alla velocità del tuono. Persino il suo latrato sapeva risultare particolarmente spaventoso e potente, al punto da gettare lo sconforto nel cuore di un qualsivoglia ladro. Poiché la notte, normalmente, il “cane legato” veniva invece sciolto e lasciato libero di vagare tra l’oscurità, come uno spettro simile a un leone di Foo.
Quello che tuttavia non si sarebbero mai immaginati, neppure i suoi allevatori con una lunga e articolata tradizione generazionale, era che un intero paese estero potesse autodichiararsi all’improvviso “pazzo per il Drog-khyi”, dimostrando di essere disposto a fare pressoché qualsiasi cosa, pur di accaparrarsene un esemplare da esposizione. E con paese intendo, ovviamente, per lo più la classe dirigente, dei cosiddetti nuovi ricchi della Cina, nel cui ambiente ogni bene insolito, non importa quanto specifico nel suo impiego prefissato, può istantaneamente trasformarsi nel simbolo del proprio status e il sangue stesso di una nuova moda, nella quale investire molti letterali milioni di yuan. Dal che si arriva a questo video del 2014 della testata Vice, in cui un inviato percorreva, ad occhi spalancati, le auguste sale dell’annuale fiera nazionale dei mastini tibetani di Yidu, nello Hubei, informandosi per quanto possibile sui pregi e il costo fuori scala di questa nobile ed antica razza. Ed in effetti sembrava, in quel preciso momento storico, che il mastino tibetano potesse solamente continuare a salire. Ma le alterne strade del fato, a quanto pare, gli riservavano il più crudele dei voltagabbana…

Donna russa, probabile proprietaria di un allevamento, supervisiona e dirige l’insegnamento a due esemplari delle tecniche di attacco e difesa. Il mastino tibetano, quando necessario, sa essere piuttosto terrificante.

Il migliore amico dell’uomo ha una lunga storia nella mitologia e nel folklore cinese, a partire da numerosi miti in cui normalmente non gli veniva assegnato mai un nome, quanto piuttosto il termine generico de “il cane” o “i cani” (questo perché non è sempre possibile, in questa lingua, distinguere tra singolare e plurale). Tale creatura avrebbe dunque partecipato alla Grande Corsa degli animali voluta dalla figura leggendaria dell’Imperatore di Giada, alla base dell’ordinamento dei segni zodiacali cinesi. Competizione in cui arrivò undicesimo, per la sua tendenza a distrarsi e mettersi improvvisamente a giocare. In un altro racconto dalle origini sincretistiche, nel frattempo, l’animale aveva fornito il bene assai prezioso del grano all’intera umanità, rubandolo dal paese degli dei. Ragione per cui, nell’idea del popolo dei Miao, esso aveva posseduto in origine nove code, prima di perderne otto a seguito della sua rocambolesca fuga dal sacro palazzo del Cielo. Mentre nel Sichuan si usava dire che il cane avesse piuttosto convinto l’Imperatore a concedere spontaneamente il cereale ai suoi ingrati sudditi, implorandolo e mordendogli una gamba dei pantaloni. Fatto sta, ad ogni modo, che da allora l’amicizia tra noi e lui/loro sarebbe stata inscindibile, e l’umanità avrebbe sempre riservato una certa parte del suo cibo al compagno di mille avventure. Quando non avesse trasformato esso stesso, purtroppo, nella pietanza di un pranzo o una cena. La folle e spropositata moda per i mastini tibetani avrebbe ad ogni modo tratto l’origine anche da un generale tendenza dei cinesi, negli ultimi anni, a ricercare un legame più saldo con la loro antica spiritualità, possibilmente avvicinandosi alla cultura e i fattori estetici del paese con l’elevazione media più alta al mondo.
Nel giro di pochi anni a partire dai primi del 2000, dunque, questi cani si trasformarono in un qualcosa di straordinariamente prezioso, con costi medi superiori all’equivalente dei 200.000/300.000 dollari, e punte clamorose di oltre un milione. Allevatori che erano in grado di far accoppiare un campione anche 100 volte l’anno, grazie allo strumento tecnico dell’inseminazione artificiale, affermavano orgogliosamente un valore teorico di 15/16 milioni per il loro imponente beniamino, benché si trattasse di una falsità mirata, più che altro, a far comprendere che non era in vendita. Ma poiché il cane del Tibet conservava una caratteristica propria del lupo, quella di andare in calore soltanto una volta l’anno (contro le due di qualsiasi altra razza nota) ben presto iniziarono a incrociarlo con razze d’altro tipo, come i chow-chow, i mastini napoletani e il cane di sant’Uberto. E le versioni risultanti erano talvolta ancora più esteticamente fantastiche, con criniere leonine e conformazione ancora più massiccia, ma il loro pool genetico ne risultò in parte indebolito, con una maggiore vulnerabilità a determinate condizioni cliniche, e la riduzione della durata della vita. Questo fu senz’altro l’inizio del problema. Unito ad una generale cattiva reputazione, per certi versi simile a quella del pit-bull nostrano: alcuni casi sfortunati di cronaca, tra cui l’aggressione tragica di una bambina di soli 6 anni, portarono alcune città cinesi a vietarne completamente il possesso, mentre le vendite, e conseguentemente il valore dei cani continuava a precipitare verso il basso in maniera vertiginosa.

Se adeguatamente educato e trattato in maniera corretta, il mastino tibetano può essere anche un cane adatto alle famiglie. Viene tuttavia consigliato unicamente a dei proprietari molto esperti, per la sua enorme stazza e forza, in grado di renderlo inarrestabile nel caso di eventuali emergenze.

Perciò, “La moda del mastino tibetano è assolutamente finita” titolava il New York Times già nel 2015, mentre raccontava dello sforzo collettivo per salvare in qualche modo le sterminate cucciolate dell’animale già preziosissimo, a quei tempi spedite segretamente verso stabilimenti di processazione, per farne guanti, cappotti e ovviamente ingredienti pronti alla consumazione, in quel particolare stile gastronomico in cui ha la tendenza a finire la carne di ogni tipo, della cucina hot-pot, Chongching o “fonduta cinese”. Storia assolutamente riconfermata da più punti di vista, incluso quello del monastero di Surmang Namgyaltse nella regione di Yushu, che a partire dal 2014 ha coscienziosamente iniziato ad accogliere migliaia di queste creature, abbandonate o rifiutate dai loro potenziali padroni. Questo può portare a fare, l’amore buddhista per tutti gli esseri viventi incontrati nel corso della propria vita.
Eppure, la naturale nobiltà esteriore e la forza d’animo di questo gigante talvolta gentile (non sempre) permane. Già narrata ai tempi di Marco Polo, quando il viaggiatore italiano citò nel suo Milione la storia di questi misteriosi cani d’Oriente “grandi come asini e dalla voce simile a quella di un leone”. E apprezzata in maniera continuativa ai tempi di re Giorgio IV del Regno Unito, che ne possedeva famosamente un paio, al punto da veicolarne l’allevamento in Inghilterra in quantità sufficiente da farli esporre, un secolo dopo, durante il famoso evento del Palazzo di Cristallo alla Fiera Mondiale. Ma ai mastini tibetani derivanti da queste linee occidentalizzate sarebbero sempre mancati alcuni dei tratti più specifici dei loro antenati, tra cui l’abilità di respirare l’aria sottile dell’Himalaya a pieni polmoni, causa la presenza di una minore quantità di emoglobina nel sangue. Una facoltà il cui impiego, nel mondo moderno dei bassopiani, avrebbe costituito essenzialmente una questione di pelo caprino. Un po’ come quello del leggendario Apso Do Khyi, il terzo tipo di mastino, ipoteticamente fatto accoppiare con quello che viene in genere chiamato “terrier tibetano” (lo Tsang Apso) in realtà nient’altro che un cane da montagna dal pelo lungo e intrecciato – e allora non si spiega, come mai, da tale incrocio dovrebbe nascere un qualcosa di tanto magnifico a vedersi:

 

Ulteriori letture: a chi fosse interessato ad altre razze canine di provenienza tibetana, consiglio questo articolo in lingua inglese del portale Jen Reviews: 11 Things You Should Know About the Tibetan Spaniel

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