C’è un vecchio modo di dire dalla difficile attribuzione, tipico di molti film e personaggi statunitensi, che recita: “Nessuno pensa a se stesso come il cattivo.” La quale frase, il più delle volte, trova una diretta applicazione nel mondo reale. Guardate, a tal proposito, la figura del più grande trafficante di cocaina nella storia della Colombia e a dire il vero, probabilmente del mondo intero: l’uomo “del popolo” di Medellín, che nel corso dei suoi 44 anni di vita aveva costruito un’impresa di produzione e traffico in grado di fatturare all’apice del suo successo più di 70 milioni di dollari al giorno, più di Facebook, Starbucks o l’intero paese del Paraguay, oltre a diventare (brevemente) una figura politica inspiegabilmente amata. Spietato assassino, rapitore di persone famose, terrorista quando gli fece comodo, organizzatore di crimini particolarmente efferati. Ma questo, dopo tutto, era in un certo senso dovuto, vista la sua professione. No? Mentre se qualcuno gli avesse chiesto che cosa desiderava dal mondo, egli avrebbe forse risposto “Niente di che. Tutto quello che chiedo… È soltanto essere lasciato in pace.” O almeno questo è il tipo di personalità che hanno voluto far emergere nella serie Tv Narcos di Netflix, andata inizialmente in onda nel 2015, basata almeno in parte su un’evidente ricerca storica associata a diversi momenti speculativi e di fantasia, ma quasi mai del tutto azzardati. Se vogliamo giudicare dalle fonti disponibili online. Resta tuttavia indubbio che alcune delle sue gesta, per mere ragioni di budget, non siano state analizzate come avrebbero potuto. Sto parlando del come in effetti costui spendesse le sue ingenti risorse finanziarie, della vita di eccessi e follie che amava condurre, circondato dai più sfrenati simboli dell’opulenza concepibili secondo la sua cultura e visione delle cose. Ci sono, si, alcune scene con degli animali. Girate, per lo più, presso una villa architettonicamente piuttosto interessante, in realtà scelta per la sua somiglianza ad un luogo realmente esistito: il complesso, oggi largamente in rovina eppure ancora visitato da grande quantità di turisti, della rinomata Hacienda Nàpoles, sita all’incirca 155 Km a ovest di Bogotà. Una casa coloniale con un ampio terreno di 20 Km quadrati, che il trafficante aveva acquistato negli anni ’80, con l’obiettivo di trasformarla in un vero e proprio luogo dei sogni. Propri, e dei suoi due giovani figli. Il paragone con il celebre ranch di Neverland, posseduto a suo tempo da Michael Jackson, assolutamente coévo, è per certi versi utile; benché il cantante Pop statunitense avesse preferito un’estetica ed attrazioni da luna park, mentre il criminale sudamericano, per sua innata prerogativa, avesse scelto di dedicare la maggior parte del suo grande spazio a uno zoo privato. Con bestie come elefanti, giraffe, zebre, uccelli esotici ed ippopotami. Quattro di questi ultimi, per essere più precisi: tre femmine e un maschio. Ma non per molto.
Il problema essenziale dell’intera faccenda è che l’ippopotamo, dal punto di vista evolutivo, è una creatura adattata a sopravvivere in un habitat per lo più ostile. Animale acquatico nel più secco dei continenti, tanto forte e grosso da essere impervio ai predatori ma che deve costantemente proteggere i cuccioli e il territorio. Ora immaginate una simile creatura, trasferita nell’ambiente tropicale della Colombia, in mezzo a foreste accoglienti percorse da fiumi spropositati. Sarebbe un po’ come portare una famiglia di cavalli nel mezzo di un’enorme prateria. O un ratto nel sistema fognario di una grande città moderna. Successe così che successivamente al 1993, l’anno in cui Escobar venne infine trovato dalla polizia ed ucciso nel corso di una sparatoria, l’hacienda restò per un certo periodo del tutto priva di amministratori. Confiscata da un governo che non aveva l’inclinazione o i fondi per realizzarci qualcosa di valido, il complesso cadde progressivamente in rovina, mentre molti degli animali perivano o venivano liberati. Ma non loro: gli ippopotami anzi, incoraggiati dal clima, incrementarono drammaticamente il ritmo della loro riproduzione, arrivando a produrre un cucciolo l’anno. Quando nel 2005, finalmente, venne nominato un amministratore del bene pubblico ed esso fu trasformato, fra tutte le cose possibili, in un surreale “museo del crimine” dedicato ad Escobar, i grandi mammiferi erano ormai svariate decine. Eppure, non erano tutti lì, almeno a giudicare dai numerosi avvistamenti di “strane creature tozze dalle piccole orecchie” lungo l’antistante fiume di Magdalena, il principale corso d’acqua navigabile di quest’area geografica, a volte chiamato la Route 66 sudamericana. La Colombia era effettivamente diventata il primo paese non africano ad avere una popolazione selvatica di ippopotami. La leggenda dello Zar della cocaina continuava, tanti anni dopo la sua dipartita…
Oggi la questione degli ippopotami evasi costituisce un notevole grattacapo per l’Ente di Conservazione Naturale della Colombia, che ha nominato un commissario speciale, il biologo David Echeverri, per elaborare possibili soluzioni al problema. Ma nessun approccio, in effetti, sembra soddisfacente. L’eliminazione sistematica degli animali in eccesso, quello maggiormente risolutivo, è infatti particolarmente sgradito alla popolazione locale, che ha effettuato almeno una significativa protesta in materia, quando nel 2009 un esemplare particolarmente invadente fu ucciso dalla guardia nazionale nella regione di Puerto Triunfo. Il giorno dopo, su tutti i giornali, comparve quindi la foto dei “cacciatori” in posa di fronte alla loro vittima, in una macabra immagine vagamente somigliante a quella che era stata pubblicata oltre 10 anni prima successivamente all’uccisione di Escobar. Nel giro di poche ore, l’animale venne rinominato a voce di popolo “Pepe” e un gruppo di attivisti inscenò una strana protesta nel centro di Bogotà, danzando e cantando con maschere d’ippopotamo per le strade. Il governo quindi, per evitare di precipitare ulteriormente nell’opinione dei cittadini, scelse di non seguire più la linea più crudelmente misericordiosa. Tentando, piuttosto, di limitare la riproduzione degli animali. Ma sterilizzare un ippopotamo è un’operazione particolarmente complessa, poiché queste creature resistono alla maggior parte delle sostanze chimiche, ed anche un’operazione diretta del maschio comporta procedure piuttosto complesse, dato che i testicoli si trovano anatomicamente all’interno del corpo. Inoltre proprio questo mero concetto di catturare un maschio d’ippopotamo adulto è particolarmente difficoltoso, a giudicare dai video reperibili online, in cui quest’ultimo inizia a rallentare soltanto dopo il quarto o quinto dardo di tranquillante sparato da distanza ravvicinata.
E la furia terrificante dell’ippopotamo arrabbiato è particolarmente nota a chiunque guardi documentari sulla natura, per non parlare degli abitanti del suo areale africano, dove miete più vittime annuali di qualsiasi altra belva della savana. Questo in funzione della sua massa notevole, della rapidità di movimento (almeno in linea retta) e dei denti enormi ed acuminati, usati dai maschi per combattere durante la stagione dell’accoppiamento. In Colombia ad ogni modo, almeno per ora, non si sono verificati incidenti. Ma la maggior parte degli esperti concordano nel pensare che sia soltanto una questione di tempo.
Non tutti gli ippopotami di Escobar, ad ogni modo, si sono inselvatichiti. Resistono infatti presso l’hacienda, tutt’ora, i quaranta esemplari titolari, tra cui la famosa Vanessa, che risponde quando viene chiamato il suo nome. Essi costituiscono una delle attrazioni maggiori del parco dal 2006, quando il terreno ha subito la sua trasformazione in luogo dedicato all’intrattenimento, con tanto di biglietto dal costo equivalente all’incirca ad una ventina di dollari americani. In quello che possiamo soltanto descrivere come una sorta di parco della memoria, dove arredi scenografici bizzarri, i dinosauri a dimensione naturale fatti costruire a suo tempo dal boss, o il primo aereo da turismo (oggi zebrato) che aveva impiegato per trasportare la droga negli Stati Uniti, montato sopra il cancello d’ingresso principale, incontrano cartelli fotografici che descrivono il quadro storico, o memoriali a parete degli ufficiali di polizia rimasti uccisi durante una caccia all’uomo durata un’intera generazione. Uno spazio a parte, nel frattempo, resta dedicato alle sue numerose auto sportive, andate semi-distrutte e in buona parte bruciate in un momento imprecisato ad opera dei molti nemici che aveva accumulato negli anni. Secondo l’analisi sfruttata dalla serie Tv Narcos, in effetti, a causare la fine di Escobar non furono tanto le indagini della polizia colombiana, assistita dalla DIA statunitense, quanto piuttosto un’alleanza tra le due famiglie criminali concorrenti del cartello di Cali e dei Los Pepes, con i quali condusse una spietata battaglia che costò la vita a molte figure delle tre parti. Nonché innumerevoli innocenti, presi nel fuoco incrociato di simili terrificanti organizzazioni criminali. Prima di portare lui stesso a condurre una vita da fuggitivo che in ultima analisi, avrebbe trovato la fine sui tetti della sua amata Medellín. Ed è forse proprio questa, in definitiva, la misura ultima del personaggio; un uomo che aveva potere e risorse finanziarie virtualmente illimitate. Ma che fino all’ultimo, scelse di restare nella sua città natìa. Dove il popolo, tanti anni prima, l’aveva protetto e osannato come un sorta di Robin Hood, in funzione delle numerose iniziative caritatevoli e la capacità di ascoltare ed interpretare gli altrui desideri. Gente che ancora oggi farebbe di tutto, nonostante tutto, per preservare in salute questi adorabili pachidermi di fiume.