La Rift Valley Lodge, la Rift Valley Academy, il Rift Valley Restaurant…Come i negozi di una strada commerciale in una grande città italiana, tra i recessi d’Africa si susseguono le realtà, commerciali e non, identificate dallo stesso nome riutilizzato in serie. Con una piccola, significativa differenza: esse si estendono lungo una frastagliata direttiva nord-sud della lunghezza di oltre 8.000 Km. Tanto che verrebbe da chiedersi: qual’è questa singola valley, che risulta in grado di superare i confini di nove paesi, partendo dal territorio del lago Malawi a meridione per poi biforcarsi ai due lati di quello Victoria, giungendo in Rwanda ad ovest e poi fino all’estremità Sud del Mar Rosso dall’altra parte, oltre l’Etiopia e l’Eritrea? A uno svelto ragionamento, apparirà evidente che può trattarsi soltanto di una spaccatura continentale. Ovvero il punto in cui, da 35 milioni di anni o giù di lì, due pezzi d’Africa si stanno separando per l’effetto della deriva dei continenti. Causando fenomeni geologici di entità particolarmente rara. Come zattere mineralogiche di dimensione planetaria, le principali terre più o meno emerse al di sotto dei nostri piedi sviluppano un continuo processo di riconfigurazione. Per via del quale, sconvolgimenti epocali causano il mutamento dei paesaggi. Come l’esistenza di un’avvallamento, che talvolta è un vasto canyon, qualche altra una mera fessura, e nei luoghi in cui il metaforico fazzoletto della crosta terrestre era andato esaurito e non poteva più coprire alcunché, l’emersione di quel qualcosa che si trovava al di sotto. Magma caldo, lucente, denso e infuocato, talvolta. Il quale al contatto con l’aria, si raffredda progressivamente formando i massicci montuosi: vedi ad esempio il Kilimangiaro, il Karisimbi, il Nyiragongo e il monte Kenya. Oppure, tra il lago Natron e la riserva di Nainokanoka in Tanzania, lo stranissimo vulcano di Ol Doinyo Lengai (Montagna del Dio Nero). Che ha un qualcosa che lo distingue dalla maggior parte dei suoi simili lungo il percorso, quella di risultare attualmente attivo… Nonché, in via del tutto incidentale, presentare un’aspetto decisamente alieno.
Chi dovesse vederlo in lontananza, da un aereo, oppure raffigurato in una qualsiasi cartolina di queste terre, noterà in effetti qualcosa di estremamente inaspettato: la colorazione della sua vetta ed il cratere che vi trova posto, assolutamente candida, come se vi fosse caduta la neve. Il che, a queste latitudini, sarebbe un qualcosa di strano; così che, gradualmente, emerge chiara la verità. È proprio la pietra, che ha quel colore. Diametralmente all’opposto della tonalità tendenzialmente scura di qualsiasi altro cono che abbia eruttato dall’inizio della storia umana. Proprio perché, nel sottosuolo di questo particolare tratto della Rift Valley, si trova una combinazione mineralogica tale da giungere a generare una classe di pietra fluida nota con il nome di natrocarbonatite. Che ha un aspetto, una densità e una temperatura radicalmente diversi da quelle della lava, per così dire, comune. Si dice che le basaltiti, nel momento in cui emergono liquefatte da un condotto di tipo geologico scavato attraverso le viscere del mondo, siano relativamente “fredde”: appena 1.000 gradi. Ma ciò che si presenta all’ingresso di questa fonte nell’Africa nera è, a dire il vero, un qualcosa di ancor meno estremo. Tanto che sarebbe possibile, in effetti, cuocervi sopra una pizza o panzerotto, giungendo essa ad una temperatura di appena la metà di tale cifra. A 500 gradi, la lava si presenta come una sorta di fango nero dall’alto contenuto di calcio e talvolta potassio. Laddove tale sostanza è generalmente composta di silicati ed ossigeno, che giungono alla liquefazione solamente in presenza di un’energia molto maggiore, e per questo giungono in superficie con il caratteristico colore rosso intenso. Il funzionamento dell’Ol Doinyo Lengai, dunque, risulta estremamente caratteristico: piuttosto che poche grandi eruzioni, ne sviluppa di numerose attraverso i suoi lunghi periodi di attività. Tra i casi registrati recentemente, possiamo ad esempio trovarne nel 1917, 1926, 1940, 1966-67 e 2007-2008. Momenti nei quali, generalmente, la lava carbonatitica viene lanciata verso l’alto a gran velocità, raffreddandosi con una velocità tale da ricadere a terra, talvolta, già solidificata. Quindi, con il progressivo diminuire della pressione, si formano una serie di grandi fiumi, dalle volute fantastiche ed intricate, che progressivamente schiariscono, rallentano e vengono incorporati nella montagna. Sarebbe una vista a cui non rinunciare almeno una volta nella vita, se lo spettacolo non risultasse così tremendamente, orribilmente pericoloso…
Il problema fondamentale di una lava più fredda, come dicevamo poco più sopra, è che essa risulta essere anche molto più fluida. Il che significa, essenzialmente, che può scorrere molto più veloce. Così mentre normalmente, il flusso distruttivo derivato da un’eruzione non può avanzare a più di 10 Km l’ora (salvo la presenza di canali particolarmente idonei) la natrocarbonatite può trasformarsi in un vero e proprio fiume, superando di molto la velocità di corsa di un individuo umano. Inoltre è naturalmente incline a quel fenomeno che porta al raffreddamento del solo strato di superficie, creando un guscio sottile che appare allo sguardo inesperto del tutto indistinguibile da pietra antichissima e solida, ma può spezzarsi in un attimo a causa del peso di una persona, causando una rovinosa caduta nella voragine sottostante. Un fato che può colpire anche una guida esperta, come nel drammatico caso del giovane guerriero Maasai di nome Pambau, che nel 2007 per un attimo di distrazione subì significative ustioni alle gambe ed una mano, riportando conseguenze fisiche gravi. E rendendolo, allo stato dei fatti, l’unica persona ad essere caduta nella lava, potendo poi raccontare la storia. La rarità del turismo vulcanico e la relativa difficoltà di raggiungere questi luoghi, fortunatamente, hanno tuttavia limitato gli incidenti. Benché sia possibile trovare online foto di persone che scavalcano agilmente un simile flusso di lava, come se fosse un ruscello di campagna. Un conto in effetti è risultare chiaramente coscienti del calore terribile di un qualcosa, esteticamente indistinguibile dall’Inferno in Terra. Un altro è sapere, soltanto in linea teorica, che mettere un piede in fallo può costarti la vita. Fin troppo facile è cedere alla tentazione fallace dell’evidenza…
L’esatta origine della lava a base carbonatitica, che nella nomenclatura scientifica diventa natro- per l’alta presenza di sodio, risulta ad oggi ancora non del tutto chiara. In diversi altri luoghi al mondo, in effetti, esistono simili depositi geologici, considerati molto importanti per l’industria elettronica a causa del contenuto di terre rare, il gruppo dei 17 elementi chimici impiegati per i più potenti magneti e le batterie. Ma la liquefazione e successiva emersione in forma lavica, a quanto ne sappiamo, può avere solamente due tipi di origine: diretta dal mantello terrestre, per effetto di un massiccio differenziale di pressione. Oppure, con un fenomeno analogo alla formazione kimberlitica dei diamanti, ovvero all’interno di pozzi verticali che raccolgono in maniera compatta alcuni gruppi di minerali spinti innanzi dalle profondità, causando mutazioni e reazioni chimiche di varia natura. È dunque possibile che proprio qui il normale magma silicatico giunga a cristallizzarsi, mescolandosi con elementi alcalini e diossido di carbonio. Successive eruzioni, quindi, porterebbero tale miscuglio fino alla superficie. Secondo l’ipotesi più accreditata, proprio questa sarebbe l’origine della strana lava dell’Ol Doinyo Lengai, visto che studi hanno confermato come le eruzioni carbonatitiche non abbiano avuto inizio che nell’ultima manciata di milioni di anni, mentre il vulcano eruttava precedentemente lava convenzionale a base di silicati. Ma non esistendo, attualmente, alcun caso comparabile nell’intero campo della geologia, ogni conclusione maggiormente specifica resta di natura assolutamente opinabile e niente affatto definitiva.
La lava discesa a valle, quindi, si solidifica, mentre la cenere ricade e costituisce un concime naturale di grande efficacia. Tanto che la valle antistante, in effetti, risulta ricoperta da un manto erboso decisamente superiore alla media di un simile contesto climatico tropicale.
Il ritrovamento di alcune centinaia d’impronte conservate dalla colata magmatica, nel corso di un’importante scoperta archeologica del 2016, hanno dimostrato come questo luogo fosse già abitato da una pluralità di esseri umani tra i 19.000 ed i 5.000 anni fa. Molto prima dei grandi imperi europei, quando qui vivevano, secondo quello che è stato tramandato per via largamente orale, le genti di origini nilotiche che in seguito avrebbero dato i natali al popolo dei Maasai. E proprio dove al giorno d’oggi, con naturale ed istintiva saggezza, accorrono per riprodursi i branchi di gazzelle di Grant, gli impala e le zebre in fuga dal mutamento climatico incombente. In forza di un dio-montagna che può togliere la vita ma molto più spesso, preferisce donarla. A patto di guardare sempre dove si mettono i piedi. Evitando, se possibile, di mettere un piede in fallo, con irrimediabili conseguenze future.
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