Lanciando il grido acuto che costituisce il suo verso, uno dei falchi più grandi della terra voltò l’affusolato becco verso l’ora del tramonto. Mentre alla sua destra, totalmente impassibile, l’altro uccello faceva lo stesso. Per 3.704 Km (2302 miglia, 2.000 miglia nautiche) erano volati in formazione serrata, le ali interne quasi a sovrapporsi, quelle esterne tese verso l’infinito. Ed ora che avevano raggiunto il punto prefissato, una volta completata la virata e puntando dritti verso l’orizzonte, aprirono i rispettivi artigli, e rilasciarono il cilindro di metallo sopra il grande mare. Un oggetto aerodinamico. Ed affusolato, al tempo stesso, con un alettone nella parte superiore. Cinque razzi nel suo retro, pronti a fare il fuoco delle circostanze. Senza neanche l’accenno di un conto alla rovescia, quindi, il velivolo fece partire i suoi motori. E con un solido boato, sfondò in rapida sequenza, la barriera del suono, la stratosfera ed i confini più remoti del pianeta Terra. Visibilmente soddisfatto, l’altro falco gridò una risposta al suo compagno. “Quando crescono…” Sembrò sottintendere grazie alla mimica del becco: “…Che gioia!”
Lo strano rituale, a voler essere sinceri, non è opera di bestie mai classificate da Linneo. Perché è frutto del pensiero della scienza e della tecnica moderne, nonché risultanza del volere di due miliardari assai particolari: Paul G. Allen, a suo tempo co-fondatore della Microsoft assieme a Bill Gates, e Burt Rutan, progettista aeronautico, per lungo tempo mente fervida al comando della Scaled Composites, una delle compagnie in grado di produrre gli aerei più strani di questa Terra. Il che spiega pienamente perché mai gli uccelli non presentino una sola piuma. Bensì sei motori Pratt & Whitney PW4000 da 205–296 kN, cannibalizzati allegramente da una coppia di Boeing 747 ormai prossimi al pensionamento. E due code trasversali cruciformi, totalmente indipendenti, talmente alte da richiedere la costruzione di strutture estremamente particolari presso una base aerea in Mojave, soltanto per pensare di costruirlo ed immagazzinarlo. Del resto, non l’avevamo ancora detto: l’apertura alare della “cosa” è di 117 metri; praticamente, si potrebbe parcheggiare al centro esatto di un campo da calcio ed a quel punto, le ali spunterebbero fuori ai lati. In effetti questo aereo, se vogliamo definirlo tale, è il più largo mai visto. E non è molto, che l’abbiamo visto: esattamente il 31 maggio, in effetti, la compagnia a lui omonima della Stratolaunch Systems l’ha presentato alla stampa, con grande risonanza mediatica internazionale. Ma il mostro, allo stato dei fatti attuali, non ha ancora preso il volo, evento previsto entro la fine del 2016. È inutile dirlo: siamo tutti in trepidante attesa.
Ecco dunque, la domanda: perché mai mettere assieme un aereo che in effetti sono due, uniti alla stregua una coppia di gemelli siamesi o per usare un’analogia più calzante, proprio come gli scafi di un catamarano? Struttura acquatica che, in effetti, ha il chiaro vantaggio di rendere più stabile un natante. Ma in cielo non aveva più avuto trovato utilizzi significativi dall’epoca della seconda guerra mondiale, con l’uscita di produzione del caccia pesante P-38 Lightning statunitense. La risposta, neanche a dirlo, si trova al centro esatto della questione, sotto l’ala condivisa (ehm…Il punto in cui si uniscono…Le ali?) che ospita un sofisticato sistema di aggancio fornito dalla Dynetics, al quale sarà possibile agganciare tutta una serie di velivoli incapaci di decollare in solitaria. Tutti appartenenti, come potrete facilmente immaginare, alla classe di apparati ottimizzati per un diverso e assai particolare tipo di volo: quello al di fuori dei confini terrestri. Proprio così, e proprio come avete “visto” in apertura: lo Stratolaunch serve a trasportare navi spaziali. Non è il primo, né l’ultimo, degli aerei pensati per questa specifica finalità. Il primo era stato concepito verso la metà degli anni ’70 e proposto alla NASA, con il nome di Conroy Virtus. Sarebbe stato il prodotto di due fusoliere di Boeing B-52 Stratofortress unite nella parte centrale, con una gondola in grado di contenere niente meno che il già imponente Space Shuttle. Ma il velivolo, che avrebbe avuto un’apertura alare di addirittura 140 metri, fu giudicato poco pratico e non venne mai effettivamente costruito. Per trovare un altro esempio degno di nota, quindi, occorre spingersi fino al ben più recente 2015, quando il team ingegneristico ai comandi di Burt Rutan, che allora lavorava ancora per la sua storica Scaled Composites, diede i natali al cosiddetto White Knight (Cavaliere Bianco). Un velivolo che potreste forse conoscere con il soprannome di “aereo spaziale della Virgin”.
Il funzionamento del primo White Knight, che venne usato in effetti solamente per dei test di planata di una navetta progettata appositamente per vincere un finanziamento premio di 10 milioni di dollari stanziato dalla fondazione Ansari, fu quindi la base per la costruzione di una più efficace seconda versione, con apertura alare aumentata da “appena” 25 metri a 43, esattamente quella di un B-29, la leggendaria fortezza volante dell’era dell’ultima guerra mondiale. Iniziata quindi la lunga serie di test per quest’ultima proposta, a partire dal 2008, ad essa venne abbinata una nuova versione dell’astronave della Scaled Composites, la SpaceShipTwo, su finanziamento e secondo le specifiche richieste da Virgin Galactic, sussidiaria della multinazionale di proprietà di un altro rinomato miliardario, Sir Richard Branson. Il quale aveva scelto di chiamare il primo aereo della serie VMS Eve, dal nome di sua madre, destinato purtroppo a schiantarsi nel 2007, costando al vita al suo vecchio amico e pilota collaudatore Steve Fosset. Una significativa differenza tra la prima e la seconda versione: l’impiego della doppia coda cruciforme, piuttosto che a forma di T, un sostanziale avvicinamento a quello che sarebbe in seguito diventato lo Stratolaunch. Non più utilizzata, invece, sarebbe stata la soluzione del vecchio e succitato P-38 (anche detto “frigorifero volante”) di uno stabilizzatore posteriore che unisce il retro delle due fusoliere, senza alcun tipo di impennatura laterale al fine di ridurre l’attrito con l’aria. È possibile che questa soluzione non fosse scalabile alle dimensioni maggiorate dei progetti odierni, o che fosse più semplice impiegare strutture industriali già presenti.
La struttura esterna dello Stratolaunch, ad ogni modo, è prodotta interamente ad-hoc dalla sua compagnia, contrariamente all’idea originaria che prevedeva di sfruttare, oltre ai motori, anche le fusoliere dei 747 dismessi. Nei primi rendering del velivolo, quindi, è possibile osservare una cabina di pilotaggio posizionata a destra, con il secondo corpo in parallelo del tutto privo di finestrini, riservato ad ospitare l’avionica di bordo. Nella versione finale dell’aereo, invece, entrambe appaiono dotate di un vero e proprio cockpit, anche se la prima impressione del pubblico internettiano, ovvero che dovesse trattarsi di una seconda cabina usata come ridondanza di sicurezza, sono state ben presto smentite: il contenuto resta in effetti identico e la presenza della calotta trasparente ha il solo scopo di uniformare al massimo i due elementi paralleli. Un importante aspetto del gigante dei cieli (il cui peso ammonta, per inciso, ad esattamente 589,670 kg) è che esso, diversamente dai predecessori, non dispone ancora di un carico ideale. Non c’è una singola nave spaziale che sia stata effettivamente concepita per sfruttare a pieno la sua capacità di carico di 230,000 kg, tanto che tutte le simulazioni sono state effettuate con il razzo Pegasus della Orbital ATK, un dispositivo di lancio orbitale che può, in effetti, spiegare le sue metaforiche ali a partire da un comune aereo di linea adattato allo scopo, come un Lockheed L-1011 TriStar. Una delle teorie più sfrenate in merito all’idea ipotizza dunque il trasporto di razzi Pegasus multipli, che dovrebbero essere rilasciati in sequenza durante un singolo volo, riducendo notevolmente i costi operativi. E in una simile visione, indubbiamente, deve esserci lo zampino di Burt Rutan stesso, già l’inventore di numerose altre follie ingegneristiche dei cieli…
Un nuovo secolo, ed un nuovo millennio, sono dunque iniziati. Ma l’umanità ancora fatica a staccarsi dalla gravità del suo pianeta madre. Come un giovane uccello nel nido, faticosamente chiama e sbatte le ali, nella speranza che le cose possano, ben presto, cambiare. Ma senza più la necessaria sicurezza economica di fondo, e soprattutto in assenza della pendenza di una competizione tra superpotenze, l’esplorazione galattica sembra aver trovato un significativo blocco, più invalicabile di un fiume di coccodrilli. Se non che, nel corso dell’ultimo decennio, sembra essere nata questa nuova corrente, che appoggia il peso di una simile mansione non più sui governi, bensì l’ambizione, e le risorse, di un’intera generazione di capitalisti del mondo della tecnologia. Difficile capire se ciò presenti effettivi margini di miglioramento. Bezos, Allen, Musk… Chi fra loro sarà il primo a visitare la Luna? Chi Marte? Quale loro erede in termini di prestigio e potere, tra una decina di secoli o due, troverà il modo di raggiungere addirittura le stelle distanti, ovvero il richiamo fisso dei nostri cieli… Forse nessuno. Forse, invece…No?