Era il 1954 quando la 38° gara delle 500 miglia di Indianapolis, tenuta nel più antico e celebre dei circuiti cosiddetti “ovali” statunitensi, fu trasmesso interamente in radio per la seconda volta nella storia. Si trattò di un evento privo di particolari sorprese, nel quale i primi 110 giri sarebbero trascorsi senza alcun tipo d’incidente (un’evenienza piuttosto rara) e il titolo sarebbe stato portato a casa dal pilota di origini serbe Bill Vukovich, per la seconda volta di seguito nella sua brillante carriera. Ad ascoltare senz’altro l’evolversi della situazione, c’erano gli impiegati della vicina fabbrica Marmon-Herrington, che si era precedentemente occupata, durante la guerra, di produrre il carro armato su commissione britannica M22 Locust, e che oggi costruiva soprattutto componenti per autocarri e trattori di vario tipo. Soprattutto, ma non solo. Poiché erano trascorsi ormai esattamente 5 anni, da quanto l’inventore Elie Aghnides aveva fatto il suo ingresso tra quelle mura, portandosi dietro quella che avrebbe costituito al tempo stesso un’opportunità senza precedenti, una sfida ingegneristica e in ultima analisi, purtroppo, una colossale perdita di tempo. Stiamo parlando del progetto per un veicolo che avrebbe potuto cambiare le carte in regola di qualsiasi futuro conflitto armato. Se soltanto l’Esercito Americano avesse accettato di vedere un po’ più in là del suo naso e investire, per una volta, in qualche cosa di totalmente inaudito. Era una giornata di sole, dunque, quando l’addetto alla cinepresa diede il segnale che era pronto a riprendere lo storico momento, mentre la cupola sopra l’insolito apparato, appena completato il turno all’interno del capannone principale, veniva aperta dal suo ideatore in persona, che con il sorriso più ampio che si potesse immaginare saliva a bordo e impugnava la cloche. del tutto simile a quella di un aereo. Un’improvvisa vibrazione, quindi, percorse la bizzarra astronave, mentre gli addetti si affrettavano a farsi da parte, e con un tonfo sordo, il veicolo scavalcava l’apposito fermo collocato sul suolo dell’ampia e luminosa struttura. Con assoluta linearità e senza scossoni, dunque, le 5 tonnellate di alluminio, acciaio e gomma fecero il loro ingresso nella storia, puntando dritto verso la riva più vicina del fiume White.
Il che non avrebbe costituito necessariamente un problema, perché il Rhino, oppure Polywog (girino) per usare il nome non definitivo, era un mezzo perfettamente anfibio. Basta un singolo sguardo per rendersene conto: la forma allungata simile allo scafo di un’imbarcazione, nessuna apertura nella parte inferiore, le quattro ruote di cui due colossali davanti e due molto più piccole dietro, dalla forma di altrettanti emisferi, che facevano sospettare un’interno cavo. Ed in effetti, era proprio così. Concepito nell’idea del suo committente come una risorsa militare perfetta per difendere i più inaccessibili recessi dell’Alaska e del Canada, questo bizzarro fuoristrada non si sarebbe fermato dinnanzi a nulla. Meno che mai, un corso o uno specchio d’acqua. Circostanza dinnanzi alla quale, senza esitazione alcuna, il pilota avrebbe puntato dritto al di là dell riva, dove avrebbe avviato il propulsore orientabile a getto nella parte posteriore, per procedere alla velocità non esattamente vertiginosa di 6,5 Km orari. Ma fuori dall’acqua le cose cambiavano notevolmente, visto che il Rhino non era nulla, se non adattabile alle circostanze: fino a 72 Km orari su strada (limitati per via delle leggi stradali a 40) grazie alla strisce gommate applicate sugli emisferi, e un valore intermedio tra l’uno e l’altro estremo su suolo sterrato, sabbia e fango, che si diceva amasse, per l’appunto “come un rinoceronte”. Dotato di quattro ruote sterzanti e a seconda dell’attivazione di un apposito comando, anche motrici, il veicolo poteva inoltre ruotare agilmente su se stesso, mentre il suo baricentro estremamente basso avrebbe reso essenzialmente impossibile un cappottamento. Ciò che lo rendeva assolutamente unico, ad ogni modo, era proprio questa forma a emisfero delle sue grandi ruote, le quali nel caso di attraversamento di un terreno particolarmente morbido, tale da far sprofondare il veicolo, avrebbero progressivamente aumentato la superficie di contatto e conseguentemente la capacità di trazione. Praticamente nulla, dunque, avrebbe potuto fermare questo carro dei sogni dal raggiungimento del suo obiettivo. Ma da dove, esattamente, era venuto?
Elie P. Aghnides, all’epoca quarantanovenne, era il discendente di una famiglia greca emigrata negli Stati Uniti che viene descritto dalla rivista Popular Science del 1954 come “Vagamente rassomigliante alla star dell’opera Ezio Pinza” detentore di numerosi brevetti, frutto della sua fervida immaginazione e capacità ingegneristica. All’epoca del suo exploit veicolare era già diventato in effetti favolosamente ricco, grazie all’invenzione di un qualcosa che oggi troviamo in tutte le case: l’aeratore da rubinetto. Quel componente, che oggi diamo per scontato, in grado di creare un getto più compatto e uniforme, ma che all’epoca veniva pubblicizzato come una sorta di miracolosa panacea, in grado di rendere l’acqua più buona, eliminare i germi, e pulire al meglio qualsiasi cosa venisse posta al di sotto del suo getto. Altre creazioni di minor successo includono un’innovativa trappola per topi e dei particolari posacenere di forma sferoidale. La costruzione del Rhino, ad ogni modo, costituì per lui un investimento di risorse già precedentemente acquisite e quindi, in un certo senso, la realizzazione di un sogno custodito da tempo. Sembra a tal proposito che l’idea gli fosse venuta nella sua natìa New York, osservando un bulldozer che faticava a risalire un pendio scosceso, ed elaborando quindi quel favoloso pensiero, scrigno d’innumerevoli meraviglie, che recita “…Deve pur esserci un miglior modo!”
La sua trovata era effettivamente già comparsa in un precedente numero della succitata e celebre rivista tecnica statunitense all’interno di un trafiletto illustrato e particolarmente affascinante, in cui si parlava del “nuovo veicolo da combattimento anfibio” come di un qualcosa di praticamente pronto ad entrare in produzione. Perché era il 1943 e tutto, ovviamente, doveva trovare un impiego bellico. Così una versione molto preliminare del Rhino, interpretato dall’illustratore come una sorta di fantastica creazione degna di Giulio Verne, viene mostrata mentre risale facilmente il pendio di una spiaggia, presumibilmente europea (ahem, normanna?) e cannoneggia con estremo trasporto le fortificazioni nemiche. “Potendo ruotare sul posto, la nuova arma potrà fare a meno della torretta” afferma orgogliosamente la tabella a lato del testo, che vanta inoltre gli altri vantaggi da noi precedentemente descritti dell’insolito apparato. Il che fa pensare, per lo meno in questa prima concezione del mezzo, all’inclusione di un motore ben più potente del quattro tempi da soli 110 cavalli che sarebbe stato utilizzato 11 anni dopo, in quel fatidico momento del varo dalla fabbrica di Indianapolis. Dopo tutto, diversi carri armati tedeschi potevano sfruttare i cingoli per ruotare su loro stessi, ma non per questo fu mai ritenuto opportuno privarli di un cannone direzionabile, importante risorsa nella guerra di posizione.
La Marmon-Herrington, dunque, costruì due esemplari del nuovo mezzo tutt’altro che corazzato, di cui uno più grande ed un altro definito “baby” di cui oggi non sembra facile trovare alcun tipo di testimonianza. Secondo alcuni resoconti, alla chiusura della fabbrica quest’ultimo sarebbe stato acquistato da un collezionista privato di Lebanon, Pennsylvania, che avrebbe scelto di custodirlo gelosamente nel suo garage. Diverso il fato del prototipo vero e proprio, che oggi costituisce un’ospite pressoché fisso dell’annuale show dei trattori d’epoca di Zionville, Indiana, grazie soltanto al lavoro di restauro e la passione dell’imprenditore Eugene Pock. Questo perché ovviamente, la rivoluzionaria macchina da guerra non fu mai prodotta in serie (altrimenti l’avremmo saputo…) A causa di un obiezione in effetti piuttosto condivisibile elaborata da parte dell’ufficio acquisto dell’esercito: “Che cosa succede, se il nemico spara alle ruote?” Qualsiasi carro armato, se resta fermo sul campo di battaglia, diventa del tutto inutile e deve ben presto essere abbandonato. Ma cosa ancor peggiore, riportando dei danni per il fuoco nemico degli emisferi durante l’attraversamento di un corso d’acqua, non era del tutto impensabile che il mezzo finisse per colare immediatamente a picco. Una situazione imbarazzante, a dir poco.
Difficile capire se la problematica fosse in effetti del tutto impossibile da superare. Come in altri innumerevoli casi nella storia dell’ingegneria, il rifiuto del Rhino ha costituito un bivio: se le menti al vertice fossero state soltanto lievemente più aperte verso l’insolito, se il costo di costruzione non avesse raggiunto la cifra giudicata eccessiva, se il prototipo fosse stato realizzato un po’ meglio…Se, se… Forse oggi, la soluzione del buon vecchio P. Aghnides costituirebbe una visione comune a supporto dei principali campi di battaglia di tutto il mondo e chissà magari, una vista occasionale anche tra i fuoristrada ad uso civile, come è effettivamente avvenuto per la colossale Humvee “SuperSuv” Hummer. Oppure, in alternativa, sarebbe bastato che costui fosse nato in Russia. Sarà uno stereotipo, ma ho la netta sensazione che i russi non se la sarebbero fatta scappare…