Sapete qual’è stato il problema fondamentale del colonialismo? Che non ha importanza quanto una potenza occidentale pensasse di stare “aiutando” un popolo tecnologicamente disagiato, o di fornire assistenza nella stabilizzazione di un potenziale conflitto politico all’orizzonte; ogni singolo gesto, ciascuna infrastruttura edificata costituiva essenzialmente un’imposizione, mirata alla manifestazione di un’immagine ideale che non faceva mai parte, e come avrebbe potuto… dell’ordine naturale della Storia. Così a guardarla, la splendente capitale dell’Indocina francese all’inizio del secolo scorso, vi sarebbe sembrata l’immagine della salute: la zona vecchia delle 36 strade risalente all’epoca della dinastia Nguyễn, con i suoi templi e mercati, i grandi palazzi bianchi del quartiere europeo, la scuola di medicina, un sistema di strade ampie e dall’altro grado di razionalità. Ma al di sotto di questa patina d’equilibrio, oltre i petali del grande fiore, dietro lo stelo, e in mezzo alla terra, già germogliavano i semi del più terribile disordine che la mente europea potesse anche soltanto provare ad immaginare. Nessuno dimenticherà l’orrore, alla presa di coscienza della verità… Che per i circa 150.000 abitanti visibili, accorsi dalle campagne per beneficiare dell’opulenza e i servizi edificati dagli stranieri, ce n’erano all’incirca sei volte tanti, appartenenti alla vecchia guardia, ovvero operanti al di fuori dell’ordine costituito. Esseri striscianti oppure volanti, brulicanti, creature dell’ombra e dell’umidità tropicale, che qui abitavano molto prima degli umani. E che milioni di anni dopo la loro inevitabile scomparsa, saranno di nuovo i signori dell’intero Sistema Solare.
Costituisce una pesante verità di ogni epoca, il fatto che al di sotto di determinate latitudini, la convivenza in grandi comunità di tipo urbano tende a diventare più complessa. Questo perché all’equatore sussistono determinate condizioni climatiche ed ambientali, per cui insetti, rettili velenosi, germi e portatori di germi prosperano più che mai, moltiplicandosi molto più di quanto sia possibile farlo per noi presunti padroni del fuoco e degli elementi, i quali a ben poco servono, quando contrai il colera, il tifo o la peste bubbonica, finendo a patire tra le lenzuola mentre già esse iniziano a trasformarsi in sudario. Ecco esattamente cosa aveva in mente il radicale Paul Dormer, funzionario politico e futuro primo ed unico presidente della Francia ad essere assassinato con un colpo d’arma da fuoco (caspita, quale onore!) quando era giunto in questo luogo ameno nel 1897, in qualità di Governatore Generale dell’Indocina, con un preciso progetto di miglioramento: rendere Hanoi, un po’ come Parigi. Non nel senso della cultura e delle dinamiche sociali, proposito in cui chiunque avrebbe fallito, ma per quanto concerneva l’ordine costituito: sotto il suo rigido ma giusto governo, sarebbero stati completati il ponte di Long Bien, la ferrovia, imposte tariffe sull’importazione dell’oppio e sarebbero stati incrementati i commerci con l’Europa. E poi, si sarebbe portato a coronamento il progetto per le moderne fogne cittadine, un vero punto d’orgoglio in quell’epoca, soprattutto nei remoti territori dell’Asia meridionale. Una cosa… Buona, giusto?
Più o meno. Il problema, semmai, era una questione di disparità civile laddove in effetti, sarebbe stato meglio ricercare l’equanimità. Perché nelle zone abitate dall’elite europea, patria operativa di funzionari, commercianti e ricchi industriali, il sistema dell’acqua corrente e dello smaltimento funzionava in entrambi i sensi e secondo i migliori crismi della tecnica disponibili allora. Mentre per quanto concerneva tutto il resto del centro abitato, era stato giudicato sufficiente un semplice sistema di drenaggio che scaricava nel Petit Lac, il lago sacro legata alla leggenda di un antico guerriero (vedi la fine di questo precedente articolo per la storia della sua tartaruga). Il che significava che nei periodi di molta pioggia, il reflusso fuori dai tombini era qualcosa di assolutamente indescrivibile, che riportava tutto quanto era stato inviato a perdersi sotto gli occhi degli abitanti, assieme a qualcosa di nuovo ed ancor peggiore: migliaia di esseri pelosi e squittenti, che correndo per le strade, andavano a nascondersi nelle intercapedini dell’inconsapevole società. Ora, la popolazione degli occidentali era naturalmente propensa ad ignorare questa spiacevole situazione, considerandola un male endemico di questo luogo essenzialmente incivile, associandola alle condizioni “poco salubri” dello stile di vita vietnamita. Se non che proprio i meravigliosi chilometri di fogne, fresche ed umide, giunsero a costituire un’autostrada da sogno per i roditori, dando luogo alla loro comparsa sempre più frequente nella splendente ville européenne, e persino qualche primo timido caso di peste bubbonica, possibile anticipo di un disastro privo di precedenti. Fu così che il governatore Dormer, dopo attenta pianificazione, assunse una quantità imprecisata di sterminatori tra la popolazione locale. Era il 1902, quando ebbe inizio la grande battaglia dei ratti di Hanoi.
Furono giorni epici e selvaggi, frutto di un senso d’esaltazione collettivo. Le cronache del tempo, che studiate dai posteri hanno costituito la nostra via d’accesso alla conoscenza di questo anomalo incidente, parlano di quasi 8.000 ratti uccisi nella prima settimana, con una stabilizzazione successiva di 4.000 esemplari giornalieri nel mese di maggio. Entro giugno-luglio, l’amministrazione francese riporta una media di 10.000, con punte di oltre 20.000. Gli operatori di sterminio, armati di picche, bastoni e torce, si avventuravano senza paura nelle viscere della città di Hanoi, oltre pertugi oscuri e nel mezzo di cose innominabili, tra bestie pericolose di vario tipo. E in mezzo a serpenti ed insetti, per non parlare dei germi portati dalle loro stesse vittime designate, giungevano infine a trovare i nidi dei ratti, che radevano al suolo senza nessuna pietà. Le loro squadre erano ovunque, inclusi i quartieri privilegiati, letteralmente coperte da capo a piedi di scorie e di sangue, causando non pochi disagi a coloro che stavano pagando i loro stessi servigi. Verso la fine dell’anno, tuttavia, alcune problematiche iniziarono a dimostrarsi palesi: non soltanto la popolazione complessiva dei topi non sembrava diminuire in maniera sensibile, ma le maestranze erano insoddisfatte della paga di un solo centesimo per vittima consegnata, minacciando si scioperare. È molto simbolico in effetti, e per certi versi ironico, che proprio questa incombenza particolarmente sgradevole sia stata alla base della prima concezione di un concetto dei diritti dei lavoratori, tale da portare l’aumento della paga, dopo un periodo di trattative con il ministero della salute, a quattro centesimi a ratto. Ma persino la loro rinnovata enfasi procedurale, allo stato dei fatti, non si stava rivelando abbastanza. Così le autorità, guidate dal governatore Dormer, ebbero l’idea geniale: elargire alla stessa popolazione civile (soltanto il singolo cent, ovviamente) un prezzo unitario per roditori fatti transitare all’altro mondo, mediante l’impiego di un sistema di taglia e ricompensa. Ma fu fatto un fondamentale, tragico errore: invece di acquistare tutto il topo morto, forse per una mera semplicità organizzativa, gli uffici preposti erano stati incaricati di pretendere unicamente la consegna della sua coda. Così in breve tempo, la città di Hanoi iniziò ad essere popolata da topi a cui era stata tagliata la coda, ma non tolta la vita. “Perché mai uccidere” pensava il cacciatore medio “…Una creatura che può produrre altri topi, e quindi altre code da scambiare con preziosa moneta sonante…”
Lo studio di una tale dinamica, oggi chiamata in lingua inglese il cobra effect (per un episodio simile verificatosi presso la città di Delhi, ma riguardante l’eliminazione dei serpenti velenosi) costituisce un importante parabola ancora oggi tenuta in considerazione nel campo degli studi economici e della sociologia. Poiché stabilire una metrica fallace nell’indagine di una procedura può non soltanto inficiarne l’efficienza ma addirittura, causare l’effetto inverso. Così non soltanto gli abitanti di Hanoi in quel volgere del secolo non uccidevano i ratti, ma giunsero a costituire dei veri e propri allevamenti nella periferia cittadina, mirati unicamente alla raccolta sistematica del più alto numero possibile di code. Ovvero soldi gratis, come preferivano vederle per l’effetto della più diretta e semplice necessità. Ogni qual volta poi la polizia francese effettuava dei raid presso una di queste perverse istituzioni, tutte quelle circostanti liberavano immediatamente le creature custodite in maniera illecita, lasciando che i le loro baffute presenze andassero ad aggiungersi alla già ingente popolazione dei ratti cittadini. In breve tempo, grazie alla leggendaria capacità di proliferazione di questi animali, il ratto vietnamita era praticamente ovunque, spuntando dai bagni e dalle dispense, intrufolandosi negli armadi, giungendo nei letti ad accarezzare i bambini con le vibrisse ed il folto pelo. E quindi inevitabilmente, come da programma, la peste arrivò.
Si trattò di una “petite épidémie” come è passata alla storia, in grado di mietere appena 263 vittime, tra i quartieri di rue des Changeurs and rue du Coton, tra il 1906 ed il 1908, che tuttavia ebbe ramificazioni importanti anche nelle zone limitrofe, per l’importanza strategica nei commerci della città di Hanoi. Ma a quel punto Paul Dormer era già ritornato in patria da oltre 5 anni, e la nuova amministrazione francese aveva ormai scelto di convivere coi topi, senza più istituire alcun frenetico ordine di sterminio. Ancora una volta nella storia dell’umanità, il ratto nero aveva vinto. E nessuno dei successivi governi, né i gravi conflitti che avrebbero sconvolto nel secolo successivo l’intera nazione, avrebbero cambiato questa suprema verità. Basti pensare come ancora negli anni ’90, solo ed unicamente ad Hanoi fosse rigorosamente vietata la consumazione di carne di gatto, considerata in questa zona geografica una vera e propria prelibatezza. Eppure, neanche le cosiddette “piccole tigri” si sarebbero dimostrate abbastanza ad arginare definitivamente il problema, se è vero, come narrato dallo storico Michael G. Vann, che i più assidui frequentatori degli archivi vietnamiti consultati nella raccolta dei dati alla base di questo articolo, hanno tutt’ora quattro zampe, grandi orecchie e un’immancabile lunga coda. Quest’ultimo punto, diversamente dai loro più insigni antenati.