È un’antica prassi, ampiamente nota nella sua Cisgiordania d’origine e in effetti, mai realmente imitata da chicchessia. Con estrema attenzione, l’uomo raccoglie la sostanza densa di un intenso color crema dal serbatoio mediante l’impiego di un secchio, quindi la versa dentro un apposito recipiente, mantenuto in posizione su una piattaforma rialzata vicino alle spalle del suo collega. Questi quindi lo solleva, con estrema cautela, ed inizia a dirigersi nell’area preposta alla lavorazione, facendo attenzione a non versare neppure una singola goccia dell’impasto. Ciò perché all’interno di esso, grazie a un processo chimico noto fin dall’epoca della città di Babilonia, già una miscela di sodio alcalino affine alla liscivia, frutto delle ceneri della pianta qilw (barilla) mischiate col limo, sta sperimentando a contatto con l’acqua e l’olio d’oliva la reazione chimica che la trasformerà in pericolosa soda caustica. Fino al raffreddamento progressivo e l’indurimento sul pavimento di un’enorme officina, dove avrà luogo la seconda parte del processo di creazione.
I conflitti portati avanti per ragioni culturali o politiche, nel susseguirsi delle vicende storiche di un popolo, pesano come macigni che deviano lo scorrere del fiume del progresso. Specialmente quando un’intera regione geografica, data la sua sfortunata collocazione all’interno di un sistema internazionale instabile, attraverso le generazioni si ritrova incapace di ricevere le facilitazioni tecnologiche dei moderni processi industriali. Ed è proprio per questo che senza ulteriori opzioni, gli abitanti si ritrovano imperterriti nel praticare le arti e i mestieri dei loro genitori. Senza macchine, apparati automatici ed invero, neppure la capacità di comprendere ed usare tali cose, se pure all’improvviso esse dovessero arrivargli come parte di un improbabile rifornimento umanitario. Ma nessuno consiglierebbe mai davvero di evolversi alle vecchie fabbriche di sapone in Cisgiordania, semplicemente perché allora, dal mercato svanirebbe l’unico ed il solo sapone di Nablus. Che fin dai tempi della regina Elisabetta I d’Inghilterra, veniva esportato fino alle corti d’Europa, come prezioso status symbol e sostanza dalle qualità notoriamente ineguagliate nel suo settore. Ma non per la presenza di particolari ingredienti, essenze o un raro tipo di profumo: questo prodotto, in effetti, ha un odore per lo più neutro, se si eccettua un lontanissimo sentore d’olio d’oliva. Esso trova, piuttosto, la sua forza nella semplice e inadulterata qualità della composizione, frutto di un processo collaudato, che è al tempo stesso semplice, nonché eseguito con un’assoluta consapevolezza del modo migliore per portare a compimento ciascun singolo passaggio necessario. Proprio per questo il sapone della Palestina, così come quello siriano della città di Aleppo, ha costituito per secoli un’importante risorsa dei commerci coi popoli beduini, che fornivano la qilw ed in cambio ricevevano una parte del prodotto finito, scambiato a caro prezzo nei mercati dell’intero Medio Oriente. E vi sorprenderà sapere che in effetti persino oggi, la quantità relativamente ridotta che viene inviata a partire da questi stabilimenti costituisce un’importante segmento di mercato, particolarmente importante per tutti coloro che non vogliono avere nulla a che vedere con prodotti derivanti dalla lavorazione dei grassi animali. Un appellativo alternativo del prodotto, che guarda avanti e ne adatta il concetto alle sensibilità odierne, lo vede connotato dall’aggettivo di [sapone] vegano. Ma ciò costituisce una mera conseguenza della precedente disponibilità dell’uno, piuttosto che l’altro ingrediente, e non la risultanza di una precisa scelta programmatica effettuata in partenza.
Sicura resta, ad ogni modo, la reazione suscitata dal popolo di Internet dinnanzi a simili sequenze registrate in loco: stupore, disagio, persino un vago senso di rabbia. Perché “Non c’è proprio nulla di speciale…” questo è il consenso di almeno un paio di community distinte: “…Nel complicarsi la vita. Basterebbe l’impiego di alcuni semplici accorgimenti per risparmiare una quantità spropositata di fatica.” Perché non usare, ad esempio, un coltello dal manico più lungo per tagliare le saponette, evitando di dover lavorare piegati a 90 gradi? Già, perché?
Fin dal primissimo momento attraverso la piccola finestra che ci viene offerta all’interno di questa industria estremamente caratteristica, appare evidente che i suoi lavoranti vengono chiamati a ripetere una serie di passaggi particolarmente usuranti per un fisico, per così dire, normale. Una volta riscaldato l’impasto per 5 ore, mentre lo si mescola usando l’attrezzo simile a un remo del dukshab, e quindi trasportato a braccia verso la destinazione, quest’ultimo viene versato sul pavimento che dovrà costituire, in forza della più assoluta necessità, anche il banco di lavoro per il resto delle operazioni. Ci vogliono altre 4-5 ore perché l’impasto finalmente si raffreddi e solidifichi, diventando abbastanza resistente da costituire, essenzialmente, un pavimento sul quale è possibile camminare. Cosa che dovrà essere fatta, immancabilmente, da due figure professionali: quella del tagliatore e gli addetti al martello di timbratura. Tirando un filo si traccia una griglia sul sapone indurito, che lo suddivide essenzialmente negli spazi riservati a ciascuna singola futura saponetta. Arriva quindi quest’uomo, un vero samurai dalla lama scintillante, che premendo con forza il suo attrezzo fino all’unico e vero pavimento, gradualmente suddivide e seziona la preziosissima materia prima. Segue una quantità variabile d’individui particolarmente precisi, che colpendo con forza imprimono il timbro della compagnia. Tale passaggio perché la competizione, si sa, è l’anima del commercio, ed esiste in effetti ben più di una singola fabbrica nell’intera regione di Nablus. Qualcuno potrebbe chiedersi, a questo punto, perché l’operatore separasse le saponette facendo partire ciascun taglio dalla stessa identica estremità della stanza, camminando ogni volta in maniera apparentemente inutile per tornare al punto di partenza. Ciò ha in realtà almeno un paio di ragioni: poter contare sulla precisione che viene dalla ripetizione meccanica di un singolo gesto, e sollevare periodicamente la schiena, come una sorta di esercizio di streching mirato ad incrementare la sua resistenza.
Una volta suddivisi i singoli parallelepipedi di sapone, questi vengono disposti nel più particolare dei modi: l’uno sopra l’altro, in una sorta di cilindro rastremato che assomiglia alla torre medievale di un castello, con numerosi spazi vuoti che non faranno che aumentare, man mano che le saponette vengono rimosse per avvolgerle nell’incarto. Una scelta non tanto dovuta all’aspetto appagante, quanto per favorire la circolazione dell’aria e conseguente asciugatura del sapone, che per un intero periodo di quasi due giorni continuerà, comunque, ad essere oggetto della reazione chimica della liscivia. Il ruolo dell’olio, in tutto questo, è soltanto quello di fungere da grilletto chimico che avvia il processo di saponificazione. Esso non venne scelto, alle origini del processo, per il suo particolare aroma o ipotetiche funzioni benefiche sull’organismo umano, bensì per la semplice realizzazione che esso, nel territorio della Mezzaluna Fertile che tanti popoli si erano contesi nel corso della Storia, era più facilmente accessibile e quindi meno costoso dei grassi d’origine animale. In altri luoghi del mondo, sarebbe avvenuto l’esatto opposto.
Una dopo l’altra, quindi, le presunte “semplificazioni” suggerite dai sedicenti esperti online vengono rivelate come totalmente inapplicabili alla realtà. Se si usasse una condotta per versare il sapone sul pavimento direttamente a partire dai serbatoi di cottura, quest’ultima finirebbe ben presto intasata per l’indurimento progressivo di strati di materiale. L’impiego di un coltello col manico più lungo impedirebbe all’operatore di fare forza sufficiente per tagliare completamente la saponetta, mentre un sistema rotativo, simile all’attrezzo per tagliare la pizza, genererebbe un calore potenzialmente bastante a squagliare e saldare di nuovo l’impasto. E per quanto concerne l’apposizione del timbro, nonché seguente chiusura dell’incarto prima della spedizione, non c’è in effetti granché di fattibile senza l’acquisizione di meccanismi automatizzati specifici. Che probabilmente, oltre a risultare eccessivamente costosi, lascerebbero molti di costoro senza più alcun compito da svolgere, e ben presto disoccupati.
Com’è dunque, il prodotto finito? Chi l’ha comprato in tempi recenti (si può ordinare anche su Amazon, ad un costo medio di 5 euro a confezione) ne apprezza la durata superiore, la resistenza strutturale e la conseguente possibilità di usare fino all’ultimo pezzo della saponetta, senza che questa finisca per disfarsi in piccoli pezzi da gettar via. I più entusiasti arrivano ad affermare che la tecnica di produzione a caldo produca un sapone inerentemente migliore, in grado di creare “un maggior senso di pulizia”. Infine come dicevamo, le saponette sono quasi del tutto prive di odore, una caratteristica piuttosto rara sul mercato attuale, che può nondimeno risultare attraente per determinati scenari d’impiego. Sarebbe quindi possibile, in fin dei conti, modernizzare questa particolare procedura, più vecchia del concetto stesso dei sali da bagno? Probabilmente, in un mondo ideale, con corposi investimenti… Ma a quel punto, essa non produrrebbe più realmente la stessa cosa. Perché chi può dire, realmente, di aver compreso a pieno dove risieda il segreto del sapone di Nablus?