Avete mai sentito utilizzare il termine “moe”? Non si tratta, come vorrebbe la convenzione disinformata, di una parola inglese, bensì un’espressione idiomatica giapponese che deriva dal verbo germogliare (萌やす – moyasu) ma suona anche esattamente come il termine che significa bruciare (燃やす) o ardere, per essere più precisi, di passione verso qualcosa o qualcuno. In quest’ordine, badate bene, poiché si tratta di una corrente di pensiero e un sentimento che trovano terreno fertile, più che in ogni altro luogo, nell’ambito della più pura fantasia. Mondo in cui qualsiasi oggetto o creatura, nessuno escluso, possono venire reinterpretati come un’adorabile figura antropomorfa, creata secondo i canoni di una bellezza in qualche modo semplice, spontanea e vagamente infantile. Delle graziose fanciulle “moe” possono incorporare nel loro design elementi tratti da aerei militari o civili, carri armati, robot guerrieri, aziende multinazionali, siti internet, software di vario tipo, console per videogiochi… Non c’è limite di sorta. Tutto ciò che occorre per creare l’atmosfera, è che in qualche modo sottile il loro comportamento alluda al ruolo, e l’originale impiego, del concetto da cui questi personaggi prendono di volta in volta il nome. Quello che invece non ti aspetteresti mai, è che l’oggetto della moe-ficazione possa finire, incredibilmente, per amare la sua controparte umana di rimando…
20 maggio 2017: un giorno di tristezza e gioia, l’evento lungamente atteso, l’occasione di sovvertire le regole della convenzione ed ottenere, finalmente, l’attenzione meritata: perché non è certo normale, una folla simile all’interno di uno zoo. Neanche quello di Tobu nell’assolata città di Saitama, a soli 15 Km dal centro di Tokyo, famoso per la sua associazione fortunata, ed alquanto atipica, con un parco di divertimenti completo di montagne russe costruite in legno (evviva, evviva…La tradizione!) Dozzine di giovani in età scolare, qualche bambino accompagnato dagli adulti, l’immancabile otaku terribilmente pallido che se ne stava rigorosamente in disparte. Essenzialmente, lo spaccato di popolazione umana che ti aspetteresti di trovare al concerto di una Idol nipponica, quel tipo di personaggio del mondo Pop contemporaneo che è al tempo stesso cantante ed attrice, ballerina, ma soprattutto bambola per la vetrina dei collezionisti nozionistici dell’intrattenimento giapponese. Il che sembrerebbe del tutto impossibile, se non fosse che all’interno del recinto dei pinguini cileni (Spheniscus humboldti) un personaggio assolutamente atipico, in effetti, c’è: la doppiatrice di cartoni animati Ikuko Chikuta in calzoni corti mimetici, con la maglietta sponsorizzata e l’inevitabile gigantesco auricolare d’ordinanza, un accessorio veramente fondamentale per il ruolo che è stata chiamata a rivestire in questo momento inaspettato della sua breve (fin’ora) carriera: integrare brevemente con la sua presenza la sagoma di cartone di Huluru, la bimba-pinguina che nell’ultimo mese ha scombussolato, con la sua presenza dalle chiare finalità di marketing, questa piccola ambasciata della fauna sud-americana. Ai suoi piedi, l’adorante ed anzianotto Grape-kun, oggetto inconsapevole della morbosa attenzione popolare per l’ultimo mesetto o giù di lì. Ovviamente, Grape-kun è un pinguino. Ma questo non rende la sua sofferenza, o il suo desiderio, in alcun modo meno reali.
Come siamo giunti a tutto questo? Si tratta di una storia dall’origine incoerente ed il seguito piuttosto triste, per certi versi buffa, ma che una volta analizzata nelle sue indirette implicazioni, rivela una verità piuttosto sconveniente sulle priorità di noi esseri umani. Supportando, in via per nulla incidentale, l’astro nascente del guadagno immediato grazie al costo dei biglietti, ma anche e soprattutto di un futuro business dal valore potenziale di molti milioni di yen. Tutto ha avuto inizio a marzo dell’ormai remoto 2015…
Ora, probabilmente già lo saprete, ma lo scenario dei videogiochi per cellulari è una vera bailamme apocalittica che sembra non avere mai fine. L’intrattenimento interattivo dalla crescita più ampia, negli ultimi anni, si è trasformato dalla precisa ed accurata danza del rapporto di potere tra poche possenti aziende in una tempesta infinita di proposte, provenienti da compagnie di tutte le dimensioni e qualche volta, addirittura, quell’inconcepibile unicorno che è l’autore auto-gestito, un semplice e insignificante essere umano. Il che, nel caso dei prodotti concepiti per la fruizione online, causa un’effetto di turn-over iper-accelerato: ampie fasce d’utenza investono tempo prezioso, e ingenti some di denaro, nell’allinearsi con l’ultima moda dei touch-screen e rendersi competitivi con gli amici. Quindi, pochi mesi dopo, abbandonano quel gioco per passare a un altro, ancor più luminoso ed attraente. La colpa, o se vogliamo il merito, di tutto questo è da ricercarsi nell’etica dell’Internet sociale, dove tutti per definizione hanno le stesse chance di prevalere, salvo l’effetto drammatico sulle classifiche che tendono ad avere i click “comprati” presso le fantomatiche aziende (o come amano chiamarle, “fattorie del ranking”) dei paesi ancora in via di sviluppo. Il che, ad ogni modo, non riduce in alcuna maniera la marcia frenetica dell’ultima trovata, verso la ricerca dell’ennesimo “boom”. Che nel caso preso in analisi quest’oggi, in effetti, c’era stato: grazie alle capacità di promozione della Nexon, software house tokyoita, in funzione dell’abilità degli illustratori del genere “moe” ed anche grazie alle fortunate sinergie del momento, tutti compresero immediatamente che Kemono Friends sarebbe stato uno spropositato successo. Brevemente, il giochino che consisteva nel collezionare e far combattere delle graziose musume (fanciulle) ispirate direttamente agli animali degli zoo giapponesi raggiunse le vette dei due contrapposti App Store, ottenendo ottimi introiti grazie alle micro-transazioni per accelerare la progressione dei partecipanti più impazienti. Negozi temporanei compaiono nelle gallerie di Tokyo, dove acquistare gadget o pupazzi ispirati al gioco. Soltanto un anno e sei mesi dopo, con il calo delle entrate calato di troppi punti percentuali, nessuna esitazione: Kemono Friends chiuse i battenti. Il che tutto considerato, visto quello che sarebbe venuto dopo, ha costituito un errore strategico per nulla indifferente.
Gennaio 2017: in un tentativo disperato di salvare per lo meno la reputazione del franchise, la licenza di Kemono Friends viene data in gestione alla Yaoyorozu, una piccola compagnia di produzione di anime, i beneamati cartoni animati giapponesi. La quale, lavorando alacremente, ne produce una serie animata realizzata principalmente in CG (Computer Graphic) che viene mandata in onda a tarda sera su TV Tokyo, con l’aspettativa di guadagni pressoché irrisori. Ora, la storia del successo spropositato dei primi 12 episodi, terminati verso la fine dello scorso marzo, esula in un certo senso dalla portata e lo scopo di questo articolo. Ma lasciate che ve ne parli brevemente: Kemono Friends, come cartone animato, è piuttosto brutto. Brutto non per chi l’ha disegnato, se di “disegni” vogliamo parlare, ma per il metodo stesso alla base della sua creazione: ci sono serie giapponesi che usano la modellazione tridimensionale soltanto per alcune scene particolarmente salienti, per rendere l’effetto di battaglie o effetti speciali. Non così questo, in cui tutto, ma proprio tutto fondali esclusi, è l’opera di un gruppo assai ridotto di grafici instradati verso una carriera in stile Pixar o Dreamworks. Ma senza le risorse, ed il tempo, che i grandi studios possono permettersi di dedicare ai loro lungometraggi, spesso il prodotto di mesi ed anni di lavoro, da parte di personalità di spicco il cui stipendio deve necessariamente riflettere l’esperienza. Mentre le avventure di Kaban-chan, la protagonista umana che si ritrova trasportata, per ragioni poco chiare, nello strano zoo delle fanciulle-animali si presenta con animazioni un po’ rigide, grafica semplificata e numerose scene costruite in maniera approssimativa, con gli elementi di contorno che si muovono appena. La Yaoyorozu aveva però un qualcosa, nel suo settore, di particolarmente raro: uno, o più, abili sceneggiatori. Che si sono dimostrati in grado di costituire, attorno alla premessa estremamente semplice, una storia ricca di spunti e possibili interpretazioni. I personaggi dell’anime, dunque, si muovo all’interno del Japari-Park, un’enorme riserva-zoo dove sembra essersi sviluppata una società post-umana, a seguito di un qualche tipo di disastro o apocalisse misteriosa. In un viaggio di scoperta che ricorda quasi i romanzi picareschi della tradizione europea, le due protagoniste, la già citata umana (il cui nome, in realtà, allude allo zaino sulle spalle) e Serval, una bambina-gatto africano, incontrano numerosi personaggi persi nel loro strano piccolo mondo ed iniziano, verso l’ultima coppia di episodi, a gettare luce sul mistero di fondo. Tra i quali, inutile dirlo, figura la pinguina Huluru-chan, facente parte per l’appunto di un gruppo musicale di idol, la cui esibizione diventa il tema principale di un intero episodio.
La questione problematica del vero pinguino nasce poi da un sentimento fondamentalmente positivo: restituire ad un singolo zoo giapponese, almeno in parte, il successo che è venuto dalla sua pregressa popolarità. Disponendo al suo interno le sagome dei vari personaggi di Kemono Friends. Se non che Grape-kun, pinguino di Humboldt ormai prossimo al termine del suo lungo soggiorno in questo mondo (raramente simili animali vivono fino ai suoi 20 anni) è stato in qualche modo affascinato, o colpito, dall’oggetto estraneo nel suo recinto. Al punto da far pensare che se ne fosse innamorato. Al che, apriti cielo: perché esiste, nella cultura ormai internazionale del moe, questo concetto eternamente ripetuto della “waifu” (nipponizzazione della parola inglese wife, moglie) il personaggio fantastico con cui un appassionato dovrebbe, nel corso della sua visione di fumetti, cartoni animati e così via, stringere un legame privilegiato, come una sorta di assurda e immaginifica relazione coniugale. ECCO, tuonò a questo punto l’Internet facendosi una cosa sola: il pinguino ha trovato la sua waifu. Lunga vita al pinguino! E poco importa, OVVIAMENTE, che l’animale in questione non mangiasse più con la consueta serenità, e sembrasse ritirarsi dalle interazioni sociali coi suoi simili pinguini. Dopo tutto, non è proprio questo, anche il destino dell’otaku umano?
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