C’è stata un’epoca, durante l’egemonia dello shogunato di Kamakura, fondato dall’invincibile clan dei Minamoto, in cui era normale che i monaci buddhisti svolgessero mansioni di rappresentanza. Instradati attorno all’anno 1.000, volenti o nolenti, in una sorta di carriera politica parallela, essi venivano inviati ai quattro lati dell’Impero, per portare messaggi o assistere in altre maniere le aspirazioni del loro signore. Non era ancora l’epoca delle brutali guerre civili, durante le quali i samurai avrebbero versato fiumi di sangue sul terreno stesso del loro sacro paese, ma neppure un periodo del tutto privo di sconvolgimenti e guai di vario tipo. Il più notevole dei quali, la fallimentare ma pur sempre cruenta invasione dei mongoli di Kublai Khan, avrebbe mancato di distruggere l’ordine costituito solamente per il fortuito verificarsi di un paio di tifoni. In merito ai quali, guarda caso, furono proprio loro, gli abati dei principali templi, ad accaparrarsi il merito, in funzione delle loro efficaci e ferventi preghiere. Un altro ruolo svolto dai religiosi, secondo la rigida divisione in caste del Giappone di allora (che sarebbe rimasta valida per quasi 10 secoli, giungendo a ridosso della modernità) era quello di viaggiare nel continente. Per tornare in patria con le ultime notizie e innovazioni tecnologiche del regno di Goryeo, l’odierna Corea, e soprattutto dalla spropositata Terra di Mezzo, uno sconfinato territorio che ben presto sarebbe diventato noto al mondo con il termine di Cina. Ed era fondamentalmente questo, il contesto in cui il monaco Zen Kakushin fece ritorno nell’arcipelago attorno al 1254, portando con se un fantastico dono procedurale: la creazione del miso, un’impasto denso di soia e vari tipi di cereali che a differenza di qualsiasi altro cibo, poteva essere conservato in condizioni commestibili per mesi o persino anni. E tutto questo grazie all’inclusione del sale, il più prezioso e potente condimento che la storia avesse mai conosciuto. Ben presto i barili di questa fantomatica mistura presero ad accompagnare la marcia di qualsiasi gruppo di armigeri, diventando il cibo militare per eccellenza, proprio in funzione della sua non deperibilità. Mentre il monaco… Su di lui, esistono diverse teorie. Qualcuno dice che si chiuse in convento, per non uscirne mai più. Ma a sentire diversi centri abitati orgogliosi della propria tradizione culinaria, Kakushin si recò in ciascun luogo, per insegnare ai cuochi locali il segreto del miso. Finendo invece per scoprire durante le sue lezioni un qualcosa…Di ancora più stupefacente. La maniera in cui, durante la pressatura di tale degli ingredienti, da essi fuoriusciva un liquido scuro, il cui aroma e sapore risultavano, occasionalmente, ancor più gradevoli di quelli dell’alimento bersaglio. Era nata, quasi per caso, la salsa di soia.
Uno di questi luoghi illuminati dalla leggendaria saggezza culinaria buddhista, secondo la tradizione, sarebbe stata la cittadina di Wakayama nell’omonima prefettura, sulle estreme propaggini meridionali della grande isola dello Honshu, a ridosso di quella di Shikoku. Dove esiste, da ormai 750 anni un’industria di nome Kadocho, che ha fatto di questo antico “errore” uno stendardo e una bandiera, tale da incrementare i meriti fondamentali di questa salsa, che ben presto avrebbe raggiunto i paesi più distanti dell’ancora nebuloso Occidente. Ora, naturalmente, c’è un fondamentale problema in questa versione dei fatti storici: la salsa di soia, nella storia culinaria dell’Asia, esisteva ben prima che il monaco Kakushin ritornasse in Giappone. Volendo quindi anche attribuirgli il suo particolare metodo per conservare e sfruttare il prodotto collaterale del miso, è indubbio che esso debba pur sempre costituire una ri-scoperta di quanto già accadeva da generazioni in Cina, in Thailandia, in Corea, in Vietnam… Ma possiamo realmente dire che si tratti della stessa cosa? La salsa di soia giapponese, chiamata shōyu, presenta una concentrazione di grano superiore alla media, che gli dona un particolare retrogusto dolciastro. Mo sono soprattutto i metodi per produrla, precisi ed armonici come qualsiasi altro sentiero intrapreso dalla finalità d’intenti nipponica, a caratterizzare la sua produzione migliore. Come quella, per l’appunto, della Kadocho di Wakayama. Così eccezionalmente mostrata in questo video promozionale del regista Mile Nagaoka, eletto non a caso a far parte della rassegna Short Film Showcase del National Geographic, ormai da anni uno dei capisaldi più rinomati dei cortometraggi del Web…
Nella breve sequenza di immagini (neppure 3 minuti) particolarmente curate dal punto di vista registico, viene mostrato praticamente ogni singolo passaggio nella preparazione della salsa di Wakayama, fin quasi all’imbottigliamento. Che viene probabilmente trascurato soltanto perché apparirebbe troppo “moderno” e quindi meno prestigioso. Tutto inizia con la miscelatura dei due ingredienti principali, soia e grano, inseriti all’interno di recipienti una volta attentamente tritati. In un luogo caldo e secco dello stabilimento, quindi, a ciascuno di essi viene aggiunta una precisa quantità del fungo kōji (Aspergillus oryzae) il cui compito sarà accelerare e migliorare il naturale processo di fermentazione. È sorprendente, ancora una volta, quanti dei nostri cibi preferiti derivino in effetti dall’attività di operosi microrganismi, che nel tentativo di garantirsene l’appannaggio esclusivo, tentano di avvelenarlo, trasformandolo in alcol, etanolo o modificando in altro modo la fondamentale composizione chimica delle sostanze. Senza prima aver fatto i conti, tuttavia, con l’eccezionale efficienza dell’apparato digestivo umano! E il nostro gusto perverso per tutto ciò che è “diverso” piuttosto che “uguale”… La soia/grano ormai piena di vita viene a questo punto raccolta in grandi barili in legno di cedro, dove dovrà restare per un tempo sufficientemente lungo. Che per la soia tradizionale priva di additivi, si aggira convenzionalmente attorno ai 6 mesi, benché quella particolarmente pregiata di Wakayama venga tenuta là sotto, in media, tra uno e due anni di tempo. Finché, nel giorno lungamente atteso, l’impasto denso viene tirato fuori e steso su un apposito telo di lino (ma possono essere usati anche tessuti di altro tipo) che verrà quindi piegato su se stesso per molte centinaia di volte. C’è una vaga analogia, in tutto ciò, con il leggendario concetto metallurgico della katana… Ma non divaghiamo. L’impasto fermentato, a questo punto, viene messo sotto una pressa. E spremuto.
Vi stupirà forse sapere che non sempre la miscela risultante viene pastorizzata, ovvero cotta per eliminare i bacilli del fungo kōji. Esiste in effetti un particolare tipo di salsa di soia, particolarmente pregiata, dal nome di Nama shōyu, che viene consumata direttamente dalla spremitura dello pseudo-miso. Al giorno d’oggi essa viene apprezzata, in modo particolare, dalla cultura gastronomica dei vegani. Un’altra variante potenzialmente utile è la salsa Tamari, realizzata con una quantità ridotta, o del tutto in assenza di grano. Essa è fortemente consigliata per i celiaci, mancando di suscitare alcun tipo di intolleranza, e proviene tradizionalmente proprio dalla cittadina di Wakayama. Ma il prodotto principe della Kadocho, nonché quello celebrato da Mile Nagaoka, è proprio la Koikuchi shōyu nello stile tradizionale della regione del Kantō, considerato non a caso il prototipo della “salsa di soia giapponese”. Il cui gusto intenso, la scurezza e particolare densità la rendono particolarmente adatta come ingrediente di alcune delle pietanze più apprezzate in questa particolare regione del mondo.
Per quanto concerne invece il nuovo “prodotto collaterale” quell’impasto che fu la via d’accesso alla celebrità dell’antico monaco Kakushin, non c’è molto da fare: il processo di creazione della salsa di soia in grandi quantità fondamentalmente rovina il sapore del miso, che a quel punto non può più raggiungere la tavola dei moderni consumatori. Non permane, tuttavia, alcun tipo di spreco: il residuo della spremitura viene infatti dato in pasto al bestiame (alcuni dicono che sia proprio questo il segreto della leggendaria bistecca di Kobe) oppure usato come fertilizzante. Mentre il pregiato fluido marrone, attentamente imbottigliato, viene suddiviso in diversi gradi ed indici di qualità. Come avviene ad esempio per l’olio di oliva, si dice che la prima spremitura del miso produca una salsa infinitamente migliore, che proprio per questo viene prezzata di conseguenza. Ma sarebbe difficile, per il nostro palato non allenato, riuscire a percepire e comprendere la differenza.
Non sono tantissime le tipologie di salsa di soia che è possibile trovare nei supermercati europei, molte delle quali, in effetti, risultano il prodotto di processi industriali fondamentalmente diversi da quello fin qui descritto. Il quale vede l’impiego di additivi chimici per velocizzare il processo di fermentazione e talvolta, persino di coloranti. Tra le marche consigliate su Internet, per l’assenza di tali problematici approcci, figura la sempre celebre Kikkoman, seguìta a ruota da Kishibori, Eden e Mizunari. Resta tuttavia sempre consigliabile verificare l’elenco degli ingredienti, soprattutto se si ha l’intenzione di vivere un’esperienza culinaria che abbia un qualche valido presupposto di fedeltà all’ingrediente originale. E per chi ha voglia di raggiungere il Nirvana…In realtà la vera salsa d’importazione non è poi così follemente costosa: un litro di Kadocha, ovviamente del grado più comune, si aggira sui 1030 Yen: l’equivalente di circa 8 euro. Il problema, a questo punto, diventa trovare un’escamotage per non spendere il doppio in spese di spedizione!