Come è possibile difendersi da ciò che non ha intento? Nessun piano, nessun metodo, neanche un’ombra di malvagità? Ma quietamente avanza, come una marea sparuta, nel momento in cui l’uomo volta lo sguardo. Anche soltanto per un singolo minuto! E tutto ciò che trova, lo azzanna e poi divora, con tutto l’appetito di cui Madre Natura l’ha fornito… Si dice che il cane sia il migliore amico dell’uomo, e questo sopratutto per il sodalizio stretto negli eoni più remoti, che consiste nel sapere come, e quanto a lungo, muoversi su strade parallele. Ma non illudetevi: Canis lupus, lupus resta. È soltanto il “canis” a essere spazzato via dal vento dell’infausta casualità. Vige lo stereotipo secondo cui l’Australia, con tutto il suo patrimonio faunistico particolare, sia un luogo in cui l’ecologia è tendenzialmente più selvaggia e spietata che nel resto del pianeta Terra. Eppure se così davvero fosse, come mai le specie animali trasportate dai coloni di ogni epoca, per intenzione oppure per errore, prosperano favolosamente, spesso a discapito degli abitanti endemici del continente… È successo coi conigli, è successo con i gatti. È capitato, addirittura, coi cammelli. Ed ovviamente poi ci sono loro, i nostri amati cani. Molto prima che il “nuovissimo” venisse (ri)scoperto dall’influente uomo occidentale, con le prue delle sue navi veloci e potenti. 38.000 anni a.C. o giù di lì, per essere precisi, quando le popolazioni aborigene provenienti, si ritiene, dal Sud-Est Asiatico, sbarcarono ad ondate, assieme ai loro beni più preziosi. Tra cui c’era un piccolo quadrupede, l’aiutante di mille avventure, quello che nel 1768 James Cook avrebbe incontrato nella “Nuova Olanda”, e l’etologo Johann Friedrich Blumenbach avrebbe visto in un ritratto qualche anno dopo e classificato, lui per primo, come Canis familiaris dingo. Un bel cane di taglia media, agile, solido, sfinato. Una creatura destinata a prosperare senza alcun ritegno.
Avanti-rapido fino all’epoca corrente: l’allevatore di pecore del Sud dell’Australia vive, essenzialmente, come un re. Estendendo la sua podestà non soltanto fin dove si spinge lo sguardo ma ben oltre, fino ai confini di un territorio che può raggiungere in ampiezza l’area di paesi come la Turchia o la Slovenia. Entro i quali, le sue greggi pascolano libere, senza alcun tipo di limitazione imposta. Ma soltanto un singolo terrore, che attraversa le generazioni: la grande fame di colui che essendo stato abbandonato, tanto tempo fa, ha raggiunto un grado di adattamento pressoché assoluto al territorio in cui si trova a muoversi e tentare l’ardua via della sopravvivenza. Che a lui non soltanto viene facile, ma pure inevitabilmente, sanguinosa e truculenta. Si stima infatti che ogni anno, un numero variabile tra lo 0 e il 10% di tutte le pecore della regione, con punte estreme del 30%, finiscano azzannate e almeno parzialmente consumate dai dingo. Sono numeri incapaci di arrecare un danno realmente significativo all’economia, per fortuna, ma provate voi a dirlo al proprietario dei malcapitati animali! Così apparve chiaro, verso la fine del secolo XX, che occorreva far qualcosa per risolvere il problema. E quel qualcosa, gradualmente, assunse la forma di una recinzione. O meglio, da princìpio molte, costruite e mantenute separatamente dai rancheros, finché non ci si rese conto che ovviamente, l’unione dei paletti fa la forza, e gradualmente ciò che era diviso diventò una cosa sola. Una Grande Muraglia, un Vallo di Adriano, una linea fortificata dei Mewar (nello stato indiano del Rajastan). A partire dal 1931, quindi, lo stato costituito prese in mano la questione, istituendo il concetto amministrativo della Grande Barriera dei Cani, suddivisa in distretti chiaramente definiti, ed amministrata inizialmente dall’omonimo ente. A quel punto, con l’aggiunta di alcuni tratti, la barriera aveva raggiunto i 5.614 Km di lunghezza, con un valore d’investimento stimato sull’equivalente di 11,2 milioni di dollari. Era la seconda struttura più lunga mai costruita dall’umanità intera.
Ovviamente, non tutta la recinzione è altrettanto solida e ben costruita. Ci sono tratti in cui il suo aspetto è notevolmente formidabile, con fili multipli elettrificati sovrapposti, e luci fotovoltaiche che lampeggiano a intermittenza, per spaventare i cani di notte. In altri, si tratta di poco più che una fila di paletti in legno infissi nel terreno, collegati tra loro con del reticolato metallico soggetto all’incedere continuo della ruggine e la forza inarrestabile del vento. Il problema delle strade, che inevitabilmente devono attraversare in più punti la recinzione, viene risolto con l’impiego di “Griglie da bestiame” sostanzialmente dei tratti di terreno ricoperti di tubi metallici, distanziati in modo tale da impedire ai quadrupedi di attraversarli serenamente. Tale metodo, apparentemente un blando dissuasore, è in realtà molto efficace anche nello scoraggiare i cani, che potrebbero attraversarlo disponendo accuratamente le zampe nei buchi. La manutenzione della struttura in questione è un’attività naturalmente complessa, anche viste le regioni remote ed aride in cui passano taluni tratti, non propriamente raggiungibili senza un’adeguata preparazione tecnica ed ottime capacità di guida. Il DNRW (Dipartimento delle Risorse Naturali e dell’Acqua) ente governativo che oggi si occupa di amministrare la barriera, mantiene dunque nel suo staff un corpo speciale di appena qualche decina di ranger specializzati, che ogni giorno percorrono la recinzione alla ricerca di eventuali problemi, segnalandoli mediante l’uso di GPS alle squadre di intervento veloce. Si tratta di uno dei mestieri più solitari che si possano immaginare, ed uno di loro può arrivare a percorrere in media fino a 300 Km giornalieri. Fino all’arrivo di un auspicabile cambio di mansione… Il fatto che si tratti di un’impresa utile per la collettività, tuttavia, sarebbe difficile da mettere in dubbio. Ogni qualvolta si verifica un ritardo nella riparazione di un singolo tratto, una certa quantità di dingo finisce per penetrare nei territori delle stazioni di allevamento. Causando significativi danni ai greggi indifesi. Notevolmente più fortunati risultano essere i proprietari di armenti bovini, i cui membri appaiono meno soggetti all’attacco dei canidi, in funzione della loro imponenza maggiore. Tuttavia, anche una mucca, può riportare ferite importanti, nel caso in cui i canidi attacchino in branco e riescano ad essere sufficientemente fortunati. A partire dagli anni ’70, anche per questo, il solo impiego della recinzione non fu più giudicato sufficiente. E venne quindi istituita una politica di riduzione, con l’assistenza della VPCA (Ente per il controllo dei Vertebrati Invasivi) consistente nella creazione di una sorta di zona-cuscinetto, nella parte antistante la barriera, tramite l’impiego di esche avvelenate di vario tipo. Precedentemente, sforzi non coordinati erano già stati compiuti distribuendo l’arma chimica con degli aerei, ma in seguito questa metodologia fu giudicata troppo efficace e lesiva per la popolazione generale dei dingo, venendo quindi sostituita da metodi più convenzionali. Occasionalmente, esche e trappole vengono disposte anche nel territorio più a settentrione dei pascoli bovini, al fine di eliminare gli animali che stavano per spingersi nelle tenute più vulnerabili, popolate dalle pecore indifese.
Ci sono molte critiche in merito all’efficacia e l’utilità della Grande Barriera dei Cani. La prima e più significativa delle quali, che vedrebbe la specie del Canis dingo non più come un’estensione adattata del familiaris continentale, ma un vero e proprio animale endemico dell’Australia, letteralmente fatto per convivere con le sue creature native. L’effetto a catena della riduzione artificiale della sua popolazione complessiva, in effetti, sta soltanto ora iniziando a dare le sue prime e preoccupanti conseguenze a lungo termine. Per quella che viene definita in ecologia una “cascata trofica” l’assenza dei dingo nella parte recintata ha portato ad un aumento estremo del numero dei canguri, che a loro volta hanno ridotto sensibilmente la quantità di vegetazione e quindi, paradossalmente, lo spazio disponibile per far pascolare le pecore. La concentrazione dei canidi nella parte settentrionale del continente, nel frattempo, ha causato l’effetto inverso, con sottili e sensibili alterazioni del complesso sistema interconnesso dell’ecologia australiana. C’è inoltre un significativo problema, insorto soprattutto negli ultimi anni: il cammello ferale australiano, la cui popolazione è stata ridotta a 300.000 esemplari dal precedente milione, ha tuttavia imparato che la recinzione non può fermarlo in alcun modo. Con lo scopo di raggiungere i più verdeggianti pascoli del meridione, quindi, il problematico animale sfonda il recinto. Lasciando un’apertura a misura di dingo, che questi ultimi sfruttano con saltuaria ma alquanto drammatica efficienza.
Il cane: un amico. Ci sono esseri più simili a noi, su questa Terra, come gli scimpanzé che condividono il 96% del nostro genoma. Eppure, l’avete vista una scimmia? Nessun’altro abbaia alla nostra anima con lo stesso fenomenale senso d’empatia. Potrebbe trattarsi di una semplice ragione di convenienza: nella remotissima preistoria, a noi serviva un guardiano, un pastore, un cacciatore, proprio quando a loro, stanchi di faticare per il cibo, avrebbe fatto comodo la figura di un padrone. Ma forse la realtà più remota è che i cani hanno un approccio alla vita ed un metodo operativo che mira all’accrescimento dei propri propositi di sopravvivenza. Anche a discapito di ciò che li circonda.
Ed in questo, purtroppo è innegabile, commettono i nostri stessi errori. Ma sbagliare assieme, in ultima analisi, è pur sempre una mezza consolazione…