Ormai prossimi allo sfinimento per il gelo e le difficoltà incontrate, i geologi facenti parte della spedizione Terra Nova erano partiti da Butter Point il 26 gennaio del 1911, con l’obiettivo di raggiungere la zona ad ovest del canale di McMurdo, ancora largamente inesplorata. Nella storia delle grandi esplorazioni, l’Antartide ha avuto spesso questo effetto: la capacità di richiamare, coloro che avevano già speso le loro più preziose risorse sempre più in profondità, con una voce stentorea che pare provenire dalle viscere del mondo stesso. Quattro giorni dopo, ormai sfiniti per la marcia ininterrotta, Griffith Taylor, Debenham, Wright ed Edgar Evans si trovarono dinnanzi a uno spettacolo del tutto inaspettato. Il terreno in discesa, che si trasformava in una valle. Ed all’interno di questa, la quasi totale assenza di ghiaccio. Costoro non potevano sapere, all’epoca, di essere al cospetto di un fenomeno altamente specifico di tali luoghi. I forti venti catabatici, a velocità di oltre 320 Km/h, che nel discendere si scaldano in maniera significativa. Garantendo temperature non più basse di 0 -5 gradi in estate, contro i -25 medi del più meridionale dei continenti. E un’umidità quasi del tutto assente. Ovunque, tranne che in prossimità dei laghi: Vida, Vanda, Brownworth… Bonney. Nomi semplici e apparentemente familiari, per alcuni dei luoghi più salini della Terra, con concentrazioni molto superiori addirittura a quelle del Mar Morto. Nonché uno spettacolo ancor più macabro, in apparenza, di quel nome in grado di annientare la speranza di un domani. La cascata rosso sangue, alta quanto un palazzo di cinque piani, che soltanto periodicamente si palesa dalla roccia del ghiacciaio sopra il lago Bonney, mischiando il proprio flusso con le acque di quest’ultimo, in un lento turbinìo. L’impressione che si ha, di fronte a un simile titano, è di aver trovato l’evidenza di un’ecatombe. Se non fosse che quell’acqua scorre da millenni, eoni interi, e per quanto ne sappiamo, neppure siamo giunti alla metà della sua storia.
Ne parlò l’autore H.P. Lovecraft, nei suoi romanzi sugli dei venuti dalle stelle all’epoca della preistoria umana: ciò che dorme, risparmiando le sue forze, può restare vivo per l’eternità. In attesa che qualcuno, incautamente, giunga a disturbarlo con la sua presenza largamente indesiderata. Durante l’Era Proterozoica (2500-541 milioni di anni fa) la vita sulla Terra subì un significativo contrattempo: tutti quei batteri ed animali rudimentali, che ormai brulicavano su ogni superficie orizzontale, stavano generando quantità impressionanti di anidride carbonica. Ma le piante in grado di riciclarla, per produrre ossigeno, non erano ancora presenti in quantità adeguata. Così finì quel delicato esperimento. O quasi. Perché la vita, tenace come è sempre stata, trovò il modo di salvare se stessa, permettendo lo sviluppo di alcune forme totalmente nuove, in grado di prosperare anche in assenza di un ambiente che potesse dirsi a loro misura. Erano questi gli estremofili, creature microscopiche, racchiuse in gusci solidi, che si ritirarono del tutto dalla luce del distante Sole. Imparando a trarre il loro nutrimento dalle semplici sostanze chimiche dell’acqua che scorre nelle profondità del mondo. E potrà sembrarvi folle, eppure esse, sono ancora lì. All’interno di un brodo primordiale che non si è evoluto, semplicemente perché ha raggiunto il proprio massimo potenziale quando il mondo aveva un solo continente, o poco più. Ed oggi, la loro casa è stata finalmente mappata grazie allo strumento della tecnologia…
“Svelato il mistero della Cascata di Sangue” hanno titolato le testate internazionali a seguito della pubblicazione, avvenuta pochi giorni fa, dello studio condotto dalla studentessa Jessica Badgeley del Colorado College, assieme alla glaciologa Erin Pettit dell’Alaska Fairbanks e il suo team, finalizzato all’impiego di una coppia di antenne radar per raggiungere i più occulti pertugi sotto un simile ghiacciaio, alla ricerca di nuovi indizi sul suo complesso funzionamento. Mentre la realtà è che questa nuova spedizione, condotta grazie agli strumenti veicolari odierni, che hanno reso l’esplorazione dell’Antartico un’impresa assai mondana, non ha introdotto proprio alcunché di TOTALMENTE nuovo. Sono ormai diverse decadi, che è stata smentita l’ipotesi secondo cui l’acqua avesse tale colorazione a causa della presenza di un’alga, come pure è nota, almeno dal 2014, la presenza di un secondo vasto lago mantenuto liquido dal sale, posto tra la superficie e il piano della roccia sottostante. Il quale, con la sua alta concentrazione di ferro elementale, è la ragione della formazione della vera e propria “ruggine” mischiata all’acqua, che poi sgorga periodicamente al verificarsi delle giuste condizioni. Ciò che veramente cambia, oggi, è che per siamo finalmente in grado di sapere quali siano queste condizioni…
La stessa esistenza del lago nel sottosuolo fu provata senza alcuna ombra di dubbio, dopo le numerose ipotesi elaborate negli anni, grazie all’impiego della IceMole, un robot teleguidato concepito dall’Università di Aachen, in Germania, con la finalità remota di giungere a esplorare altri pianeti. Puntato verso il basso dalla sommità del ghiacciaio l’oggetto, simile a un cilindro, ha iniziato a riscaldare il suolo sottostante, penetrandovi grazie all’impiego di una vite infinita. L’impresa, condotta da Bernd Dachwald del Dipartimento di Ingegneria di Aachen ed al quale partecipò anche la rinomata biologa Jill Mikucki dell’Università del Tennesse, permise non soltanto di raggiungere le oscure acque, ma di riportarne addirittura in superficie una certa quantità, che sottoposta ad analisi approfondite rivelò la presenza di 17 diversi batteri ed altri microrganismi in grado di estrarre energia dal solfato di ferro, perfettamente adattati alla vita nei recessi più profondi del nostro pianeta. Il che, quasi incidentalmente, prova senza alcuna ombra di dubbio che la vita possa esistere in qualsiasi pianeta o satellite del cosmo, purché si siano verificati nel corso della sua lunga storia, per un breve attimo, gli eventi necessari a sostenerla. Il che, naturalmente, resta indubbiamente un grosso “purché”.
Mentre nessuno aveva pensato, fin’ora, d’impiegare lo strumento delle antenne radar come fatto da Jessica Badgeley, semplicemente in funzione del fatto che lo spessore e la profondità erano tali da far presumere un’inefficacia dei rilevamenti. Se non che, in effetti, la stessa alta concentrazione di sale nelle acque che sgorgano dalle Blood Falls ha garantito un contrasto marcatamente migliorato, sufficiente a ricavare una mappa dettagliata dei pertugi attraverso cui tale fluido scorreva. Le stesse vene, ed arterie, per così dire, in grado di diramarsi dal nocciolo profondo della questione. Il che ha condotto i ricercatori dalla conclusione più inaspettata di tutte: che la natura liquida dell’acqua sotto le valli di McMurdo è in realtà mantenuta da un ciclo perpetuo di congelamento e conseguente scongelamento, dovuto alla piccola quantità di calore liberata dal solidificarsi dell’acqua. Proprio così: si tratta di un processo chimico piuttosto contro-intuitivo. Ma il fatto poco noto è che il ghiacciarsi di una grande quantità d’acqua, inevitabilmente, libera dell’energia. Tale da causare il conseguente scongelamento di una quantità minore del materiale circostante. Se non che le particolari condizioni del ghiacciaio scoperto per la prima volta da Taylor et al, per non parlare dell’alta quantità di ioni salini presenti nel lago sotterraneo, garantiscono che la quantità scongelata sia grosso modo equivalente a quella che diventa solida, garantendo la continuativa esistenza di una simile caverna allagata. Con tutto il suo corredo di microrganismi brutalmente risvegliati.
La periodicità dell’apparenza delle Cascate di Sangue, a questo punto, appare molto chiara: visto il complesso network di gallerie ed il sistema variabile della pressione dovuto alla continua trasformazione di stati della materia, l’acqua sgorga in superficie unicamente quando si verifica una “tempesta perfetta” dei presupposti, aprendo un sentiero percorribile fino allo sguardo appassionato dei visitatori di turno. Ma nessuna spiegazione, per quanto approfondita, può minare il fascino estemporaneo di una tale capsula del tempo, che si estende come un filo ininterrotto fino ai recessi più reconditi della nostra stessa esistenza.
Il sangue rosso che nutre il mondo. Il fluido gelido, perché non vivente, eppure estremamente vivente, in quanto popolato da migliaia o miliardi di minuscole entità, pienamente comparabili alle nostre cellule umane. Che senso avrebbe, a questo punto, erigere barriere divisorie… Ciò che esiste, pensa. E quando pensa, è. Un giorno forse non troppo lontano, potremo lanciare una sonda simile sotto i ghiacci impenetrabili di Europa, la quarta luna di Giove. Con la differenza che la sotto troveremo… Una città?