Tutto inizia, volendo usare un punto di vista selettivo, dalla nostra penisola a forma di stivale. L’Italia, come paese, non ha un grandissimo numero di linee colorate. La ragione è da ricercarsi nella sua posizione geografica, che nella parte settentrionale la collega al grosso hub tecnologico dell’entroterra europeo. Eppure, anche noi ci difendiamo: ce n’è uno che unisce la penisola alla Sardegna. Ed un paio in Costa Azzurra, diretti verso il principato di Monaco e la Spagna. La Corsica, dal canto suo, giustamente risulta collegata soltanto alla Francia. La Puglia ne ha due, con ramificazioni verso l’Albania, la Croazia e la Grecia. Ma è soprattutto in Sicilia che le cose iniziano a farsi realmente serie: come un avamposto nel mezzo del Mediterraneo, l’isola triangolare è un punto d’approdo per l’AAE-1, 25.000 Km di autostrada sommersa, in fibre ottiche, rame ed acciaio, che giungono fino in India passando per il Mar Rosso, e da lì in Malesia, per incontrare altri cavi. Ce n’è soltanto una manciata, in tutto il mondo, in grado di rivaleggiare una tale imponenza. Vedi il più lungo in assoluto, di nome SEA-ME-WE 3, che partendo dalla Germania gira attorno alla nostra massa continentale, per poi raggiungere la Turchia, il Medio Oriente, le Filippine, il Giappone e l’Australia. O le letterali dozzine che s’irradiano dall’America, affrontando la sfida tradizionale dell’Atlantico o quella più recente, e complessa, del Pacifico verso le Hawaii e l’Asia. Prima che fossero costruiti, il mondo era soltanto un insieme di luoghi sconnessi che tentavano di comunicare attraverso il trasporto di pezzi di carta. Da quando ci sono, possiamo spingere un tasto e far ballare un gatto dall’altro lato del globo. In questa mappa prodotta per la testata del Business Insider, la grafica computerizzata e la musica da ascensore ci permettono di farci un’idea della disposizione complessiva di uno dei principali patrimoni della modernità, i nostri cavi per le telecomunicazioni appoggiati ai fondali marini (se dovete preferirla, ecco una versione interattiva ospitata presso il portale Telegeography). Letterali miliardi di dollari d’investimento e le lunghe ore di lavoro ed impegno, da parte degli uomini e donne di un industria che paga bene, ma risulta intrinsecamente e drammaticamente ignorata dalla collettività. Che pure, ne beneficia!
È un paradosso storico piuttosto pressante, quello che si propone di comparare gli avanzamenti tecnologici degli ultimi 100 anni, a quelli dell’ultima generazione o giù di lì. Perché se a medio termine troviamo la costruzione di jet supersonici, l’esplorazione dello spazio, la penicillina, i vaccini… Cosa abbiamo concluso, come categoria d’esseri sapienti, dall’invenzione di Internet? Praticamente null’altro, che potenziare Internet. Il che, del resto, non è un’impresa semplice come potremmo pensare. Perché ciò che occupa lo spazio virtuale risulta essere, per la nostra concezione immanente, un qualcosa di volatile, quasi immaginario. Mentre la realtà è che portare a destinazione i dati oltre una massa d’acqua, come attività, non è certo una delle più semplici a questo mondo. Né economiche: stiamo parlando di un investimento medio che può andare dai 100 ai 500 milioni di dollari per singolo progetto. L’importanza di un giusto approccio fu dimostrata inizialmente da Samuel Morse, col suo esperimento per far passare un cavo telegrafico attraverso la laguna di New York, operazione che ebbe successo unicamente grazie alla ricopertura di quest’ultimo con canapa incatramata e gomma naturale nel 1839. Ma la vera svolta sarebbe arrivata nel 1845, con l’impiego da parte di Michael Faraday e Charles Wheatstone di un nuovo materiale riportato in Inghilterra dall’India, la resina appiccicosa dell’albero di gutta-percha (Palaquium gutta) un isolante naturale che si dimostrò in grado di proteggere il potenziale elettrico del cavo all’interno attraverso miglia e miglia del fiume Reno, in Germania. Nel 1851, grazie all’opera del battello di nome Blazer della compagnia Submarine Telegraph, furono quindi proprio gli Inglesi a poter godere della risorsa di una linea di collegamento attraverso un braccio di mare ampio come la Manica, per meglio comunicare con la Francia e i Paesi Bassi. Come attività del resto, la posatura di linee di collegamento subacquee non fu mai particolare appannaggio degli Stati Uniti, semplicemente perché con il progressivo modificarsi del contesto socio-economico mondiale, e il successivo aumento dei commerci trans-oceanici, sarebbero stati piuttosto gli altri paesi del mondo, ad avere interesse a raggiungerli coi proprio cavi. Un mercantile che può comunicare con la madre patria, avrà informazioni chiare su cosa comprare ed a quale prezzo. Un ambasciatore sa cosa chiedere ed offrire. Una spia, può inviare il suo codice senza dare eccessivamente nell’occhio. I quali aspetti, a lungo andare, giustificavano ampiamente l’investimento…
Un sistema funzionale di cavi sottomarini determina molto spesso il funzionamento idoneo di un paese più informato e di conseguenza, pronto ad agire. Allo scoppio della prima guerra mondiale, gli inglesi inviarono immediatamente la loro nave Alert per tagliare le cinque linee che collegavano la Germania con la Francia. Ben sapendo che a quel punto, il nemico tedesco avrebbe dovuto impiegare unicamente comunicazioni via radio, che potevano essere più facilmente intercettate. Nel 1959, in piena guerra fredda, un peschereccio battente bandiera sovietica, il Novorosiysk, usò le sue reti a strascico per recidere “accidentalmente” cinque diversi cavi statunitensi. Episodio che se non fosse per l’improbabilità statistica, avrebbe potuto verificarsi anche in modo involontario. Non sono pochi, in effetti, i pericoli che devono affrontare simili cavi. Proprio per questo, in numerosi porti sparsi per il mondo, esiste un tipo di vascello attrezzato appositamente con la finalità di tirare a bordo, e riparare i tratti che hanno subìto danni per l’effetto di un’ancora, un terremoto, un’eruzione vulcanica… O anche il morso di uno squalo. Pare infatti che i più temuti predatori degli abissi, in grado di percepire l’impedenza elettrica grazie ai loro organi delle ampolle di Lorenzini, siano istintivamente attratti dalle nostre strutture bentoniche più diffuse. Ed amino rosicchiarle, tra un pasto e l’altro, sperando di poterne acquisire il sapore.
Il che potrebbe condurre alla giustificata domanda, immediatamente successiva di “Cosa c’è esattamente dentro uno di questi cavi?” A partire dagli anni ’80, nel mondo esiste uno standard che prende il nome dalla prima compagnia che l’ha utilizzato, la TAT-8, che prevede una serie di fibre ottiche per la trasmissione d’informazioni alla velocità della luce, regolarmente ripetute e rafforzate ogni 100 Km circa dall’impiego di un ripetitore a forma di siluro, che garantisce una ricezione idonea del segnale al punto di arrivo. Gli apparati in questione sono collegati in serie, e ricevono corrente attraverso una linea elettrica contenuta nel cavo stesso, protetta da un tubo di rame, fibre d’acciaio ed un involucro di plastica semi-rigida esterna. Le fibre ottiche stesse, nel frattempo, sono collegate tra loro mediante il sistema del self-healing ring, per cui la presenza di due vie di collegamento circolari dei dati in senso contrapposto, nel caso di rottura di una singola tratta, non blocchi il circuito in maniera immediata. Ciò è molto importante per i paesi isolani, per i quali una di queste linee può rappresentare letteralmente l’unica via di collegamento col resto del mondo che possa dirsi pienamente efficiente e funzionale. I cavi per l’impiego in alto mare, con un diametro raramente superiore ai 30-40 cm, non presentano un grado di protezione particolarmente significativo. Mentre quelli che partono dalla riva, generalmente, sono più spessi e resistenti, per non subire l’effetto deleterio e l’usura degli urti accidentali. Proprio per la loro inevitabile e relativa fragilità, quando possibile, tutti i cavi sommersi vengono anche sepolti al di sotto del fondale, tramite l’impiego di vari tipi di mezzi comandati a distanza. Ma ci sono punti di passaggio, tra un’estremità e l’altra d’importanti linee di collegamento, dove depositare un cavo è come lanciare un lasso (o lariat che dir si voglia) al di là di una catena montuosa. E sarebbe decisamente difficile, su tali tratte, poter contare sull’assistenza di un amichevole robot.
La riparazione dei cavi danneggiati, al confronto, è un’operazione piuttosto semplice: tutto ciò che occorre fare è inviare un segnale di tipo SSTDR (Spread-spectrum time-domain reflectometry) e prendere nota del tempo impiegato perché torni al punto di partenza. Tale pratica permette di comprendere il punto in cui la linea si interrompe, ed inviare un battello attrezzato per tagliare, sostituire e riallacciare la parte in cui si verifica il problema. Per riuscirci, essa verrà letteralmente “pescata” dal fondale mediante l’impiego di diversi tipi di pinze, superficialmente non tanto dissimili da quelle impiegate nel gioco della gru dei pupazzi di peluche. Fatta eccezione, ovviamente, per i piccoli dettagli del costo, la potenza, le dimensioni…
Niente d’inarrivabile, o ingiustificato, quando si considera i vantaggi forniti da una simile industria a livello globale. Perché certo, in determinate condizioni le connessioni di tipo satellitare possono risultare più rapidi e flessibili. Ma sono anche costose, e per questo, riservate a chi può permettersi d’impiegarle. O ne faccia un uso davvero rilevante. Mentre la grandezza del cavo sottomarino e proprio la sua equanimità, il fatto che costituisca, nonostante l’investimento ingente di partenza, un bene al servizio di qualunque impresa, indipendentemente dalla sua importanza. Queste linee colorate trasmettono le nostre e-mail. Ci permettono di ordinare merci dall’altro capo del mondo. Di giocare a scacchi contro l’Australia. Di guardare la Tv giapponese. Fanno dell’umana collettività un singolo, ininterrotto network neurale. Unendoci in un modo che dal punto di vista socio-politico, purtroppo, ancora ci elude. Chi può dire che non siano proprio i sentieri vertiginosi delle informazioni, sepolti attentamente tra i granchi azzurri e schiere di pesci un po’ insonnoliti, la nostra via d’accesso privilegiata per il futuro?