“Costruttori di piramidi…” Pensò Toth Tre Volte Grande, il dio egizio manifesto, trasferito sulla Terra nella forma di un possente messaggero alato: “…Alla perenne ricerca di una costruzione che sorpassi il tempo. Così, questo è ciò che hanno saputo costruire oltre l’isola di Salomone… Tanto distante dal luogo d’origine di tutti noi.” Sotto di lui candida e brillante la struttura quasi vegetale della Sydney Opera House. Dinnanzi ad essa, gli edifici del principale quartiere commerciale del Nuovo Galles del Sud. Nel cielo un nugolo di piume, rese vicini dall’estrema percezione del visitatore: gabbiani, piccioni (con la cresta o senza) pappagalli variopinti, il grido stridulo di un qualche kookaburra. Creature nobili, perché in grado di sfruttare il potere estemporaneo dei venti. Ma ormai prive dell’antica intelligenza, la suprema consapevolezza delle bestie nell’Età dell’Oro ormai trascorsa. “Molto presto, tutto questo sarà mio.” Stringendo attorno il metaforico mantello, quindi, Egli rallentò il silenzioso battito delle sue ali. E con un tonfo lieve, toccò il marciapiede sottostante, tra l’indifferenza generale. Di sicuro, era meglio non dare nell’occhio. Mentre si apprestava a fare colazione, presso il più vicino cassonetto.
Il mondo cambia e quando cambia, è tutta una questione di capacità di adattamento. Non è facile però riuscirci, fra tutti i possibili traguardi, è quello che permette di raggiungere uno stato di grazia sufficiente addirittura a prosperare. Chiedete pure, se rimane qualche dubbio, agli abitanti del più nuovo continente, i cui ambienti urbani sono in genere un pulito esempio di educazione e civiltà. Tranne quando proprio lì è passato, poche ore prima, un esponente della specie Threskiornis molucca, l’uccello noto a molti con il nome breve di ibis bianco. Benché il becco e il resto della testa glabra siano neri, come le piume della coda e le lunghe zampe scagliose, mentre la pelle sotto le ali risulta di un riconoscibile color rosato. Che diventa rosso porpora, nella stagione degli amori. Alto fino a 75 cm, e pesante anche due chili e mezzo, una creatura di certo non priva di una sua latente maestosità. Tanto che in effetti, non saremmo in pochi ad esclamare: “Magari, anche qui da noi…” No. No, non fatelo. Non completate questa frase: poiché leggenda vuole, che al terzo richiamo consecutivo, Toth si manifesti nella luce della Luna che si emana dallo specchio acquatico del lago più vicino. Subito seguìto dall’inarrestabile genìa. E non c’è niente, di più terribile, che un eccesso dell’uccello simbolo della magia. Poiché questi, guidato dal suo istinto di frugar tra il fango con il lungo becco, sensibile e ricurvo, in assenza di paludi si è industriato nel trovare una risorsa nuova. E benché sia ancora sacro, così come lo era per gli egizi che usavano mummificarlo assieme al faraone, non c’è nulla che sia sacro PER LUI. Chiassoso e maleodorante, quest’ultima caratteristica non soltanto dovuta alla sue attività di ladrocinio, ma anche una prerogativa innata della specie, per ragioni evolutive poco chiare, l’ibis bianco è solito creare il proprio nido sulle palme a lato della strada, o tutto ciò che gli riesce di trovare di alto ed isolato, come il tipico lampione suburbano. E da quel momento, sono guai per i vicini: perché non c’è nulla di più rumoroso, e infastidente, che un numero variabile tra 1 e 5 pulcini di questo uccello, che chiamano costantemente i loro genitori usando un suono gutturale e ripetuto, inframezzato da striduli gridi penetranti. Ma quel che è peggio, perennemente sporco, sulla candida livrea che lo caratterizza, di sostanze indefinibili e nerastre.
Lasciate che lo dica chiaramente, dunque: non siamo innanzi ad un volatile particolarmente amato. Anzi, tutt’altro: i soprannomi dati all’ibis dai nativi di questi luoghi variano tra il “pollo della spazzatura” al “tacchino dei cassonetti” e non pochi provano un disgusto immediato alla sua semplice vista. Benché si tratti, visto da lontano, di un uccello piuttosto bello ed aggraziato, soprattutto quando vola in formazione coi suoi simili, creando grandi V nel cielo. Accompagnato da un sentimento che varia tra l’indifferenza e la pacata ostilità, come esemplificato dall’ormai famoso video di Matt Eastwood & David Johns, intitolato “Bin Chicken” in cui la voce fuoricampo del loro amico Rupert Degas, imitando alla perfezione quella del solito naturalista inglese Sir Sir David Attenborough, ne offre una descrizione piuttosto completa sul modello della serie di documentari Planet Earth, nonché apocalittica nel suo messaggio finale: “Quando noi saremo tutti morti, esso continuerà a fagocitare i rimasugli della civilizzazione.” Afferma con enfasi fin troppo seria. “E questo sarà noto, per l’eternità, come il pianeta Bin Chicken.”
Non fu sempre così. C’è stato un tempo, in cui le coltivazioni create grazie al limo dell’interminabile Nilo che da la vita, venivano visitate in un frullar d’ali da una tale sagoma riconoscibile, con le lunghe zampe e le ampie ali. Allora, quando l’uomo viveva in un’armonia maggiore con la natura, l’ibis sacro era una vista particolarmente apprezzata, che rimuoveva col suo becco i parassiti e piccoli crostacei senza neanche la necessità di vederli, ossigenando e concimando i campi nello stesso tempo. Poi, col trascorrere del tempo, questo ruolo andò perduto e la cultura dominante successiva, nell’area temperata del Mediterraneo, gli cambiò nome: l’uccello di Ermes, diventò questo essere volante alla costante ricerca di cibo, visto come una presenza intramontabile e talvolta, imperscrutabilmente perversa. Ma nulla avrebbe preparato, gli antichi popoli, al rapporto del prolifico pennuto australiano con la spazzatura. In nessun altro luogo al mondo, del resto, la convivenza dell’umanità con l’ibis è tanto complessa e problematica come in quel paese. Negli Stati Uniti, dove esiste un’ampia popolazione Eudocimus albus, dal piumaggio completamente bianco e il becco arancione, simili esseri occupano piuttosto placidamente le loro nicchie ecologiche avìte, senza spingersi con eccessiva insistenza all’interno dei centri abitati. Mentre l’Eudocimus ruber di Trinidad e Tobago, dal piumaggio rosa come un mini-fenicottero in funzione della sua dieta, è addirittura amato soprattutto dai turisti, quando giunge sulle isole nei suoi gruppi di fino a 100 esemplari, per colorare le spiagge con la sua presenza. Alla nascita, i loro pulcini sono quanto di più grazioso sia possibile immaginare, con un batuffolo di piume che li ricopre completamente, testa inclusa. Poi, restano calvi. Uccelli nazionali, simboli di scuole, squadre sportive… Tutti gli altri ibis del mondo sembrano aver mantenuto un ruolo positivo ai margini di quello che un tempo avevano occupato per prerogativa innata. Che cosa ha condizionato, dunque, la loro inspiegabile trasformazione in Oceania?
Gli studiosi fanno risalire l’inizio della fine, convenzionalmente, ad un particolare evento degli anni ’70, quando l’intera area di Wollogong, Sydney, Perth e la Golden Coast fu colpita da una grave siccità. Prima di allora, la vista di questi uccelli era molto rara nelle città, ma la situazione sarebbe cambiata in una sola, fatale generazione. Con un’altro evento climatico del 1998, la popolazione invasiva aumentò ancora, mentre quella complessiva degli uccelli continuava a diminuire. L’ibis bianco quindi, benché considerato come specie non a rischio d’estinzione dallo IUCN a causa del gran numero di coppie fertili e l’alto grado di proliferazione, appare in bilico sul filo del rasoio dell’ecologia. E nessuno può davvero prevedere quale potrà essere il suo fato negli anni a venire.
L’ibis è sotto molti punti di vista, una creatura perfettamente adattata a sopravvivere mangiando la spazzatura. Sufficientemente agile e forte da resistere all’assalto dei gatti, così come in grado di scacciare qualsiasi altro volatile competitivo nel suo ambiente. Dotato di un sistema immunitario sufficientemente forte da resistere a qualsiasi malattia, e una pelle immune alle infezioni. Volatore instancabile, potenziale guerriero dei cieli e delle Badlands, gli speculativi territori post-catastrofici che resteranno dopo il crollo della nostra civiltà. Una visione forse esageratamente pessimistica, questa promossa dall’esauriente per quanto breve documentario “Bin Chicken” che tuttavia pare trovar riscontro nell’immediato ed altrettanto prevedibile futuro. Semi-sepolti dai residui del consumismo, condizionati a seguito del progressivo esaurimento delle risorse energetiche planetarie, molto presto non potremo fare altro che rivolgerci di nuovo a Toth. Nella speranza che Egli, sollevando la verga magica che lo accompagna in ogni situazione, spalanchi per noi un passaggio verso l’astro dove alberga, la Luna sospesa in cielo.
Ma sappiate questo, costruttori, scribi e faraoni: lassù non vige la regola del cassonetto chiuso-a-chiave. E tutto ciò che produrrete, sarà solamente suo. Un piccolo prezzo da pagare, per poter lasciare ai posteri altri due millenni di Storia…