Quando si osservano le caratteristiche del corpo umano, è impossibile non notare una certa affinità con l’ambiente subacqueo. Certo, i nostri occhi vedono piuttosto male se inondati. E le alte pressioni producono un’effetto sul contenuto della nostra cavità toracica che definire “stressante” sarebbe alquanto riduttivo. Senza considerare, ovviamente, il piccolo dettaglio del respiro. Ma provate voi ad immaginare le capacità natanti di un qualsiasi altro mammifero di terra, ivi incluse tutti quei primati che sarebbero, almeno in teoria, così eccezionalmente simili a noi… Oppure considerate, di rimando, l’improbabile visione di un delfino che s’inoltra in spiaggia. Non esiste, letteralmente, altro essere vivente in grado di trascorrere la vita fuori dall’Oceano qualora lo desideri, nutrendosi al contempo dei suoi abitanti più nascosti dalla luce implacabile del Sole. Verrebbe un po’ da chiedersi, una volta giunti a questo punto: “Qual’è il limite massimo di una persona che trascorra la sua vita in mare?” Quanto può restare senza riemergere, qual’è la massima profondità concessa? Ci sono due serie di risposte possibili, derivanti dagli approcci contrapposti dello sport, e della pura e semplice necessità. Nel primo caso, le cifre in assenza di ausili tecnici sono immediatamente chiare: circa 10 minuti di tempo, qualche decina di metri in profondità. Prestazioni migliorabili con l’assunzione di ossigeno concentrato da una bombola poco prima dell’immersione, o l’impiego di pinne e cinture con pesi annessi. Ma non c’è limite a ciò che può riuscire a fare l’uomo disinvolto all’opera, nel corso della normale quotidianità…
Questo è un pescatore delle Filippine appartenente al popolo semi-nomade dei Sama-Bajau, chiamati a volte gli zingari del mare. Nato e cresciuto, presumibilmente, su una casa-barca di famiglia con scafo multiplo (proa) o singolo (lepa-lepa/sakayan) egli ha iniziato a immergersi praticamente dall’era in cui noi muovevamo i primi passi, come parte dell’educazione che avrebbe fatto di lui, un giorno, un membro produttivo della società. Osservarlo all’opera è assolutamente rivelatorio, in merito agli adattamenti e la capacità operativa dimostrabili nel caso in cui la via sottomarina sia stata trasformata, all’interno di un gruppo sociale, nell’autostrada che conduce alla consapevolezza dell’età adulta. Non c’è in effetti alcuna attrezzatura, per assisterlo nella sua pesca sopra la barriera corallina, fatta eccezione per il fucile con la fiocina ed un paio di occhialini fai-da-te di legno, prodotto dell’artigianato locale, che in effetti non dovrebbero neppure essere usati sotto i 10 metri di profondità, per il potenziale “effetto Garfield” (occhi fuori dalle orbite) indotto dal differenziale di pressione. Eppure lui riesce, senza difficoltà apparente, a raggiungere il fondale marino ad un doppio della distanza ed inizia a camminare, come nulla fosse, sulla superficie frastagliata del corallo. Cos’è il galleggiamento, dopo tutto, se non il prodotto di una particolare fisicità e il contenuto delle nostre cellule, di placidi abitanti della superficie… Mentre costui, senza un filo di grasso superfluo, può affondare come un masso, se soltanto lo desidera. E rallentare i battiti del cuore, mentre i polmoni si riducono ad un terzo della loro dimensione naturale. Tra i Bajau più tradizionalisti, la rottura dei timpani è considerato un rito di passaggio per lo più desiderabile o persino auto-indotto, sperimentando il quale si guadagna l’abilità di immergersi senza più particolari limitazioni. “Si sanguina dal naso e dalle orecchie, si resta sdraiati per una settimana circa a causa delle vertigini” Riporta un articolo del Guardian: “Quindi, il dolore passa per non tornare mai più.” È forse la dimostrazione ultima, e per certi versi sorprendente, di come biologia e cultura siano due lati inseparabili della stessa medaglia, che possono collaborare nel segnare il percorso dell’evoluzione umana. Molto più della comune selezione naturale…
Nell’intera area del Borneo, delle Filippine e dell’Indonesia, la storia dei Bajau è una fiaba particolarmente nota fin dalle più ancestrali generazioni. Si narra infatti di come il popolo rappresenti la diretta discendenza delle guardie di palazzo di un’antica dinastia del territorio di Johor, nel sud della Malesia. Spedite dal sovrano alla ricerca della principessa spazzata via con la sua barca a seguito di un maremoto. O in alternativa, secondo alcune versioni, rapita dal sultano del Brunei. Nelle Filippine, nei dintorni di Zamboanga City, si racconta che il viaggio fosse avvenuto sopra il dorso di una gigantesca manta mitologica, da cui l’etimologia della parola samboangan, il cui significato è palo, o punto d’approdo. E benché, per ovvie ragioni, gli etnologi moderni abbiano rifiutato ciascuna di queste avventurose ipotesi, è indubbio che esista una coesione dello stile di vita e le tradizioni ancora praticate nell’intero popolo, una parte considerevole del quale vive tutt’ora sulle tradizionali flotte di case galleggianti, alla costante ricerca di fondali ricchi di pesci pelagici, perle o cetrioli di mare (trepang) il cui commercio internazionale, in assenza di impianti di allevamento particolarmente avanzati, dipende ancora in larga parte dalla loro attività. Nell’ultimo secolo tuttavia, a seguito della caduta del Sultanato di Sulu nel 1915, principale controparte commerciale dei Bajau, questa popolazione è andata incontro ad un impoverimento progressivo, che ha indotto parte delle nuove generazioni a cambiare stile di vita e andare a lavorare nell’industria del turismo, o come braccia agricole al servizio dell’industria alimentare.
Abbandonando il nomadismo degli antenati senza rinunciare, tuttavia, alla fondamentale vicinanza dei flutti: sono così sorte, sulle coste dell’intera area malese, un certo numero di villaggi stanziali, costruiti mediante l’impiego di palafitte, con abitazioni rigorosamente disconnesse tra di loro e visitabili soltanto effettuando i propri spostamenti in barca. Sostanzialmente delle vere e proprie baraccopoli, benché notevoli ed affascinanti, simili comunità sono prevedibilmente viste con ostilità dagli abitanti locali pre-esistenti, con conseguenti difficoltà nell’osservare le universali norme del buon vicinato. Il fatto che costoro osservino ancora, talvolta, i culti animistici dei loro antenati, in un paese a maggioranza islamica e monoteista, prevedibilmente non aiuta. Ma forse questo attrito è inevitabile, tra popoli tanto diversi, al punto che i Bajau ci appaiono, allo stato dei fatti, più simili a creature dell’Oceano che meri abitatori della superficie.
Come sta avvenendo in buona parte del mondo connesso al sistema della globalizzazione, ampie fasce del popolo Bajau risentono fortemente della concorrenza spietata dei commerci internazionali. Per sopravvivere in un mondo economicamente ostile, dunque, parte di loro sceglie occasionalmente di ricorrere a modalità di pesca tutt’altro che sostenibili, come l’impiego della dinamite o del cianuro, usato per stordire ed avvelenare le creature marine poco prima della cattura. La possibilità di procurarsi un compressore d’aria, per praticare la pericolosa tecnica del palombaro, ha inoltre tentato più di un giovane appartenente alla vasta e variegata tribù. Con la conseguenza, in mancanza di addestramento formale, di spingersi a profondità persino maggiori, rischiando conseguenze nefaste per la salute o la vita stessa, a seguito del sopraggiungere della malattia da decompressione.
Per queste ed altre simili ragioni, l’opera del pescatore mostrato in apertura, che mette in scena l’antica arte di immergersi senza alcun tipo di risorsa artificiale, diventa tanto più importante, poiché dimostra quello che si può arrivare a fare, nonostante le casualità avverse, grazie ai metodi e alla sapienza ereditate dal proprio contesto di provenienza. Sarà sufficiente, tutto questo, a preservare per i posteri i metodi e lo stile dei Bajau? Probabilmente no. Ma sarebbe semplicemente assurdo, non fare il tifo per lui.