Chiunque abbia trascorso più di un paio di mesi su una piattaforma petrolifera con equipaggio ridotto in alto mare, ben conosce i primi sintomi della pazzia. Le giornate che paiono allungarsi all’infinito, mentre il continuo infrangersi delle onde causa il ripetersi di un suono sempre più insistente. L’orizzonte vuoto, del tutto privo di paesaggi se non per lo sbuffo occasionale di qualche balena di passaggio, che pare chiamare colui che osserva, spingerlo a poggiare tutto il peso contro il parapetto. Un braccio in bilico sul vuoto, la mente ormai protesa verso l’Infinito. Finché un giorno, stanchi dopo una lunga giornata d’ispezioni, si torna nell’angusta cabina per dormire. E dopo appena un paio di minuti, con gli occhi già serrati nonostante tutto, si comincia a sognare. Che cosa? Le tenebrose regioni di un grande vuoto, quasi totalmente privo d’illuminazione. Con un senso di gelo attanagliante che penetra le membra, mentre i polmoni avvizziscono e diventano alla stregua di un paio di prugne. Ma il corpo sopravvive, perché hai già le scaglie, e un paio di branchie iniziano a formarsi sui lati del tuo collo. La sagoma distante di un cavo d’ancoraggio rivela la probabile realtà: siamo a molti metri sotto quella casa via da casa, la piattaforma semisommergibile pensata per succhiare il sangue della Terra stessa. Spaparanzato come una stella marina, inizi dunque ad accennare qualche mossa di nuoto. Se non che, la mano destra sente la presenza di qualcosa…Un pezzo… Di stoffa. Morbido e confortevole come la coperta di Linus, quello si avvolge tutto attorno, intrappola le dita. Mentre provi quindi ad agitarti, la stessa cosa avviene a entrame tue gambe. E un velo, fine ma coriaceo, inizia ad appoggiarti sul tuo petto, si avvolge attorno alla testa, spiraleggia fino all’altra spalla. Il quarto pezzo, a quel punto, giunge per coprirti gli occhi. Ma prima che possa compiere il suo scopo, qualcosa di piccolo e veloce fluttua nel campo visivo. Lo sguardo brillante, la bocca aperta, i denti sottili ed affilati. Se non fosse impossibile, sareste pronti a giurarci: quel dannato pesce vi ha sorriso. Poi, tutto diventa pura ed assoluta oscurità.
Come vi fa sentire, tutto questo? Ansiosi, preoccupati? Increduli, infastiditi? In realtà, non dovreste provare nulla di tutto questo. In primo luogo, perché la carnivora Stygiomedusa Gigantea vive tra i 900 ed i 1800 metri di profondità, dove se mai doveste finire senza un solido sommergibile assemblato tutto attorno, assai probabilmente, avreste qualche problema ad impedire che l’enorme pressione comprima i vostri organi e il sistema nervoso, con conseguenze già di per se letali. E poi perché non c’è nulla, in questo placido animale, che possa effettivamente nuocere a un umano, neppure i pungenti nematocisti, le cellule latrici di tossine, che fanno parte del corredo dei suoi simili di superficie. Già, animale. Perché è di questo che si tratta. Benché sembri più una pianta, o ancora, un cumulo di spazzatura tutta attorcigliata attorno a un disco centrale largo fino a un metro, perfettamente simmetrico e dotato di una bocca enorme. Perché dovete sapere che questo essere non ha i tentacoli, come qualsiasi altro appartenente alla sua categoria di invertebrati fluttuanti, bensì quattro braccia boccali, sostanzialmente le sue labbra lunghe fino a 10 metri, con la forma piatta di altrettanti lunghi nastri sinuosi. Che esso impiega, durante le sue peregrinazioni misteriose, per avvolgersi attorno alle prede, impedendogli essenzialmente di fuggire. Affinché la digestione, che inizia grazie ai fluidi trasportati dalle braccia stesse, possa prendere il suo corso necessario alla sopravvivenza. Il tutto colorato di un vermiglio scuro, perché notoriamente la luce rossa non si propaga bene attraverso l’acqua, fornendo una sorta di mimetizzazione ambientale valida a tendere i suoi agguati. Ma sappiate che la Stygiomedusa non fagocita qualsiasi cosa si agiti ed abbia le pinne. In quanto essa si è trovata, oppure ha scelto, la costante ombra di un simpatico compagno: lo hanno osservato capitare gli scienziati, in alcune delle poco più di 100 volte in cui questa creatura è venuta a contatto con gli umani dall’epoca della sua scoperta, circa 120 anni fa. Si tratta di un pesciolino simbiotico appartenente al genus degli Ophidiiformes, noto con il nome comune di brotula marina. Il cui ruolo, nell’intero schema delle cose, non è formalmente chiaro. Benché si ritenga che riesca in qualche modo a sottrarre gli scampoli di cibo dalle lunghe braccia della sua padrona. Mentre la medusa, priva cervello, occhi ed organi, fatta eccezione per la singola gonade centrale, continua lentamente ad avvolgersi attorno a qualunque cosa possa capitargli a tiro. Ora mi direte che non avete mai sentito parlare di una simile mostruosità. Non c’è davvero nulla da meravigliarsi, in tutto ciò…
Nota: il primo video, girato dai ricercatori del Monterey Acquarium e pubblicato in occasione di un Halloween di qualche tempo fa, è l’unico liberamente disponibile in cui la medusa venga mostrata da vicino. Nella maggior parte dei casi, gli avvistamenti risultano riprese accidentali, in cui l’animale appare confuso ed indistinto come lo Yeti o l’UFO tipico delle campagne americane.
Nella storia dello studio della biologia, questo è un dato di fatto, sono sempre esistite creature di serie A ed altre ritenute, a torto o a ragione, di serie B. Il problema della Stygiomedusa, e di tutta la famiglia Ulmaridae a cui essa appartiene, è che fu scoperta troppo presto di alcuni anni, e dalla persona sbagliata. Di certo avrete presente, a cavallo del 1900, la serie di avventurose spedizioni organizzate dai maggiori potentati del pianeta, per poter dire di essere i primi ad aver piantato le proprie bandiere presso il Polo Sud. La più celebre, probabilmente, resta quella del capitano Robert Falcon Scott, alla guida della nave inglese SS Discovery, che avrebbe portato tra il 1901 e il 1904 all’apertura di svariate rotte marittime, oltre alla classificazione d’innumerevoli specie animali. Per gli storici, non c’è alcun dubbio: fu proprio quello il momento storico in cui l’Antartide apparve per la prima volta come un luogo visitabile, ricolmo di tesori scientifici e magari, chi può dirlo, addirittura esistenziali. Ben pochi, invece, ricordano con comparabile entusiasmo l’altra visita di una nave inglese pochi anni prima presso le regioni del remoto freddo, a bordo della SS Southern Cross partita il 1898 e sotto la guida del mezzo-inglese, mezzo-norvegese Carsten Borchgrevink. La cui impresa ebbe, fin da subito, diversi problemi innanzi all’opinione pubblica: intanto perché era finanziata da un privato, il magnate dell’editoria Sir George Newnes, senza l’autorizzazione o l’appoggio dei rappresentanti del popolo inglese. Motivo per cui, in aggiunta alla nazionalità del comandante, l’impresa fu sempre vista come britannica soltanto di nome, e indegna di coronare le lunghe decadi di seria scienza portata avanti con il beneplacito dell’ormai veterana regina Vittoria. Il fatto che il viaggio sarebbe andato incontro a numerosi problemi d’organizzazione, condizioni climatiche avverse ed una generale mancanza di disciplina, si dice proprio per l’inappropriatezza dello stesso Borchgrevink, non avrebbe certamente aiutato. Ma il viaggio servi almeno ad una cosa: riportare a bordo, con l’impiego di una rete a strascico, il primo esemplare mai visto da un umano di una misteriosa ed enorme medusa Ulmaridae. Non credo serva, a questo punto, che vi dica il nome o descriva l’aspetto, nevvero?
Di questo fatto parla approfonditamente E. Ray Lankester, addetto alla classificazione dei campioni biologici del British Museum, nel suo resoconto testuale del 1908 sugli esiti della Grande Spedizione nazionale ritornata in patria soltanto 5 anni prima, come una sorta di postilla finale ed una sorta di ripensamento a conclusione del testo. “E poi c’è l’imponente medusa che aveva riportato in patria la squadra scientifica di Borchgrevink. Ricordo chiaramente quando fu estratto il contenuto dell’enorme vaso di formalina giunto con le casse di campioni spediti presso il nostro museo. Il suo contenuto parzialmente rovinato appariva ricoperto di una sorta di ruggine rossastra e fu estremamente difficile, in un primo momento, trovare una categoria in cui fosse possibile classificarlo…” Segue precisa descrizione, ed un timido tentativo di denominare il misterioso Leviatano con l’appellativo di Diplumaris.
A questo punto sarebbe bello lanciarsi in un’approfondita descrizione delle abitudini e caratteristiche di una simile incredibile creatura, ma la realtà è che non sappiamo praticamente nulla del suo ciclo vitale. Ignoriamo se sia intelligente come una cubomedusa, oppure si lasci trasportare dalla corrente in maniera passiva, come una caravella portoghese. Non sappiamo in che modo riesca a trovare il partner per l’accoppiamento, ne se in effetti abbia BISOGNO di farlo per riprodursi, e neppure come faccia per ghermire la preda. Soltanto di recente siamo riusciti, in un paio di fortuite occasioni, a vederne un’esemplare in vita, grazie all’impiego dei mezzi a controllo remoto con telecamera impiegati da stazioni di ricerca o compagnie petrolifere.
Dei poco più di 100 avvistamenti registrati di Stygiomedusa dal momento della sua prima scoperta da parte della spedizione Southern Cross, se ne sono verificati in tutti i mari della Terra tranne l’Artico, dove tuttavia è ragionevole ritenere che simili creature possano pur sempre albergare, in attesa che qualcuno le scopra. Fingendosi…Adeguatamente sorpreso, mi raccomando. Con le risorse che investiamo, nonostante tutto, nella preparazione dei futuri e sempre più imminenti viaggi interplanetari, sarebbe alquanto deludente far capire che gli alieni, fin dall’albore dei tempi, li abbiamo sempre avuti accanto a noi. Senza neanche la necessità di aprire gli occhi, per sognare.