Si tratta di un video indubbiamente misterioso, dall’immagine disturbata di una vecchia VHS, che appare e poi scompare periodicamente da YouTube, seguendo una sorta di occulto ciclo stagionale. Qualche volta, è presente un commento audio che permette di contestualizzarlo. In altri casi, invece, no. In esso compaiono una coppia di giapponesi, lui vestito in giacca e cravatta, lei con un kimono rosa, in piedi sopra un palco dinnanzi ad un pubblico rapito, assieme ad alcune piante grasse dall’aspetto totalmente ordinario. Dopo una breve spiegazione di quello che sta per accadere, quindi, l’uomo si fa da parte, mentre lei si avvicina con fare determinato ad uno dei piccoli arbusti. Il campo dell’inquadratura si allarga, ed a quel punto si nota qualcosa di decisamente insolito: al cactus è stato attaccato un filo elettrico, che ricadendo a terra, corre fino ad una macchina dalla funzione misteriosa. La donna, a quel punto, inizia a parlare nella sua lingua quasi musicale alla pianta, mimando il gesto di accarezzarla. In un primo momento, non succede nulla. Quindi all’improvviso, si ode il sibilo di un calabrone, oppure… Il trillo lamentoso di un theremin? Che aumenta, e aumenta ancora d’intensità, finché appare pienamente evidente che esso non può derivare da un semplice insetto volatore, né dallo strumento musicale di un concertista russo. “Ka…” fa a questo punto l’improbabile conduttrice dell’esperimento: “Ka, Ki, Ku…” e al completarsi di ciascun suono, le prime tre del sillabario hiragana, il ronzio ambientale cala bruscamente d’intensità. Quindi riecheggia, ancora più forte di prima. In breve tempo appare orribilmente chiaro: esso rappresenta la voce della pianta. Questo stolido ed immoto cactus, sta imparando l’alfabeto.
Gli anni ’70 furono un’epoca di sincretismi. Quando le prime avvisaglie delle moderne tecnologie informatiche e di comunicazione si trovavano agli albori, e nasceva la generazione di un nuovo tipo di capitalisti, non più dediti al puro e semplice guadagno, bensì alla ricerca di un qualche nuovo tipo di realizzazione personale. Spirituale? Si, talvolta. Così mentre in California, nell’assolata Santa Clara Valley fuori San Francisco un giovane Steve Jobs leggeva Shakespeare tra volute di marijuana, preparandosi al suo primo viaggio formativo in India, dall’altra parte del globo un imprenditore già affermato stabiliva un diverso tipo di rapporto con le piante. Il Dr. Ken Hashimoto era l’amministratore della Fuji Electric (da non confondere con la Fujifilm) importante compagnia di Tokyo fornitrice di apparecchiature industriali, strumentazione energetica e frigoriferi. Ma anche e soprattutto, l’inventore di un particolare nuovo tipo di poligrafo, ovvero macchina della verità, sufficientemente accurato da essere considerato probante nei processi del suo paese. Il quale funzionava, per la prima volta, senza l’impiego di complesse soluzioni per la misurazione della pressione sanguigna e il carico elettrico d’impedenza della pelle umana. Bensì semplicemente traducendo le inflessioni della voce in un grafico simile a un elettroencefalogramma, che permetteva ai poliziotti, anche senza una preparazione pregressa nel campo, di effettuare un primo interrogatorio del sospetto, sfruttando l’assistenza di un dispositivo in grado di gettare luce sulla sua sincerità. Stiamo dunque parlando di un uomo fortemente stimato nella sua società, la cui vita professionale appariva realizzata sotto ogni punto di vista. Tranne quello, forse, più importante per lui: non era ancora riuscito a conversare con coloro che erano più importanti per lui. Hashimoto, la cui moglie era un’assidua giardiniera e studiosa di botanica, condivideva infatti ormai da anni la sua passione per la fotosintesi clorofilliana e tutto ciò che ne riusciva a derivare, al punto che, ampliato il suo campo d’interessi all’ambito della filosofia, aveva teorizzato per iscritto che gli esseri vegetali potessero provare sentimenti, avere un qualche tipo d’anima e comprendere le più profonde verità del mondo. Lavorando insieme, dunque, i due posero le basi della domanda che probabilmente, fu proprio lei a rivolgergli: “Caro, e se attaccassimo il poligrafo alla pianta, invertendo il tuo sistema di misurazione della voce? Cosa pensi che succederebbe?”
Nota: il video iniziale è tratto dal documentario “The Secret Life of Plants” prodotto a partire dall’omonimo libro del 1973 di Peter Tompkins and Cristopher Bird, commentato all’epoca nella recensione del New York Times con la chiara conclusione: “Tutto molto interessante. Se vero.”
Il concetto in se e per se non era affatto nuovo. Il primo scienziato a teorizzare che fosse possibile stabilire un qualche tipo di contatto umano-vegetale era stato il bengalese Jagadish Chandra Bose (di nuovo, da non confondere con il fondatore dell’omonima compagnia audio) nato nel 1858 a Munshiganj, vero e proprio polimata di stampo rinascimentale, dedito ad ogni campo delle scienze, tra cui l’ottica, la fisica, la biologia e l’archeologia. Nonché autore letterario e primo interprete, tra le altre cose, del genere della fantascienza nell’India sottoposta al dominio inglese. A Bose, che proveniva da famiglia particolarmente agiata e un padre magistrato, fu tuttavia permesso in gioventù di frequentare la scuola popolare a Calcutta, dove ebbe modo di condividere l’esperienza con i figli dei pescatori e degli agricoltori, appartenenti a caste ipoteticamente inferiori. In seguito, egli avrebbe tenuto in alta considerazione questa possibilità, che gli permise di rimuovere completamente dalla sua personalità la concezione che potessero esistere degli esseri viventi in qualche maniera privi dei suoi stessi diritti, ed immeritevoli di essere considerati tali. In seguito, secondo l’usanza delle famiglie particolarmente agiate di quel particolare contesto storico, sarebbe stato inviato a studiare a Cambridge, dove avrebbe conosciuto e partecipato alle lezioni di niente meno che Charles Darwin.
Ritornato negli anni ’70 del XIX secolo nel suo paese d’origine, egli avrebbe quindi contribuito a numerosi campi di studio con le sue innovative invenzioni, inclusa per l’appunto la botanica. Lo strumento che egli aveva concepito fu immediatamente rivoluzionario, e risulta tutt’ora usato in particolari branche di tale ambito di studio: esso viene definito, in lingua inglese, crescograph e permetteva di misurare la crescita dei rami o le radici di una pianta con precisione ipotetica di fino a un milionesimo di pollice, grazie all’impiego di una serie di fili collegati a degli ingranaggi, la cui rotazione veniva attentamente annotata nel corso dell’esperimento. Tramite l’impiego del dispositivo, lo scienziato riuscì quindi a misurare l’effetto avuto sul benessere della pianta da una vasta serie di stimoli ambientali, tra cui la temperatura, il gas, l’elettricità. Ed altri di tipo meno convenzionali, quali la musica, il senso di minaccia, essere coinvolte come parte di una conversazione. Oggi simili ricerche vengono considerate alla base di un rinnovato, e più responsabile modo di considerare le forme vegetali di questo pianeta. Ma sarebbe stato un suo collega americano, soltanto un secolo dopo, a portare questo ambito di ricerca alle sue più estreme conseguenze.
Grover Cleveland “Cleve” Backster, Jr. era stato, a partire dal 1960, il capo della divisione interrogatori della CIA statunitense, nonché stimato insegnante nella relativa scuola di San Diego, California. Egli viene tuttavia ricordato oggi sopratutto per una serie di esperimenti di botanica che potrebbero costituire, a tutti gli effetti, l’ispirazione diretta per quelli condotti in Giappone da Mr. e Mrs. Hashimoto. Egli fu infatti il primo a notare, forse per puro caso o per scommessa, che collegando una macchina della verità a un vegetale si poteva registrare un grafico, sostanzialmente non così diverso da quello degli umani. Ciò perché qualsiasi organismo vivente possiede un carico ionizzato, che inevitabilmente si sposta da una cellula all’altra al verificarsi di un qualsivoglia tipo di sollecitazioni, generando l’elettricità. Dipende dunque unicamente dallo scienziato, riuscire a trovare il modo giusto di causare tali eventi, attribuendogli il ruolo di un’avvenuta comunicazione. A questo punto a Backster, che era un criminologo per chiara inclinazione personale, venne in mente una particolare procedura, o “storia” se vogliamo, che gli avrebbe necessariamente permesso di verificare le sue teorie. Un’essere vegetale avrebbe mai potuto testimoniare in tribunale? Ad un gruppo di suoi collaboratori, dunque, vennero distribuiti una serie di biglietti, soltanto uno dei quali recava la scritta “Kill” (uccidi). A ciascuno di essi venne quindi permesso di passare del tempo in solitudine in una stanza, in cui si trovavano due piante esattamente uguali. Colui che aveva ricevuto la metaforica pagliuzza corta, dunque, avrebbe dovuto ucciderne una, nel più brutale modo immaginabile, strappandone le foglie, facendola a pezzi con un’ascia e lasciando ciò che rimaneva lì, dinanzi alla compagna di vita. Nessuno, tuttavia, avrebbe conosciuto il volto del colpevole. Se non che… Nel corso della sua investigazione Backster fece quindi entrare i sospetti uno per volta, di fronte alla pianta superstite, che era stata nel frattempo collegata al poligrafo. Per ciascuno di essi, non ci fu alcun tipo di reazione. Il grafico continuava imperterrito nelle sue oscillazioni. Finché non entro il colpevole. A quel punto, si verificò un picco: la pianta era sostanzialmente “svenuta” o in altri termini, stava effettivamente trattenendo il fiato.
Gli Hashimoto, dopo alcuni esperimenti falliti con un imponente saguaro importato direttamente dai deserti della California, scoprirono che il cactus che reagiva meglio allo speciale poligrafo vocale era quello già presente in casa loro, il preferito della moglie e fatto oggetto, da anni, delle più amorevoli attenzioni. In breve tempo, i coniugi si convinsero che questi gli stava effettivamente rivolgendo la parola, ed abbandonato temporaneamente il controllo della Fuji Electric da parte di lui, i due iniziarono a portarlo in un tour di conferenze per il Giappone. Di fronte a un pubblico estasiato, il cactus declamava l’alfabeto a suo modo, e si dimostrava addirittura in grado di contare. “Quanti sono questi?” Faceva la Hashimoto, alzando quattro dita di fronte al cactus. “Bzzt, bzzt, bzzt, bzzt.” Rispondeva sibilando lui, tra l’assoluto stupore generale.
Guardando indietro a questa lunga epoca di studi, oggi messi in secondo piano e quasi dati per scontati, verrebbe quindi da chiedersi perché la vita abbia continuato nello stesso modo. Se le piante potessero davvero parlarci, dove sarebbe il mare di Segreti, sulla verità dell’universo e la natura stessa, sull’arte ormai perduta degli antichi druidi, sul passato ed il futuro stesso di questo azzurro e sperduto pianeta… Il problema, fondamentalmente, è questo: nessuna pianta è dotata di un cervello, capacità di pensiero ed alcun tipo di organo sensoriale collegato alla coscienza. Riconoscergli la capacità di comunicare, dunque, comporterebbe l’accettazione di un qualcosa di ancor più grande e significativo: l’esistenza di un’anima incorporea, comune a tutti gli esseri viventi, che ci rende sostanzialmente del tutto simili a loro. E io non credo che siamo davvero pronti a farlo. Né lo saremo per ancora molti anni a venire. Peccato. Forse lo eravamo stati, un tempo.