Chiudi gli occhi… “Roteante sopra un piatto incandescente, la padella gigantesca di uno di quei banchi mobili che spopolano nella più grande città di Pechino. Gialla come l’uovo, morbida per la farina, ricoperta dei sapori e dei colori di un’assortimento di spezie, di erbe ed altri condimenti scelti a piacere. Il mio nome Jianbing, Beijin Jianbing. Non vorresti forse assaporarmi, proprio ora?” Adesso… Aprili! Un altro giorno, un altro giro, un’altra mattinata di profondo studio, raccoglimento e meditazione, nella complicata compilazione dei dati di vendita della Sheng Industries Import-Export Evil Megacorp (SIIEEM). Il foglio Excel che muta e si trasforma, ripiegandosi sopra se stesso come l’iperspazio, mentre i numeri cessano di avere un qualsivoglia tipo di significato. Mentre la conclusione del lavoro, necessariamente, diventa l’obiettivo più importante. Le luci paiono offuscarsi, una lontana musica rimbomba nelle orecchie; la piccola Ye, stanca ma giammai sconfitta, inserisce la sua formula, produce la statistica, incolonna i risultati. Quando sei nel top management, pensa un’altra volta, tutto questo dovrà pur servire a qualcosa. Poiché costituisce parte di una melodia più estesa. Ma per gli umili soldati della prima linea, chini sulla scrivania di pino della più totale perdizione? Ogni cifra, una graffetta, un elastico, la testa d’invisibili puntine. E le persone, coltellini svizzeri pagati per dire di comprendere l’incomprensibile, o assumere in se il ruolo di coloro che capiscono, senza esserne effettivamente connotati. Finché un giorno, la mente appesantita non elabora un pensiero: “Loro” sapevano chi stavano assumendo. “Loro” sapevano che sono creativa, scoppiettante, umile nel lavoro di squadra, socievole d’inclinazione, con grande capacità di adattamento, rispettosa degli altrui gradi d’autonomia. Era tutto lì, scritto in nero su bianco. Perché mai, dunque, hanno voluto privarmi della mia realizzazione? Io che ho sempre sognato di essere una cuoca, oppure ancora meglio, una diva internazionale con successo comprovato nell’arte sublime del mukbang! (mostrarsi online mangiando, nello stile degli streamer coreani). Con un moto vorticoso dei lunghi capelli, ella si alza in piedi ed apre lievemente la sua bocca, in un grido silenzioso che per sua fortuna, non si espleta in misura percettibile dal capo del dipartimento. I colleghi, totalmente immersi negli schermi loro attribuiti, non si voltano neppure a guardarla. Se questo fosse stato un film del nostrano Fantozzi, prodotto di un epoca ed un etica lavorativa d’altri tempi, sarebbe stato questo il punto in cui la piccola Ye avrebbe ricordato le aspettative familiari, la splendida figlia, il marito semplice e devoto. Sedendosi di nuovo a compilare. Ma nell’era dei millennials, che non hanno avuto nulla, tranne quello che si sono conquistati con i denti e l’auto-abnegazione personale, ogni presumibile sacralità del posto di lavoro, qualsiasi mistero della preziosissima poltrona, è stato necessariamente rimpiazzato dalla capacità di esprimere se stessi in ogni situazione. Chiamatela pure, se ne avete voglia, espressione stachanovista della psicanalisi di Sigmund Freud.
È sull’onda di questo che la nostra Ye, non più tanto “piccola” nella visione generale delle cose, apre i cordoni della borsa e tira fuori ciò che aveva preparato fin da casa: gli ingredienti per la più perfetta frittatona di metà giornata, energizzante quanto un pasto preparato dalla nonna fra le stanze di un’infanzia ormai remota. Ma prima di procedere, un problema: “Come cuocio tutto questo…Come…Come…” Ah, per tutti e sette le Divinità della Fortuna. Proprio sotto alla mia scrivania c’è tutto il necessario: forno, padella e pure il fuoco. Devo sbrigarmi: presto arriva il mezzogiorno. Il computer viene spento, poi smontato. In ogni parte tranne l’alimentatore, che troverà posto accanto al case, ormai del tutto vuoto. Una rapida serie di gesti, e la staccionata della decorazione in legno da scrivania (aiuola per i fiori) si trasforma in legna da ardere, all’interno di una pratica ciotola metallica, nella quale trova posto solamente una candela. Dopo tutto, bisognava fare spazio per le operazioni. Il tutto trova posto, viene acceso, inizia la cottura, alimentata dalla stessa ventola del PC, appositamente lasciata in condizioni di funzionare. La collega, più impassibile di un accidentale spettatore negli sketch di Mr Bean, continua imperterrita a inserire numeri nel foglio Excel.
Certo, la vita d’ufficio non è tutta rose, fiori ed il raggiungimento dell’auto-realizzazione individuale. Dopo tutto, cosa può fare il singolo, dinnanzi a prassi e metodi più vecchi del concetto di lavoro stesso. Puntuale come le tasse sopraggiunge, dunque, l’invidia. Di una vicina di scrivania che si porta gli spaghetti istantanei nel barattolo e, come la perfetta impiegata che finge di essere, li mangia presso la sua postazione, senza staccare gli occhi neanche per un attimo dalla sua insignificante porzione dei doveri amministrativi aziendali. E quando Ye si avvicina per sentirne almeno l’odore, quella strega si fa da parte, voltandosi di spalle con fare offeso. È l’ora della vendetta, terribile, furioso tempo di rivalsa. Di nuovo spuntano dal nulla gli ingredienti, questa volta di tipo molto più semplice: soltanto acqua e farina; per fare DAVVERO la differenza, tutto quello che serve, qui, è suprema abilità manuale. Una volta costituito l’impasto su un’ampia base di carta da forno (certo, qui non siamo mica degli arraffoni) la prima mansione da assolvere è la creazione di una bambola vudù. Ovviamente. Fedele rappresentazione della collega in questione, infilzata su un paletto in mezzo ai fiori mentre l’originale si è recata momentaneamente alla toilette. Ma il bello comincia ovviamente da qui. Perché una vera aspirante mukbang non può certo accontentarsi di tirare e attorcigliare un mero piatto di yóu miàn, signora mia. Ella necessita, soprattutto in simili impossibili condizioni, di ricreare fedelmente ciò che aveva l’invidiosa controparte, intrecciando all’uncinetto alimentare una fedele approssimazione del tipico panetto disidratato acquistato nei supermarket occidentali come “ramen alla giapponese”. Soltanto in questo caso, fresco e fatto in casa (ah no, in ufficio!)
E per condirlo, questa volta, Ye adotta una soluzione ancora più pratica e funzionale. Assentandosi soltanto per pochi minuti dalla sua scrivania, prende l’ascensore, scende al piano terra e si reca dal negozio antistante alla SIIEEM, dove lavora a quanto pare un suo vecchio amico. Ora, non sto dicendo che una simile attività potrebbe facilmente passare inosservata agli occhi dei suoi più diretti superiori. Ma per un’impiegata modello sotto ogni altro possibile aspetto, piccole concessioni devono pur essere fatte, non è vero? Una frittura attentamente calibrata, l’aggiunta di nuovo fondamentale delle erbe e degli aromi, un ritorno rapido alla sala dove giunge a compimento la magia aziendale dell’Excel. La consumazione, questo punto, diventa un diritto. L’ostentazione ai danni della collega, quasi un dovere.
Ora vi dico, fermatevi. Non proseguite. Andare oltre questo punto, potrebbe cambiare le vostre aspettative su cosa sia effettivamente possibile che accada all’interno di un ufficio cinese. Bene, io vi ho avvisato. Perché alla terza giornata di massima espressione culinaria, alla piccola Ye sembrava essersi accesa una lampadina. Per l’idea rivoluzionaria, persino sovversiva, di prepararsi una splendida sessione di huo guō. Sapete di cosa stiamo parlando? La cosiddetta cucina hot pot, o volendo essere ancor più descrittivi, la leggendaria fonduta cinese. In cui i commensali intingono nella pentola d’acqua bollente insaporita carne, verdure o pesce, a seconda del tema della giornata, per tirarli fuori adeguatamente dorati e possibilmente, ricoperti di polveri a base di peperoncino. Niente, neppure la minaccia di un immediato licenziamento, potrebbe mai offrire una finestra migliore sugli abissi più auto-indulgenti dell’animo umano. La nostra eroina, dunque, requisisce una formidabile apparecchiatura, il distributore d’acqua a quanto pare fornito della funzione di riscaldamento, forse per preparare…Tisane? O persino il tè? Chi può dirlo. Questi cinesi! Disposte sulla scrivania ogni tipo d’immaginabili primizie, ella rimuove l’imbuto ed attiva dunque l’inverter. Impugna le lunghe bacchette ed inizia ad intingere, uno dopo l’altro, i momenti migliori della sua giornata. Tagliatelle, uova, tranci di bestie non meglio identificate, il tocco di un qualcosa di rosato che assomiglia vagamente al patè di fois gras…
Ed alla fine, apoteosi! Un piatto pienamente allestito viene offerto alla collega, che ancora intrappolata dalle aspettative della più rigida cultura lavorativa, non può che accennare un rifiuto, scuotendo vistosamente la mano. Ma si vede che interiormente, soffre le intense, dolorose, ed in qualche modo persino meritate, fiamme ruggenti del Niraya. Il purgatorio buddhista di chi ha accumulato un eccessiva dose di karma negativo. Stranamente, al termine delle operazioni culinarie, per questa volta non viene mostrato il momento in cui Ye pulisce e rimonta il dispositivo, al fine di ripristinare l’immagine della perfetta dipendente che molto evidentemente, incorpora nel suo io da numerose reincarnazioni. Possibile che si trattasse del suo ultimo giorno di lavoro alla SIIEEM? E se davvero è successo quanto stiamo immaginando, bisognerebbe anche chiedersi: “Perché mai?” Ecco qui un’impiegata che dimostra spirito d’iniziativa, capacità tecnica ed una chiara capacità di apprezzare la buona cucina. Fosse dipeso da me, le avrei offerto una promozione: chef addetta al dipartimento IT. Quelli del piano di sotto si, che sono delle ottime forchet…Ehm, bacchette.