Un ronzio insistente udito nelle regioni silenziose della Zona Economica Americana delle isole Samoa, nell’Oceano Pacifico Meridionale. Qualcosa di completamente nuovo, al cospetto della suprema rappresentazione dell’abitudine e la familiarità. Ovvero questo fiore negli abissi, che si agita nella corrente, impegnato nell’attesa perenne della cosa più importante della sua giornata. Cibo svolazzante, minuscolo, fluttuante, sfarfallante e insettile, com’è l’usanza per la sua consimile di superficie, la pianta che Darwin volle definire “la più splendida del mondo”. Un cibo che non ha le ali, in questo caso, né ronza. Ma potrebbe. Come scossa da uno strano brivido, la cosa del fondale si agita da un lato, quindi l’altro. Nuove e imprevedibili correnti la raggiungono agli oltre 2.000 metri della montagna sottomarina, presso cui ha scelto di trascorrere la sua esistenza. Tramite un sommovimento semi-volontario del suo scheletro idrostatico, contenuto fluido del’involucro esterno, l’essere pianta/animale compie un leggiadro movimento, riorientandosi verso la sua prossima preda. Che avvicinandosi diventa grande, sempre più grande, fino a sovrastarlo con l’immane massa rigida e giganteggiante. Quindi un segnale a banda larga si propaga nelle fibre ottiche del cavo, trasportando una parola fin dentro l’impressionante controparte. “Luce” dicono da terra. E luce fu.
Ora, qualsiasi pesce, gambero, granchio, mammifero marino, verme predatore, scoiattolo e cicogna del profondo, a questo punto avrebbe avuto un solo tipo di reazione: fuggire nella remota speranza di aver salva la vita. Ma Actinoscyphia aurelia, altrimenti detta l’anemone acchiappamosche di Venere, non soltanto non conosce la paura, ma non ha occhi, orecchie o altri organi di senso in grado di offrire un quadro effettivo della situazione. È soltanto uno stomaco largo fino a 30 cm, con una pratica apertura che funge da bocca ed ano. Tutto ciò che vuole capire, è che qualcosa “arriva” e quindi spalancare la sua apertura agitando i tentacoli, nella speranza di riuscire a fagocitare quel che non può semplicemente ignorare. O mettere in fuga, grazie all’innato terrore del veleno paralizzante contenuto nel suo corpo all’interno di milioni di minuscoli arpioni, ciò che non potrà fagocitare. Molti metri sopra questa scena, nella nave da esplorazione sottomarina Okeanos della NOAA, l’Ente Americano dell’Amministrazione Oceanica e Atmosferica, un gruppo di scienziati esulta, potendo scarsamente credere ai suoi occhi: “Guardatela, sembra che ci stia…Sfidando?” Presso le coste del vicino centro di ricerca, in una sala di controllo non troppo diversa da quella usata nelle missioni spaziali, l’addetto alla regia sussurra il suo consiglio: “Andate…Andategli più vicino. Il pubblico di Internet impazzirà per questa cosa!” I click aumentano sul sito della spedizione, connesso a svariati canali di Twitter, YouTube ed altri attrezzi similari. Il pilota a bordo spinge avanti la sua leva. Con l’incrementarsi di quel suono roboante, il sommergibile telecomandato Deep Discoverer si muove con la telecamera dinnanzi all’obiettivo. Che si chiude a questo punto come un’ostrica. A quanto pare, qualche cosa da mangiare l’ha trovata.
Questo tipo di cnidaria, phylum di esseri del fanno parte anche le meduse, appartiene al sottogenere dei polipi, che non sono, contrariamente all’opinione comune, quegli esseri con gli otto tentacoli che si aggirano liberamente nel mare. Il termine scientificamente corretto, in quel caso, è polpo. Qui stiamo parlando di creature sessili (ovvero fisse in un solo luogo) che hanno la prerogativa di ancorarsi ad una roccia con il loro piede basale, per poi agire come un ostacolo nella corrente. Per migliaia di microrganismi ogni giorno, che cadono preda della loro inesauribile fame. È una scelta chiara, questa, e funzionale ad uno scopo. Nel calderone delle forme di vita che si agitano nel profondo, scegliere di fare a meno dell’ostilità significa aprirsi ad ogni tipo di abuso del proprio spazio vitale. Ma una mosca non oserà mai sfidare una di queste cose…
La nave Okeanos, precedentemente al servizio della marina degli Stati Uniti, si sta occupando ormai dal 2011 di una serie di spedizioni in tutti gli oceani del mondo, con lo scopo di osservare creature impegnate in atteggiamenti del tutto nuovi ed utili a comprendere il più vicino dei mondi alieni conosciuti dall’uomo: le nostre stesse profondità marine, patria di processi biologici che molto spesso, sfidano la stessa immaginazione. Per quanto concerne gli ultimi tempi, questa spedizione presso le isole Samoa non è che l’ultimo capitolo di una ricca serie di escursioni, che l’estate scorsa hanno portato il vascello, con il suo complesso sistema di telepresenza e collegamento ad Internet satellitare, presso le regioni del Pacifico Occidentale, in prossimità della celebre fossa delle Marianne. Dove gli riuscì di assistere tramite il sottomarino di appoggio, nel mezzo di un migliaio di altre incredibili creature, questa vista particolarmente in linea con la nostra precedente analogia vegetale: l’arbusto ramificato di un rosso intenso, ricoperto dalla serpeggiante forma di una stella marina. E sarebbe certamente perdonato chi, alla vista di una tale giustapposizione, dovesse ritornare con la mente all’albero del peccato originale, abitato dall’insidiosa serpe tentatrice, in questo caso dotata di una straordinaria pluralità di code. Siamo di fronte, dopo tutto, ad un ulteriore metodo brevettato da anni, secoli e millenni di perfezionamento. Non di Venere, ma la Gorgone in persona! La cui versione marittima, piuttosto che una donna mostruosa con capelli dalla lingua biforcuta e saettante, è un echinoderma, o per essere più precisi, la Gorgonocephalus caputmedusae, che condivide con l’anemone di cui sopra una voglia costante di accaparrarsi lo zooplankton e le altre minutissime creature trascinante dalla corrente, ma non dispone dei suoi stessi formidabili adattamenti evolutivi.
E quindi sceglie, senza alcuna esitazione, di salire sopra i rami del corallo bubblegum o Paragorgia arborea, un distante parente del rosato collega (il polipo del corallo dal canto suo, è pur sempre uno cnidaria, esattamente come la A. aurelia) per afferrare da quel luogo privilegiato tutto il possibile, grazie alle pinnule ricoperte di muco sulle sue cinque animate braccia. Che quindi lentamente, inesorabilmente, trasporteranno il delizioso tesoro fino all’artigliata bocca centrale, nascoste tra i rami composti di quella che sembrerebbe a tutti gli effetti essere della… Gomma da masticare? Avete mai visto qualcosa di più terribile di questo? Voi, probabilmente no. Ma se il sottomarino Deep Discoverer potesse parlare, ne avrebbe di storie, in grado di appassionare persino i più consumati marinai, con il cappello, pappagallo, gallinella e tutto il resto…
Già. Di sicuro avrete sentito parlare della gallinella di mare. Quell’appartenente all’ordine degli Scorpeniformes, ovvero (tre le altre cose) gli scorfani, che percorrono i fondali bentonici di mezzo mondo, alla ricerca di una via d’accesso differente a questa pregiata riserva cibaria delle minuscole creature degli abissi: spazzare quel gli riesce, usando i raggi liberi delle pinne pettorali. Ma la famiglia dei Peristeiidae, anche detti pettirossi corazzati di mare (davvero, non sto scherzando!) si notano persino tra di loro, per le numerose spine ossee, le pesanti scaglie simili ad un’armatura e i barbigli sulla mandibola, simili a peduncoli usati per tastare il terreno. Che non sono altro, a conti fatti, che organi in grado di percepire il gusto, finalizzati, come i baffi dei pesci gatti, a scovare il pasto tra innumerevoli granelli d’inutile sabbia dei fondali. Soltanto che il miracolo avviene, in questo caso, nelle più remote profondità del mare. In luoghi come, a quanto ha scoperto la Okeanos Explorer, proprio le Samoa della Zona Economica Americana, dove un esemplare è stato illuminato, l’altro giorno per caso, dai potenti fasci del Deep Discoverer a comando remoto. Per l’ottenimento di una visione niente meno che impressionante, con il pesce della grandezza di appena una trentina di centimetri che diventa, in assenza di punti di riferimento, simile ad un fantastico carro armato. In grado di procedere, rapido e inesorabile, verso l’obiettivo di un altro giorno portato a termine, con colazione, pranzo e persino la cena.
Alberi, fiori, mostri con l’armatura: l’oceano è un scrigno delle analogie, che ci permette di reinterpretare ciò che vediamo ogni giorno con occhi nuovi. Missioni come quella della NOAA Okeanos, o della EV Nautilus al servizio dell’Istituto per la Ricerca del Mar Baltico di Leibniz, offrono un modo particolarmente attraente di presentare la ricerca scientifica, con il potenziale di catturare l’attenzione del pubblico e scoprire migliaia di storie. Non trovate, ad esempio, che l’anemone acchiappamosche, con il suo sottile stelo e l’enorme testa fluttuante, assomigli notevolmente alle piante carnivore di Super Mario? Così tanti aspetti della nostra immaginazione, ronzanti mosche tra i padiglioni auricolari, trovano una forma materiale nelle più recondite profondità del mare. Per scoprirle davvero, tuttavia, non basta il semplice desiderio. Occorre affidarsi ad alcune delle più avanzate ed innovative tecnologie.