Come il pesce pappagallo, che mangia roccia ed espelle corallo

Siamo fatti di polvere di stelle, tu ed io, materia cosmica che splende nell’oscurità. Schegge d’esistenza fuoriuscite dal vortice esplosivo di una supernova: ecco un’immagine che è poesia e al tempo stesso infusa del sottile fascino, così facile da attribuire, che deriva dalle ragioni della pura ed assoluta verità. Eppure vi siete mai soffermati a pensare, tra un limone ed un lambrusco, quale sia effettivamente l’origine di questa sacrosanta “materia”? Nient’altro che lo scarto, ascoltate a me, il rifiuto, di processi ultra-millenari il cui verificarsi è sempre stato, e continuerà ad esserci anche dopo la nostra sempre più imminente distruzione. Siamo il pelo nel poro dell’universo. Ed è proprio questo assioma, fra tutti, a consentirci di capire realmente la vera natura. Perché senza di esso, come potremmo mai spiegare la bellezza delle cose grevi, quali i miliardi di granelli di sabbia che compongono una spiaggia delle Hawaii… Fuoriusciti dal didietro di un pesce! Quel bianco splendido ed ininterrotto, la cui essenza, in fin dei conti, non è altro che una mescolanza di diversi micro-granuli, di origine sia minerale (carbonato di calcio) che biologica (aragonite), Ma se i primi vengono dall’erosione, allora sarà giusto chiedersi, chi o cosa genera il processo che trasforma un mare di corallo in terra emersa, piccole isolette o banchi che si estendono a partire da una costa immota: soltanto lui, o costoro che si dir si voglia, i pesci variopinti con il forte becco, caratteristiche che hanno portato ad associarli, attraverso gli anni, al più famoso uccello parlante della superficie. Che poi sarebbero gli scaridi (scaridae) scientificamente parlando, ma in altri termini le cocorite del mondo sommerso, o ancora, tali e tante sgranocchianti mucche delle occulte profondità.
È una percezione auditiva molto strana, prendendola in analisi al di fuori del contesto: immergersi con pinne ed occhiali in mezzo ad uno degli ambienti più affascinanti del pianeta Terra, magari presso le coste dell’Australia o una delle molte isole nell’Oceano Indiano, dinnanzi alla barriera frutto dell’incessante lavorìo di molti miliardi di minuscoli polipi, soltanto per trovarsi ad ascoltare un’insistente suono, simile a quello di una macchina per fare le granite. “Crunch, crunch, crunch!” Ed a produrlo, sono loro, chi se no? Centinaia di Bolbometopon muricatum da un metro e 45 Kg l’unopesci pappagallo verdi con il bulbo sulla testa, tramite l’impiego del loro particolare dente faringeo, una sorta di becco fuso tutto assieme, in grado di strappare un pezzo di corallo come usando una cesoia delle forze speciali. Mentre altri attrezzi duri dell’evoluzione, posti sul palato dell’animale, si occupano di ridurla in fine polvere, pronta per la digestione “Crunch, crunch, crunch!” Ed a voi viene da pensare che se questa situazione potrà continuare indisturbata, molto presto la barriera corallina sparirà del tutto. Il che, alquanto prevedibilmente, non è del tutto vero: ciò perché la finalità ultima del branco di distruttori, nei fatti, non è divorare ciò che cresce per l’effetto ed il volere di altre creature appartenenti al regno animale, bensì l’alga infestante, che con quest’ultima esistenza non può fare a meno di competere, cercando il predominio del poco spazio ideale a disposizione. Questi pesci sono essenzialmente validi spazzini, oltre che dei giardinieri a tempo perso di alcune delle spiagge più amate dai fotografi di cartoline. La ragione è splendida, ed al tempo stesso, giusto un po’ inquietante. Questi pesci, chiamati dalle popolazioni indigene delle hawaii uhu (un termine che significa becco) non hanno lo stomaco, e tutto ciò che ingoiano, nel giro di qualche minuto attraversa l’intestino e viene espulso in fitte nuvolette di polvere, simili alla scia sfuggente di un aereo a reazione. E quando costruiamo, in determinati luoghi, castelli di sabbia, piste per le biglie o un realistico ritratto a mezzo busto dell’ultimo presidente degli Stati Uniti, è fondamentalmente questo che stiamo impiegando: le deiezioni del pesce pappagallo. “Crunch, crunch!” Ma aspetta un attimo! Le stranezze non finiscono qui.

Dormire felici sotto un lenzuolo di muco, fra i colori del corallo silenzioso. Sognando una serenità impossibile, nella speranza di essere svegliati soltanto dall’arrivo di lei.

Il problema della maggior parte dei pesci appartenenti alla famiglia degli scaridi è che pur essendo considerati vulnerabili dall’indice dello IUCN, il loro effettivo stato di conservazione resta essenzialmente ignoto. Il che ha permesso, in molti paesi, di continuare a praticarne la caccia indiscriminata, per la preparazione di un’ampio ventaglio di piatti tipici presenti sulle tavole in buona parte dei paesi dell’Estremo Oriente. E questo nonostante il pesce sia, in effetti, molto difficile da preparare a causa delle enormi scaglie e dotato di un gusto ed un’aroma particolarmente intensi, che non tutti riescono ad apprezzare. Ma il fatto è che è così… Dannatamente facile da catturare. I pesci pappagallo hanno l’abitudine di addormentarsi molto profondamente, restando del tutto immobili e protetti unicamente da una speciale membrana mucosa, che producono attraverso la propria stessa saliva, in grado di assolvere alla doppia funzione di proteggerli dai parassiti ed agire come una sorta di sistema di allarme, che dovrebbe svegliarli all’avvicinarsi di un predatore. Naturalmente, l’efficacia di un simile sistema viene immediatamente meno, nel momento in cui l’avversario è un umano con un arpione, che colpisce con troppa determinazione perché la vittima abbia il tempo di scappare via.
Questo bisogno di un riposo tanto pericolosamente profondo è probabilmente da ricercarsi nell’alto fabbisogno energetico che richiede lo stile di vita del pesce, unito alla sua inerente necessità di procacciarsi il cibo per circa il 95% del tempo da sveglio, alla ricerca delle poche sostanze nutritive contenute nelle alghe che riesce a separare dalle rocce ed il corallo. L’assenza di uno stomaco, naturalmente, non aiuta, pur essendo anch’essa assolutamente funzionale all’intero piano evolutivo della sua esistenza: qualora il carbonato di calcio presente nei sassi che sgranocchia potesse mescolarsi con un acido digestivo di un qualsivoglia tipo, infatti, esso formerebbe immediatamente diossido di carbonio, facendo gonfiare il pesce come fosse un palloncino. Ed è proprio per questa ragione che uno dei nomi alternativi usati nelle Hawaii per riferirsi al pesce pappagallo femmina vuol dire “intestino breve”.

Con quel sorriso sghembo e un po’ bizzarro, il pesciolino si nasconde dietro ad una roccia da un intero branco dei suoi predatori più temuti: gli squali limone (Negaprion brevirostris) incredibile quanto si possa apprendere a restare immobili, spinti dall’assoluta disperazione.

Un’altra caratteristica senz’altro degna di nota degli scaridi è la loro particolare vita sessuale. La maggior parte delle specie escono dalle uova, deposte in ambiente pelagico come parte del plankton trasportato dalla corrente, in forma di femmine, condizione che manterranno per tutta la prima fase della loro vita, con una colorazione rosso scuro, marrone o grigia. In alcuni tra gli esemplari più grandi quindi, raggiunta l’era della maturità avverranno una serie di mutamenti che li trasformeranno in individui di sesso maschile, tra cui l’adozione di una livrea molto più variopinta, sostanzialmente diversa in ogni singolo esemplare. Vi sono anche specie, come il pesce pappagallo-semaforo (Sparisoma viride) in cui una certa quantità di individui nascono già maschi, mantenendo però una colorazione non direttamente indicativa della loro strana anomalia. Il che gli consente, nel momento dell’accoppiamento, di introdursi abusivamente nell’harem di un pesce più forte, riuscendo lo stesso a trasmettere il proprio patrimonio genetico verso il domani. Esiste una particolare teoria, tra gli studiosi, che ipotizza che l’aumentare progressivo di questa strategia evolutiva tra i pesci pappagallo possa derivare in parte dalla pesca che ne fanno gli umani, generalmente concentrata sugli esemplari più grandi ed attraenti nell’aspetto. Con l’inevitabile effetto di rimuoverli progressivamente dalla schiera dei padri futuri, rimpicciolendo, e rendendo più adattabili i pesci sopravvissuti. Che tuttavia, anche a quel modo, non sono a quel punto fuori dallo stato di pericolo.
Negli ultimi decenni, le barriere coralline di mezzo mondo hanno purtroppo visto l’introduzione accidentale di un certo numero di pesci scorpione (Pterois, famiglia dello stesso sottordine degli scorfani mediterranei) che costituiscono un rischio estremo per la sopravvivenza degli scaridi dal forte becco masticatorio. Poiché non vengono riconosciuti, da questi ultimi, come dei potenziali predatori ed a loro volta, vengono ignorati da tutte le specie carnivore che potrebbero controllarne la popolazione. Ciò, unito alla pesca continuativa da parte delle popolazioni umane limitrofe, ne sta minando fortemente la sopravvivenza, iniziando a mostrarci un futuro in cui non soltanto le barriere coralline saranno del tutto soverchiate dalle alghe, ma noi dovremo fare a meno di una significativa percentuale del nostro tipo di sabbia preferito. Quella DEFECATA da un essere con l’espressione stupida ma felice. Ed a quel punto, niente potrà salvarci. Tranne forse l’esplosione di un’oceanica, minuscola supernova. Ma parliamoci francamente: quante sono le probabilità?

A quanto pare anche il pesce pappagallo azzurro delle Bahamas (Scarus coeruleus) pur nutrendosi normalmente di pietre, riesce ad apprezzare il gusto di un semplice tozzo di pane. Come biasimarlo?

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