Il suono ritmico e penetrante del sonar faceva eco ai pensieri del comandante del sommergibile da guerra americano Defiant, quando la voce dell’addetto ai rilevamenti fece improvvisamente breccia nella sua coscienza: “Signore, c’è qualcosa a dritta. Qualcosa di grosso.” La reazione, da parte dei due più alti di grado, non tardò a manifestarsi. Il primo ufficiale impugnava già il fascicolo di riconoscimento, mentre l’ordine riecheggiò perentoreo: “Mr. Stevens, timone a 25°. Ci porti a 40 piedi di profondità.” La mano destra ad afferrare il periscopio, la sinistra in prossimità del libro tenuto dal suo vice, il comandante si apprestò a scrutare l’orizzonte. Tutti, in cabina, tacquero trattenendo il fiato, nell’attesa che la procedura di pre-ingaggio fosse completata. “Signore, siamo a profondità di combattimento. Devo diminuire la velocità?” Il distante rombo dei motori a diesel era stato sostituito dal silenzio delle batterie. “Un chilometro all’obiettivo” Aggiunse l’uomo del sonar. Senza distrarsi neppure un secondo, l’uomo a cui era stata affidata la sicurezza di questo battello iniziò a scrutare attraverso lo strumento simbolo del suo mestiere. Oltre i flutti più distanti, tra la nebbia che quel giorno aleggiava tutto attorno all’isola del Kyūshū, vide qualcosa di terribile e terrificante. “Signore, di che si tratta?” Fece il primo ufficiale. “È grossa Mark, davvero gigantesca. Saranno almeno…400 metri. Non ho mai visto nulla di simile prima d’ora.” Quindi si fece da parte, facendo cenno all’amico di guardare anche lui di che si stesse parlando. Una volta confermato l’avvistamento, il suo sguardo parlava da solo. “Si tratta della nostra occasione migliore, gente. Di entrare a pieno titolo nella Storia! I Jap hanno costruito un nuovo tipo di corazzata sperimentale, persino più grande della maledetta Yamato varata ad agosto dell’anno scorso, in preparazione del vile attacco a Pearl Harbor. Ma non si sono preoccupati di farla scortare… Capo, prepari i tubi 2, 4 e 6. Quest’oggi gli faremo davvero male.” Come una macchina perfettamente oliata, l’equipaggio del sommergibile eseguì i propri ruoli determinati durante l’addestramento e i 4 affondamenti nemici ottenuti dall’inizio della campagna. Il vascello eseguì una manovra da manuale, il pre-lancio fu completato e le soluzioni di tiro impostate a regola d’arte. Stranamente…La nave nemica non sembrava muoversi in alcun modo. “Meglio così…” Sussurrò l’ufficiale armiere tra se e se. Finché non arrivò il momento della solenne e distruttiva parola: “Fuoco! Fuoco!” Gli ordigni subacquei si lanciarono nella loro folle corsa autodistruttiva verso l’obiettivo, mentre il responsabile di tutto questo tornò al periscopio per seguirne la marcia. Piccoli pennacchi d’acqua, per chi sapeva cosa guardare, rendevano evidente la marcia innanzi dei tre siluri. Era chiaro che nessuno, sul vascello nemico, li aveva ancora avvistati. “30 secondi all’impatto…20…10…3…2…1…IMPATTO!” L’esplosione apparve come un triplo fiore di fuoco sullo schermo del sonar. “Tre colpi a segno, signore!” Attraverso il dispositivo ottico d’osservazione, fu possibile scorgere un pennacchio simile a una lingua di fiamma che percorrevano l’alto scafo del titanico obiettivo. Che non sembrò risentire in alcun modo dei danni subìti. “N-Non è possibile! Esclamò il primo ufficiale, mentre guardava il comandante con sguardo allibito. “Vuole dirmi che questa nave non può essere distrutta…Con metodi convenzionali?!”
È una leggenda che si perde tra i molti aneddoti della seconda guerra mondiale. Nient’altro che uno di quei racconti non verificati, che tuttavia rimbalzano tra una fonte e l’altra per la loro relativa plausibilità e l’indubbio fascino posseduto. La storia secondo cui, verso le prime fasi della guerra del Pacifico, un sommergibile americano avrebbe tentato di silurare l’isola mineraria di Hashima, a largo della città di Nagasaki. Dico del resto, l’avete vista, magari in uno degli ultimi film di James Bond? Il suo muro frangiflutti perimetrale così tanto simile ad uno scafo, i più alti condomini di cemento in grado di creare una sagoma che ricorda quella delle cosiddette torri a pagoda, le strane sovrastrutture delle corazzate nipponiche al tempo dell’epoca Shōwa, quando il mondo sembrava impazzito ed intento a distruggere completamente se stesso. Ha persino una poppa, più larga, ed una prua idrodinamica per spezzare l’impeto dei frequenti tifoni. Se mai un simile errore sia stato effettivamente commesso, questo non è facile dirlo. Ma di sicuro, eventualmente, sarebbe stato giustificato! Soprattutto perché, sapendo effettivamente a che cosa serviva una simile installazione, gli Alleati non avrebbero tardato ad inserirla nell’elenco dei bersagli maggiormente desiderabili, come ingranaggio fondamentale della macchina bellica giapponese. Ha (端) Shima (島) più volgarmente nota come Gunkanjima (軍艦島) l’Isola della Nave da Guerra, era infatti una miniera di carbone, forse la più incredibile nell’intera storia dell’umanità. Costruita poco prima dell’inizio del ‘900 con il denaro e le risorse di Yataro Iwasaki, il diretto discendente dei samurai a capo delle industrie Mitsubishi (si proprio quell’azienda lì) si era trasformata nel trentennio immediatamente successivo in una vera e propria città, mentre la sua modesta estensione veniva massimizzata tramite il trasporto di vaste quantità di terra e ghiaia dalle antistanti terre emerse. La sua popolazione complessiva, a quei tempi, già superava di molto il migliaio, mentre si ponevano le basi della situazione che l’avrebbe resa, verso la fine degli anni ’50, il singolo luogo più sovrappopolato della Terra: 5.259 persone in 16 acri, rigidamente suddivise in caste a seconda dello stato civile e del ruolo: in strette ed anguste camerate, per gli operai single, in piccole case con bagni in comune, per chi aveva famiglia a carico, ed all’interno di veri e propri mini-appartamenti, per quei pochi fortunati che avessero un ruolo gestionale nell’organizzazione dell’impianto. Ma prima che le due terribili atomiche degli americani ponessero fine al sogno imperialista dei Giapponesi, l’isola era ancor più cupa, ed inquietante di così. Poiché vi lavoravano, in condizioni del tutto inconcepibili al giorno d’oggi, le schiere dei prigionieri di guerra coreani e cinesi, trasportati fin qui e costretti a servire i loro signori supremi. Calandosi per 606 metri fino al suolo stesso dell’oceano, armati di piccone, lampada e il più tenue filo della speranza umana.
La questione dell’ammissione di colpa del governo giapponese in merito ai lavoratori forzati di Gunkanjima resta naturalmente, piuttosto controversa. Tanto che in taluni circoli tale dato verrebbe considerato tutt’ora dubbio, se non fosse per la concessione formale di commemorare il fatto data con qualche riserva dai giapponesi, in occasione dell’inclusione dell’isola nei patrimoni dell’UNESCO nel 2015 relativi all’industrializzazione del Giappone a seguito della restaurazione Meiji (1868) quell’evento storico unico al mondo nel corso del quale una società feudale diventò, nel giro di mezza generazione, un paese moderno a tutti gli effetti, con una costituzione, un governo ragionevolmente democratico (in realtà, comandato con pugno di ferro da un gruppo di oligarchi fino al giorno della loro morte) e infrastrutture tecnologiche tranquillamente in grado di concorrere con quanto di meglio possedessero i principali potentati europei. Luoghi come questa miniera di carbone straordinariamente produttiva, e che tale rimase fino agli anni ’60 quando finalmente, superata l’importanza di un simile carburante grazie all’adozione del petrolio, la Mitsubishi diede l’ordine di chiudere l’impianto, offrendo un limitato numero di posti di lavoro altrove. A quel punto la tentacolare città in mezzo al mare, che ormai includeva la scuola, un cinema, svariati bar, 25 negozi, luoghi di culto, una sala da ballo e persino un bordello fu rapidamente abbandonata dai suoi abitanti, offrendo uno sguardo profetico sul futuro di immediata autodistruzione che attende molte delle nostre strutture più utilizzate, non appena noi esseri umani dovessimo perire o spostarci altrove: palazzi usurati dall’aria salmastra, cornicioni piantati verticalmente nel terreno a mo’ di katana, alte mura decrepite e derelitte. Nel piazzale principale, che si trovava tra le abitazioni degli operai e i pozzi verticali verso le profondità dell’Oceano, svettano verso il cielo gli archi di supporto di un antico nastro trasportatore, ormai da tempo rimosso e portato altrove. Ricordano le costole di una carcassa di balena, utilizzate come portali celebrativi da un empia perversione del culto della Natura.
Stando ai ricordi di Dotokō, l’uomo oggi adulto che visse qui a partire dall’età di 8 anni fino al giorno della chiusura, intervistato dal documentarista Nordanstad nel 2002, la vita su Gunkanjima aveva dei ritmi e delle regole totalmente diverse da quelle della terra ferma. C’erano delle alte scale, da lui chiamate “dell’Inferno” che permettevano di raggiungere ogni angolo degli alti palazzi, ormai rimasti senza vetri ed aperti alla furia degli elementi. Esistevano dei semafori, lungo i viali, che indicavano quando il vento era troppo forte per attraversare, poiché le onde salmastre avrebbero risucchiato un corpo umano con la facilità di un chicco di riso nel lavandino. Probabilmente, prima dell’adozione di una simile misura, più di qualcuno perse la vita così, tra le circa 200 persone stimate che non lasciarono mai l’isola della Nave da Guerra. Dove la vita era dura, ma il lavoro ancor più di questo: secondo i resoconti a nostra disposizione, negli anni più oscuri di questo luogo l’ambiente delle miniere sommerse risultava essere semplicemente inumano, con temperature superiori ai 40 gradi e un tasso d’umidità che sfiorava il 95%. Condizioni normalmente sopportabili per non più di 30, 40 minuti, che tuttavia non impedirono al carbone di continuare a riemergere, con flusso continuo, dalla cassaforte segreta del mondo, costituendo il combustibile per la più rapida, e repentina Rivoluzione Industriale d’Oriente.
Superata l’epoca della guerra, e liberati necessariamente tutti i prigionieri, l’isola diventò un luogo più o meno vivibile, benché non sia mai stato, in effetti, felice. Un altro ex-abitante, Hideo Kaji, raccontò alla CNN nel 2013 che: “Non c’erano cespugli, alberi o fiori. I bambini crescevano senza conoscere i petali di ciliegio. Il cambiamento delle stagioni veniva percepito unicamente dal variare della forza del vento.” A più riprese gli abitanti tentarono di migliorare le proprie condizioni di vita, costruendo degli orti sui tetti dei titanici condomini. Ma a quanto ci è dato di sapere, l’esperimento fallì ogni volta, probabilmente per l’energia sferzante dell’aria proveniente dal mare. Per ovvie ragioni, l’isola non era inoltre autosufficiente, e nei periodi di mare più tempestoso poteva mancare di rifornimenti per la sua densa e perennemente affamata popolazione.
Il poco amore di costoro per il loro luogo di vita, dunque, non può che essere estremamente comprensibile. E dal momento in cui la Mitsubishi diede l’ordine di abbandonarlo, il 15 gennaio del 1974 durante una cerimonia formale nella palestra comune, si andò incontro ad un processo di spopolamento rapido e privo di rimpianti. Entro aprile dello stesso anno, la popolazione stabile di Gunkanjima ammontò a zero. Per lunghi anni, soltanto il vento e il grido dei gabbiani fecero eco a tali e tante ragioni di sofferenza, assieme ai fantasmi di un’epoca che fortunatamente, non tornerà mai più. Dal 2002, l’isola è stata ceduta dall’azienda costruttrice alla conurbazione di Nagasaki, che a sua volta l’ha “ceduta” al comune di Takashima. Il quale, non senza qualche comprensibile esitazione, ha deciso di aprirla nuovamente al pubblico a partire dal 2009, 35 anni dopo il suo abbandono. Oggi, per chi ha la voglia e l’energia di affrontarlo, è previsto un tour di tre ore dal costo di circa 60 dollari a persona, che permette di visitare soltanto la parte sud, considerata relativamente sicura. Chiunque osi deviare dal percorso predeterminato, oltre a al rischio di farsi male tra le rovine cadenti, può andare incontro a gravi sanzioni e persino la detenzione da parte delle autorità. Ma è indubbio che i moderni esploratori urbani, ovvero i cultori della disciplina proibita dell’URBEX, sbarchino periodicamente sulla stretta banchina, per introdursi come abusivi tra le occulte vestigia della follia umana. Ben consapevoli che può bastare un singolo passo incauto in prossimità dei tunnel dismessi, per ritrovarsi a cadere verticalmente per un’altezza superiore a quella dell’Empire State Building, fino alle viscere stesse del Mare.