Al giorno d’oggi, restare coinvolti in un disastro aereo viene considerato tra i peggiori scherzi del destino immaginabili, una contingenza imprevedibile completamente al di fuori del controllo umano. Fino ad un tal punto, si è riusciti a perfezionare un metodo progettuale che possa dirsi continuativo nel suo produrre velivoli efficienti ad affidabili. Tanto che facendo la media sul numero degli incidenti annui, non più di un volo ogni 10.000 sperimenta guasti realmente degni di essere chiamati tali, mentre la maggior parte delle vittime avvengono su aerei piccoli di utilizzo per lo più privato. La vera ragione di tutto questo non è da ricercarsi unicamente nel campo dell’ingegneria: altrettanto importante, per minimizzare il verificarsi d’imprevisti, è stata la creazione di un metodo di accertamento delle cause determinanti, questione tutt’altro che semplice nella maggior parte dei casi. La prevenzione è molto importante. Ma ogni qualvolta essa dovesse venire meno, diventa primario correggere il tiro dei propri progetti, affinché conseguenze deleterie non possano più abbattersi su coloro che non hanno alcun tipo di colpa. Gente come i 426 uomini e donne che diedero la vita negli anni ’50 precipitando dai cieli di Karachi, Calcutta, Stromboli e l’Isola d’Elba, al fine raggiungere una conclusione fondamentale quanto, stranamente, del tutto inaspettata. Che i finestrini degli aerei non potevano essere quadrati.
Era il sogno finalmente realizzato di Geoffrey de Havilland (1882-1965) aviatore ed industriale di Londra che aveva vissuto gli anni della propria gioventù in corrispondenza con l’invenzione ed il progressivo sviluppo del volo a motore, per poi fare la sua fortuna proprio nell’ambito dei primi voli commerciali e successivamente, militari. Finché nel 1941 non entrò a far parte di un gruppo di studio finanziato dal governo inglese, per la progettazione degli aeromobili che sarebbero stati usati dai civili al termine della seconda guerra mondiale. E fu nel contesto di un simile comitato, che egli ebbe per la prima volta l’idea. Di un quadrimotore di linea ad ala bassa, che non fosse più spinto innanzi dal sistema delle eliche, bensì dalla prima e più semplice versione del motore a reazione, il turbogetto basato sul ciclo di Brayton-Joule. La costruzione da parte della sua azienda fu approvata quindi nel 1945, e i primi prototipi videro la luce ben tre anni dopo. Il de Havilland DH.106 Comet era una vera meraviglia della tecnologia moderna: più veloce, più silenzioso, più spazioso di qualsiasi altro aereo di linea si fosse visto prima di allora. Anche dal punto di vista della sicurezza, non vi era assolutamente nulla da eccepire: la maggiore spinta dle suo sistema di propulsione gli permetteva di godere di una fusoliera in lega di alluminio particolarmente spessa e resistente, con i singoli componenti uniti mediante un sistema di incollaggio che trova applicazione tutt’ora. Si trattava di un aereo, in linea di principio, del tutto indistruttibile. Che aveva un’altro aspetto del tutto innovativo: la pressurizzazione della cabina. Per la prima volta in un aereo sufficientemente grande da trasportare oltre un centinaio di persone. l’area di bordo proveniva esclusivamente da un impianto di ricircolazione, garantendo il massimo del comfort e permettendo di volare per tempi prolungati a quote notevolmente superiori. Ciò comportava uno stress maggiore per la fusoliera ma naturalmente, nulla che il mezzo di Havilland non potesse tollerare. Finché all’improvviso, non iniziarono i problemi. Nel 1952, un Comet di decollo da Roma non riuscì inspiegabilmente a prendere quota, finendo per subire gravi danni. Il 2 marzo del 1953, quindi, un’altro di questi aerei perse il controllo in condizioni simili e precipitò di fronte all’areoporto, di Karachi, in Pakistan, senza nessun superstite. Meno di un mese dopo, non troppo distante da Calcutta, un Comet incontrò delle turbolenze dovute ad un temporale, spezzandosi letteralmente a metà. A quel punto fu stabilita una commissione d’indagine, che in breve tempo arrivò all’unica possibile conclusione: in entrambi i fatali casi, la causa del disastro era stato un errore del pilota, che aveva tentato di adottare un assetto di volo troppo gravoso persino per la perfetta struttura di un simile velivolo pressoché privo di difetti. E ciò fu gravissimo: perché nel giro di pochi mesi, ci fu un nuovo incidente nel mezzo del Mar Mediterraneo, in prossimità dell’Isola d’Elba, con un altro volo decollato da Roma che cadde in mare. Di nuovo, nessun superstite. A quel punto era chiaro che le autorità internazionali avrebbero confinato a terra gli aerei, se la De Havilland non avesse fatto qualcosa, qualunque cosa per tentare di risolvere il problema. Si dimostrò, a quel punto, che il Comet era soggetto ad un’usura progressiva della fusoliera, che venne appositamente rinforzata in alcuni punti chiave. Si trattò di un intervento tardivo ma perfettamente realizzato, tanto che tutti si congratularono con se stessi per l’ottimo lavoro svolto. Finché l’8 aprile del 1954, un altro volo decollato da Napoli non cadde vicino a Stromboli. E a quel punto, nessuno seppe più cosa fare.
Così come il mondo della scienza è fatto d’improvvisi colpi di genio e metaforiche lampadine accese nel buio dell’inconsapevolezza, così quello dell’ingegneria fa i suoi più grandi balzi in avanti, fin troppo spesso, a seguito di terribili incidenti. È intrinseco nella natura stessa del nostro tratto caratteriale dominante, quell’ottimismo che ci permette di fare cose incredibili, finendo talvolta per pagare il più caro prezzo. Fu così che la compagnia inglese, sotto la guida del suo stesso fondatore, fece il possibile per recuperare i rottami in mare di quello che avrebbe anche potuto essere il suo ultimo aereo, e sottoporli ad accurati test strutturali di solidità. Un intero esemplare del Comet, appena completato ed uscito dalla fabbrica, venne immerso in una vasca a tenuta stagna, dove venne progressivamente sottoposto ad una pressione tale da spezzarlo letteralmente in due. Analizzando quindi il modo in cui questo, inevitabilmente, finì per verificarsi, vennero rilevati una serie di problemi latenti, tra cui quello del metodo utilizzato per applicare i rivetti dell’aereo, tale da creare un reticolo di micro-fratture che ne minavano potenzialmente l’integrità. Ma soprattutto, la questione fondamentale: che qualcuno aveva fatto una scelta estremamente stupida, tale da inficiare qualsiasi grado di perfezionamento applicato dal punto di vista strutturale. Avete presente la tipica nave dei vecchi tempi, prima che il ponte dei transatlantici si trovasse ricoperto da enormi sovrastrutture, simili a vere e proprie città? La sua caratteristica dominante, ancora ritrovata nei disegni dei bambini, era un alto numero di oblò. Finestre CIRCOLARI, proprio perché, pur lasciando entrare la luce, esse dovevano garantire la massima tenuta stagna e resistenza in caso di condizioni agitate del mare. Qualsiasi apertura quadrata praticata nel metallo, sia questo acciaio o alluminio, causa infatti il verificarsi di quello che in gergo viene chiamato un innesco di cricca, ovvero un punto in cui le linee di tensionamento gravano pesantemente, permettendo il crearsi di spaccature. A questo punto, ecco la terribile verità: i quattro voli erano caduti a causa dei finestrini. Perché agli ingegneri aeronautici, secondo l’usanza di quei tempi, non venivano fatte studiare le navi. Una dimostrazione cautelativa profondamente efficace, se mai ce ne fosse stato bisogno, dei rischi dell’eccessiva specializzazione.
Il che ci porta al giorno d’oggi, in un mondo in cui tutte le aperture praticate in un tubo pressurizzato lanciato nei cieli alla massima velocità sono tonde, anzi che dico, ovali. Per ridurre lo spreco di materiali ed incrementare la visibilità dell’orizzonte dalla cabina, un punto importante non solo dal punto di vista del marketing e del panorama, ma valido a ridurre il senso di disorientamento e la nausea potenzialmente subìta dai passeggeri. Il miglioramento degli approcci costruttivi, quindi, ha permesso di ridurre la problematica dell’accumulo di micro-fratture invisibili nel reticolo metallico della fusoliera, permettendo di creare velivoli con finestrini sempre più grandi. Notevole, a tal proposito, risulta essere il 787 Dreamliner della Boeing (>vedi articolo) un aereo concepito per essere rivoluzionario in più di un modo. Incluso il sistema di rinforzo della carlinga in fibra di carbonio, che distribuisce i carichi strutturali nel modo migliore concepibile, anche dopo un alto numero di voli. In conseguenza di questo, ogni aspetto dell’esperienza di volo può essere calibrato a vantaggio dei passeggeri, con un ambiente meno secco ed una pressione notevolmente più vicina a quella del livello del mare, senza timore che questo possa compromettere la solidità dell’aereo. Simili vantaggi, negli ultimi anni, stanno diventando un tratto distintivo di tutti i nuovi modelli di jet di linea e presto non potremo provare altro che un sentimento di sincero dispiacere, ripensando ai molti voli che abbiamo affrontato con un livello di comfort decisamente inferiore.
Dopo l’incidente di Stromboli del ’54, la de Havilland progettò nuovamente il suo aereo più famoso, arrivando ad un grado di perfezionamento finalmente pari alle aspettative dei suoi creatori. Tutti gli esemplari ancora in circolo vennero immediatamente ritirati, per essere demoliti o riconvertiti all’impiego in situazioni che non richiedessero la pressurizzazione della cabina, mentre la nuova versione, il Comet 4, uscì di fabbrica finalmente godendo della sicurezza garantita da finestrini dalla forma perfettamente cirecolare. L’azienda, che aveva un ampio catalogo di aeromobili ed operava in tutti e cinque i continenti, continuò ad operare per 10 anni nonostante la grave perdita economica e d’immagine, finché nel 1964, inevitabilmente, fallì. Soltanto un anno dopo, all’età di 83 anni, l’averebbe seguìta il suo fondatore Geoffrey de Havilland, che tanti successi, e tante delusioni, aveva dovuto affrontare nel corso della sua movimentata vita.
Siamo sempre così profondamente interessati al come una determinata cosa venga prodotta, che raramente ci ricordiamo di chiederci il perché. L’immagine degli aerei di linea, con i loro finestrini ovali, è così entrata nella coscienza del senso comune, un po’ come quella precedente della nave con i suoi oblò. Dando luogo alle ragioni della più fatale dimenticanza.
Fortunatamente ed a scanso di equivoci, nessuno ha ancora commesso l’errore fare un buco squadrato nelle astronavi. Ma chi può dirlo, c’è ancora tempo per ripetersi! Speriamo soltanto che in futuro, essi non comportino l’immediata apertura di un buco nero durante l’impostazione dei salti iperspaziali.
Si però i finestrini delle cabine di pilotaggio sono sempre stati spigolosi e lo sono tutt’ora