Gli italiani, come popolo guardato dall’esterno, sono molte cose: creativi, intraprendenti, maestri del design. Ma se ora io vi dicessi che l’elite dei soldati l’Esercito Imperiale Austriaco, a partire del 1770, disponeva di un arma straordinariamente avanzata in grado di gettare nello sconforto il cuore dei loro principali nemici, situati in Turchia, non credo che vivreste un solo attimo di dubbio. Ah, la tipica capacità ingegneristica mitteleuropea! Quello stesso principio secondo cui, soprattutto adesso, si preferiscono le automobili tedesche, considerate il massimo dell’affidabilità e le prestazioni… A parte qualche piccolo problema con i test delle emissioni inquinanti. Ebbene a dire il vero, oggi siamo qui per sfatare anche un primato antecedente a questo: perché il leggendario fucile Windbüchse, un’arma in grado di sparare fino a 20 volte, senza far rumore né produrre lampi o sbuffi di fumo, fu in realtà il prodotto di un artigiano orologiaio di Cortina, Bartolomeo Gilardoni (o Girandoni a seconda delle trascrizioni) vissuto tra il 1729 e il 1799. Si trattava di un implemento bellico così straordinariamente efficace, che Napoleone in persona aveva dato disposizioni affinché chiunque fosse catturato in guerra essendone in possesso fosse immediatamente giustiziato.
Immaginate, adesso, questa scena: una colonna di fanti ottomani che valica il confine dell’Austria, con l’intento di saccheggio e potenziale preparazione alla conquista. Centinaia e centinaia di uomini, armati di moschetti d’ultima generazione, ben consapevoli dell’assenza in quella particolare regione di alcun contingente in grado di competere con loro in campo aperto. Quando a un tratto, ai margini del sentiero, la vegetazione si agita, lasciando fuoriuscire un reparto di alcune decine di Kaiserjäger, i temuti “cacciatori imperiali” che Francesco II d’Asburgo-Lorena faceva reclutare uno ad uno nelle regioni alpine del suo territorio: uniformi azzurre, alti cappelli con piuma di gallo nero e accenti dorati, nella cinta e nella nappa dell’impugnatura della spada. Ben stretti nella mano di ognuno, alcuni dei fucili più peculiari che un uomo del XVII secolo potesse mai aver visto: lunghi 1,2 metri, sottili e privi di baionetta, la canna ottagonale dal calibro di 13 mm e un grosso calcio con la forma di un cilindro rastremato, molto più ingombrante della media. Prima che chiunque potesse avere il tempo di reagire, dunque, la prima salva parte sull’armata impreparata, mietendo vittime fra la prima e la seconda fila geometricamente più vicina. Ora, le consuetudini del tempo richiedevano, nel momento dell’ingaggio del nemico, sopratutto un’alta dose di sangue freddo e cautela. Non era semplicemente possibile, infatti, ricaricare un moschetto ad avancarica in meno di 20-30 secondi, tempo più che sufficiente a disporsi in posizione di tiro, prendere bene la mira e rispondere con calma al fuoco del nemico. Senza contare l’ulteriore tempo necessario affinché si diradasse il fumo della polvere da sparo, e fosse nuovamente possibile inquadrare nei mirini un reparto di schermagliatori leggeri. Ma simili limitazioni, come potrete facilmente immaginare, non si applicavano affatto ai Kaiserjäger, che senza perdere neanche un singolo secondo, fecero fuoco di nuovo. E ancora, senza botto né lampo di alcun tipo. Inoltre, alcuni dei cacciatori austriaci, liberati dal bisogno di ricaricare, facevano fuoco da una posizione sdraiata a terra, e risultavano quindi pressoché invisibili allo sguardo spaventato dei nemici. A questo punto, l’armata nemica sarebbe scivolata nel più totale ed assoluto caos. Poiché il concetto stesso di fuoco a ripetizione era talmente alieno, a quell’epoca, da far pensare ad una sorta di stregoneria. Eppure era assolutamente possibile, con soltanto il giusto grado d’ingegno nel cercare nuove soluzioni tecnologiche a problemi di vecchia data.
Il Windbüchse, o Sćiòpo a vento Gilardoni se vogliamo usare l’espressione dialettale della regione di Cortina d’Ampezzo, era un’arma basata su una forza relativamente nuova: quella dell’aria compressa. Intendiamoci, non fu la prima arma di questo tipo, primato spettante piuttosto ad un un fucile da caccia risalente al 1580 custodito nel museo Livrustkammaren di Stoccolma, con una molla in grado di comprimere il pistone prima di ciascuno sparo. Il che lo rendeva, chiaramente, in grado di sparare una volta sola. C’è poi tutta la vasta selezione, diffusa nel XVII secolo, di fucili usati nella caccia al cervo nei boschi europei. Queste armi avevano dei significativi vantaggi rispetto ai moschetti dell’epoca, in primo luogo quello di poter sparare anche in caso di pioggia, ma anche un tempo di sparo notevolmente inferiore dal momento della pressione del grilletto e l’incapacità di spaventare gli animali col forte rumore, a meno che questi ultimi non fossero particolarmente vicini. Ma l’idea di impiegarli in battaglia era, e restò per lungo tempo, un’invenzione dovuta esclusivamente all’ingegno di un italiano.
Avrete certamente notato, nel video di apertura, la precisione ed il livello di dettaglio offerti nella spiegazione del collezionista d’armi Luke Haag, possessore di uno dei pochi schioppi a vento ancora presenti ufficialmente negli Stati Uniti. Simili armi, infatti, erano talmente difficili da utilizzare per il soldato medio, e tanto delicate, che per volere dell’Imperatore austriaco furono prodotte nella quantità relativamente limitata di appena 1300 esemplari, molti dei quali furono danneggiati irrimediabilmente durante l’uso. Questo livello di complessità e conseguente delicatezza, del resto, era la ragione principale per cui sui Gilardoni non veniva mai montata la baionetta: un singolo colpo bene assestato, sarebbe bastato a scombinare irrimediabilmente il meccanismo di fuoco, richiedendo per la riparazione l’intervento di un tecnico esperto. Il che, una volta analizzato per sommi capi il funzionamento del fucile, appare di certo alquanto giustificato. Ripercorriamo dunque, per sommi capi, la sua spiegazione: l’arma presentava, a lato della sua canna principale, una seconda più corta, concepita per svolgere una funzione ante-litteram di caricatore. All’interno del tubo, a tal proposito, venivano disposte fino a 20 palle di piombo, mantenute in posizione da una sorta di otturatore con molla piatta, che grazie all’impiego di una leva poteva essere aperto dall’utilizzatore, lasciando scivolare i colpi all’interno del meccanismo per fare fuoco. Ciò richiedeva, chiaramente, che l’arma fosse inclinata verso l’alto, affinché la forza di gravità assistesse nel verificarsi di tale serie di eventi. Quindi, alla pressione del grilletto, un apparato meccanico del tutto simile a quello del moderno cane scattava in avanti, causando lo sparo del proiettile. Ma quello che succedeva all’interno, nei fatti, risultava essere del tutto diverso: perché l’altra estremità dell’ingranaggio non andava a colpire alcuna carica esplosiva, bensì una speciale valvola del rilascio dell’aria compressa, che si trovava custodita all’interno del cilindro/calcio nell’arma, nella precisa quantità necessaria a far scaturire una singola palla alla velocità di circa 300 m/s. Un’altra soluzione assolutamente all’avanguardia, poi, era la canna. Rigata in modo da far compiere una rotazione intera al proiettile prima della fuoriuscita, ne incrementava notevolmente la precisione di tiro. Ogni soldato, inoltre, doveva essere dotato di uno zaino degli accessori, composto di almeno due cilindri di ricambio, ciascuno dei quali sufficiente per sparare tutti e 20 i proiettili di un singolo “caricatore” (benché dopo i primi 15, si racconta, la potenza di sparo calasse significativamente) oltre a un certo numero di tubi con i pallini di piombo, utili ad effettuare una ricarica veloce sul campo. A completare il quadro, chiaramente, c’era poi un accessorio assolutamente fondamentale: la pompa per pressurizzare uno dei serbatoi d’aria successivamente alla battaglia. Operazione tutt’altro che rapida, che richiedeva fino a 1.500 pressioni del dispositivo, per un tempo medio di ALMENO 20 minuti. Un piccolo prezzo da pagare, per trasformarsi nei diavoli invisibili dei campi di battaglia.
Questi dispositivi ineccepibili provenienti dall’Italia, al termine delle guerre napoleoniche furono venduti a caro prezzo in giro per l’Europa, e successivamente esportati anche altrove. Giungendo così nelle mani, tra gli altri, dell’uomo che li avrebbe resi famosi negli Stati Uniti: Meriwether Lewis, ex-segretario dell’allora presidente Thomas Jefferson nonché uomo di carriera militare, che nel 1804 sarebbe partito, assieme al collega William Clark ed un’altra trentina di uomini addestrati, per la più importante spedizione mai effettuata dei vasti territori nordamericani. Con un obiettivo primario di natura scientifica ed un altro segreto, nel quale tale arma si sarebbe dimostrata semplicemente fondamentale.
La grande impresa, fortemente voluta da Jefferson a seguito dell’acquisto della Louisiana dai francesi nel 1803 per la cifra 11.250.000 dollari, consisteva nel raggiungere l’Oceano Pacifico passando via terra, a partire da Pittsburgh e risalendo una serie di fiumi con le canoe, l’Ohio River, il Missouri e lo Yellowstone, fino allo spettacolo maestoso delle grandi cascate del Northwest, per poi proseguire, possibilmente indisturbati, lungo il corso del Columbia River fino alla costa dell’odierno Oregon, dove il gruppo avrebbe costruito un avamposto della colonizzazione futura, denominato Fort Clatsop. Operazione non del tutto priva di precedenti: già l’esploratore francese René-Robert Cavelier, nel 1682, si era spinto nell’entroterra fino alla regione dei Grandi Laghi e il capitano americano Robert Gray, nel 1792, era giunto fino alla foce del Columbia, a cui diede il nome reclamandolo per la maggiore gloria della sua nazione. Molte scoperte e notazioni geografiche ulteriori, quindi, furono mutuate dall’esperienza dei mercanti di pelli privati e gli altri avventurieri disposti a spingersi nel grande universo selvaggio. Ma fu l’intento secondario dei protetti del presidente Jefferson a presentarsi come innovativo: prendere contatto, regione per regione, con le diverse tribù dei nativi, al fine d’informarli ufficialmente dell’acquisto di tali territori da parte del Grande Padre della Nazione (bianco) il quale da quel momento, avrebbe avuto piena giurisdizione su ogni disputa, guerra e accordo tra le diverse tribù. Di comunità in comunità, un villaggio alla volta, dunque, gli uomini di Lewis e Clark usarono ogni risorsa a loro disposizione, tra cui il dono di qualche ninnolo, i gesti d’amicizia universale e l’eloquenza interpersonale, per ingraziarsi i capi dei cosiddetti indiani, ed assicurarsi volta per volta di aver fatto comprendere il messaggio fondamentale. Da un certo punto del viaggio, a tal proposito, furono accompagnati dal cacciatore franco-canadese Toussaint Charbonneau e soprattutto da sua moglie della tribù Shoshone, Sacagawea, la quale si trasformò spontaneamente nell’interprete del gruppo. Ma ogni volta, si giungeva sempre allo stesso punto: i guerrieri dei diversi popoli richiedevano una prova di abilità. Al che, normalmente, era lo stesso Lewis a farsi avanti, con in pugno il suo fucile ad aria compressa, che per lungo tempo gli storici hanno tentato di identificare, fino a giungere alla conclusione innegabile che dovesse trattarsi di un Gilardoni. L’effetto dell’arma a ripetizione era naturalmente devastante sulla sicurezza bellica dei nativi, che potevano contare al massimo su asce ed archi risalenti all’epoca neolitica, per quanto perfezionati attraverso i molti millenni di utilizzo. La visione di Lewis che giunti verso sera, pompava freneticamente il suo fucile diventò così piuttosto familiare ai membri della spedizione, con i quali, a quanto pare, lui si lamentò spesso di questa fatica. Ma si ritiene, oggi, che l’incredibile funzionamento dell’arma sia stata alla base della notevole assenza di conflitti nel corso del viaggio durato ben tre anni, durante il quale morì soltanto un membro della spedizione, per un’infezione riportata a seguito dell’appendicite.
Un risultato certamente notevole, per quanto si possa discutere sulla giustezza del sentimento originario, e dovuto in larga parte a questo pezzo significativo di storia dell’ingegneria italiana. Poco prima di tali eventi, nel 1801, l’Esercito Imperiale Austriaco aveva nel frattempo abbandonato il Gilardoni, preferendo adottare su larga scala la nuova soluzione dei moschetti ad avancarica, che pur avendo un tempo di ricarica certamente superiore, presentavano il vantaggio di una relativa semplicità di utilizzo e una resistenza molto superiore alle sollecitazioni. Ci sarebbe voluto oltre un secolo, perché le armi ritornassero a far fuoco più di una volta senza ricaricare, questa volta senza più alcuna limitazione di tipo meccanico e funzionale. Naturalmente, a quel punto, il mondo in guerra andò incontro all’epoca più oscura che avesse mai conosciuto.