Ho inserito nell’acquario qualcosa di nuovo e straordinario, che molto chiaramente viene da lontano: una certa quantità di sfere. Della misura variabile tra i 10 e 20 cm, quasi perfettamente simmetriche, pelose (erbose?) di un color verde brillante che potrebbe ricordare da vicino uno smeraldo. Non nuotano con le pinne, non hanno occhi, non producono rumore. Eppure sono a tutti gli effetti e molto chiaramente, per come si comportano e l’effetto della loro presenza, assolutamente vive. Qualcuno potrebbe chiamarle pecorelle di mare, oppure minuscoli globi terrestri, per una visione idealizzata in cui questo pianeta fosse totalmente, meravigliosamente rigoglioso e ricoperto di vegetazione. Il loro nome scientifico Aegagropila linnaei, mentre i giapponesi, fin dall’epoca della loro scoperta, li hanno semplicemente definiti marimo (毬藻) dalla parola che vuol dire “palla rimbalzante” mari (iga 毬) ed il suffisso mo (藻) riferito alle più svariate creature vegetali delle profondità lacustri, fluviali o marine. Proprio così, sebbene non lo sembri, siamo al cospetto di un’alga. Una delle più particolari ed amate al mondo, per la sua capacità di assumere, in determinate condizioni ambientali, questa forma geometrica pressoché perfetta, in grado di renderla un elemento decorativo. E molto più di questo… Persino una sorta di animale domestico, per lo meno nel suo paese di provenienza, dove gli sono state dedicate leggende, racconti ed almeno due mascotte antropomorfe. E questo non è un caso accidentale, vista la regione in cui si trova la loro maggiore concentrazione al mondo: un lago di origine vulcanica sito tra le montagne O-Akan e Me-Akan, sull’isola settentrionale di Hokkaido, parte dell’arcipelago in cui tutto, ma proprio tutto, tende ad acquisire un paio d’occhi e deambulare in giro sulla base di un modo di essere in qualche maniera buffo o grazioso. Eppure, persino in questo, le sfere marimo presentano delle significative particolarità. Poiché risultano legate, per lo meno nella loro interpretazione contemporanea, al particolare mondo delle tradizioni degli Ainu, l’antico popolo che un tempo abitava questi luoghi in solitudine, prima che le genti del Sole, provenienti dalla terra meridionale di Yamato, li assimilassero completamente nella loro società. Il che, da un certo punto di vista, non è sbagliato: ogni essere naturale, in effetti, può costituire per la religione di tale popolo il ricettacolo di un Kamuy, o spirito della Natura, in grado di giudicare e ricompensare il comportamento meritevole dell’uomo. Una visione che del resto si ritrova, in qualche misura, anche nella più diffusa religione dello Shinto, la Via degli Dei. L’effettiva valenza folkloristica di questa graziosa pianta, tuttavia, è stata ripetutamente messa in dubbio, vista la natura non confermata dell’unica u’uepekere (storia a trasmissione orale) sull’origine dei marimo, costituita da una stereotipata storia d’amore tra un cacciatore e la figlia del capo villaggio, proibita nel più universale dei drammi dalle solite norme della società. I cui spiriti si sarebbero trasformati, dopo l’ora della loro morte, nelle magnifiche sfere verdeggianti, in qualche modo rappresentative della perfezione dei sentimenti umani. Mentre una visione più realistica dell’intera faccenda è che le Aegagropila fossero in effetti addirittura sgradite agli Ainu, che le chiamavano torasampe (folletto dell’acqua) per la loro tendenza ad impigliarsi tra le maglie delle reti da pesca.
La pianta in questione giacque dunque dimenticata, nelle profondità di un tale remoto lago, fino all’epoca del 1898, quando il botanico Tatsuhiko Kawakami, la riscoprì e classificò dal punto di vista scientifico, accomunandola alla colonia di simili creature scoperte esattamente 55 anni prima da Anton E. Sauter presso il lago Zell, in Austria, e che ben presto avrebbero rivelato la loro presenza anche in Islanda, Scozia ed Estonia. Benché in effetti, in nessuno di questi luoghi il “muschio acquatico” avrebbe mai raggiunto le dimensioni e la bellezza della sua versione giapponese, rendendo facile comprendere perché soltanto lì, fra tutti i luoghi citati, la pianta fosse destinata a diventare ben presto un Tesoro Nazionale formalmente designato. Stato di grazia mirato a preservare un tale bene naturale ma che invece ottenne l’effetto diametralmente opposto, quando negli anni ’20 dello scorso secolo un’ampia fascia di popolazione decise all’improvviso che doveva possedere una simile curiosità, ed il lago iniziò ad essere oggetto di una caccia feroce, con migliaia di piantine sottratte ogni settimana e rivendute a caro prezzo sul mercato delle grandi città. Quello fu l’inizio dell’epoca più oscura per i marimo, in un capitolo di una storia che, tuttavia, avrebbe avuto una sorta di risoluzione verso l’inizio degli anni ’50.
Vediamo più in dettaglio, a questo punto, ciò di cui stiamo parlando. Il marimo non è altro che un’alga filamentosa appartenente all’insieme informale delle Chlorophyta, o alghe verdi, famose per la loro capacità di sviluppare una potente fotosintesi clorofilliana. L’ammasso di fronde viene spinto dalle correnti sommerse ed attorcigliato, finché non assume una forma vagamente sferoidale, quindi inizia ad essere sospinto dalla risacca fin quasi a riva, con una cadenza grossomodo giornaliera. Come una palla di neve fatta scendere dal pendio della montagna, gradualmente aumenta nelle dimensioni ed a quel punto assume delle caratteristiche particolari. È stato ipotizzato come la forma perfettamente sferica del marimo abbia in effetti una funzione ben precisa, poiché permette al vegetale di non restare bloccato dal fango, esponendo così ogni parte della sua massa alla tenue luce del sole, a cui riesce soltanto in parte di penetrare i recessi più remoti del profondissimo lago Aikan. La sua stessa densità e la capacità conseguente d’intrappolare l’aria, inoltre, diventa un’importante arma da sfruttare per la sopravvivenza: abbiamo infatti detto che le palle possono muoversi sospinte da un’apparente volontà, ed è proprio questo ciò che succede. L’ossigeno prodotto dall’anidride carbonica, come effetto collaterale della crescita del vegetale, viene gradualmente liberata, producendo delle bolle che ne inducono le apprezzabili oscillazioni. A seconda della quantità di luce assorbita, dunque, i marimo possono galleggiare, oppure giacciono immoti sul fondale del lago. Ciascuna sfera ha una velocità di crescita piuttosto lenta, di circa 5 mm ogni anno, limitata ulteriormente dal problema che i filamenti interni alla sfera che, per ovvie ragioni, non potranno mai ricevere la luce del Sole. Per questo essi giacciono in una sorta di stato dormiente, in attesa di riattivare i loro cloroplasti nel caso in cui la palla perda la sua integrità. Le più grandi marimo naturali, sopravvissuti ad un simile incidente, raggiungono la dimensione massima di 30 cm, benché esistano alcuni esemplari record tenuti presso il museo di Akan, che sfiorano i notevoli 90 cm di diametro. Si stima che la durata della loro vita si aggiri, ormai, attorno a ai 200 anni. Ma la natura della loro origine resta quanto meno misteriosa.
La moda giapponese dell’adozione domestica dei marimo, cui ha fatto eco, specie negli ultimi anni, una tendenza trasversale del mercato globalizzato, ha per inciso svariate ragioni pratiche e funzionali. Una volta inserita nell’acquario, infatti, quest’alga offre effetti benefici degni di nota: elimina i nitrati e le altre sostanze nocive, assorbendole, ed in cambio restituisce utile ossigeno per i pesci. Monopolizzano inoltre le sostanze nutritive nell’acqua, impedendo la crescita di altre alghe, sgradite al proprietario. Al loro interno prosperano alcune tipologie di batteri portatori di benefici. E soprattutto, le piccole sfere hanno un aspetto gradevole che ispira simpatia, inserendosi nella passione tipicamente nipponica per ciò che si presenta magnifico e privo di difetti, rappresentativo della perfezione assoluta dell’universo naturale.
Eppure, o forse proprio per questo, le beneamate sfere hanno sofferto molto per tutta la durata dell’epoca Showa (1926-1989) quando nei vicini centri abitati diventò la norma vendere l’alga in bottiglia, come portafortuna o souvenir vivente di questi luoghi. L’industria di produzione del legname, ma sopratutto quella dell’energia e la relativa costruzione di una grande centrale elettrica, hanno disturbato significativamente il delicato stato ambientale del lago Akan, causando un calo del livello delle acque che ha portato al danneggiamento e la morte di un alto numero di marimo. Le amministrazioni locali, quindi, colpite dal notevole potenziale ritorno d’immagine della grave situazione, chiesero ed ottennero che l’intera regione del lago fosse trasformata in parco nazionale (un’operazione risalente al 1934) dando sostanzialmente un primo esempio di coscienza ambientalista all’intero Giappone. Da lì all’associazione pubblicitaria con la cultura delle ultime comunità Ainu dell’Hokkaido, notoriamente legate al concetto di ecologia per il tramite della loro religione, fu graduale ma inevitabile, portando all’istituzione nel 1950 della famosa Festa del Ritorno dei Marimo. Un evento, che ha ormai superato la 50° edizione, in cui visitatori provenienti da tutto il Giappone portano presso i lago le palle d’alghe che avevano acquistato qui o altrove, consegnandole con grande formalità ad un capo villaggio in abito tradizionale. In una commovente cerimonia, quindi, quest’ultimo sale su una canoa e le “libera” gettandole nuovamente nelle acque oscure da cui erano provenute. L’origine di questo rituale è chiaramente moderna, ed esso non si configura sull’esistenza pregressa di alcuna particolare celebrazione tradizionale degli Ainu. Eppure, nell’idea di diversi antropologi tra cui Takashi Irimoto dell’Università dell’Hokkaido nel suo studio del 2004 Creation of the Marimo Festival: Ainu Identity and Ethnic Symbiosis, tale invenzione non deve necessariamente essere vista come un’imposizione artificiale, data la sua configurazione chiaramente in linea con il culto della sacralità dell’ambiente e la visione globale di questo popolo, da sempre legato alla natura. Il fatto, inoltre, che si tratti di un pretesto per chiarire la condizione insostituibile di determinate risorse del territorio, non può che indurre un ulteriore sentimento di approvazione, specie per i devoti del culto dei fiumi, delle montagne e di tutti gli altri, innumerevoli, spiriti divini dei Kamuy.
Chi potrebbe mai resistere, in Giappone ed altrove, all’aspetto grazioso e memorabile di una morbida sfera verde brillante, che non richiede particolari attenzioni, sopravvivendo in autonomia traendo nutrimento dalla luce e dalla semplice acqua del rubinetto di casa… E l’assoluto senso di serenità emanato da questi esseri, così perfetti nella loro semplicità, indurrebbe a rivalutare la visione buddhista delle cose, secondo cui reincarnarsi in un vegetale costituisca una punizione per il karma negativo accumulato nelle vite precedenti.
Non è forse vero, dopo tutto, che il Nirvana costituisce l’annullamento dell’Io individuale, verso il raggiungimento di uno stato di comunione con il nulla ed il Tutto, ovvero la natura inconoscibile dell’Universo? Paradossalmente è soltanto affondando, che si può galleggiare su bolle d’ossigeno, il prodotto della fotosintesi clorofilliana. E l’esistenza dei vegetali, in quanto esseri pacifici e privi di desideri, risulta tanto più simile a una tale visione della divinità.