Non sono pochissime le persone per cui, dopo una lunga giornata di lavoro, l’ultimo rifugio dal logorìo dell’inquietudine diventano i fornelli. Un luogo dove il desiderio governa i gesti e che in funzione di questa sua speciale caratteristica, si configura sulla base e le necessità dell’arte. Le tre C della Cucina: Concentrazione, consapevolezza, cumino. Se vogliamo metterci una spezia. Coriandolo, se ce ne serve un’altra. Ma è andando oltre una simile frontiera binomiale (del resto, lo si sa, non c’è due senza tre) che si sconfina nel variopinto regno della cucina indiana. Fatta di quel vasto ventaglio di sapori e polveri, che non soltanto accompagnarono il destino dei popoli di quel massiccio sub-continente, ma determinarono il fato stesso e l’andamento di oltre un millennio e mezzo dei più pregiati commerci dell’umanità. Perché è questa, soprattutto, la forza di un sapore, di un odore o di un colore: la misura dell’universale passione che attraversa i mari e i continenti. Per poi tornare qui seduti, come niente fosse, sul suolo sterrato presso la radura di un piccolo centro abitato in mezzo alla foresta, e domare quel vortice con la perizia di due mani cariche di Storia. Dove siamo, esattamente? Non ci viene detto, benché almeno un singolo elemento ci permetta di azzardare un’ipotesi geografica di riferimento: sto parlando del principale attrezzo usato dall’anziana signora nel corso della preparazione dei suoi splendidi ed enormi granchi di fiume, una sostanziale sciabola fissata ad una tavola di legno, sopra la quale lei appoggia il piede destro, affinché il taglio non possa deviare di un trentesimo di spanna. Ebbene, mai visto niente di simile? Siete al cospetto di un bonti, un attrezzo tradizionale dalla storia millenaria, particolarmente associato alle donne della regione del Bengala, nella punta nord-orientale del triangolo che costituisce l’India, al confine con il Bangladesh. Non per niente, anche nelle cucine di quest’ultimo paese, è talvolta presente una versione locale dello stesso oggetto. Qualcosa di apparentemente poco pratico, a guardarlo, ma che in realtà va inserito nel contesto di uno stile e una postura di lavoro totalmente diversi da quelli nostrani, in un’area geografica in cui semplicemente, a nessuno è mai venuto in mente di sprecare lo spazio in casa con cose come sedie, tavoli, banchi di alcun tipo. Dove tutto quello che serve per produrre le pietanze energizzanti a vantaggio di parenti, figli e nipoti sono giunture flessibili e ginocchia solide come l’acciaio. Doti che diventano, a questo punto, pressoché scontate.
La qualità e il pregio registico di questa serie per il web, fatta forse eccezione per la colonna sonora non sempre appropriatissima (benché persino quella, andrebbe contestualizzata) coinvolgono lo spettatore con piglio quasi ipnotico, finendo per indurre in lui uno stato d’animo probabilmente comparabile a quello di molti dei commensali presenti per l’evento. La nonna comincia spesso dai princìpi più remoti, impugnando mortaio e pestello per prepararsi da se almeno una parte delle polveri che userà nel suo curry. A tal proposito, è appropriato fare una notazione di tipo linguistico: poiché in italiano, per convenzione, questo termine si riferisce in modo particolare al fine preparato di spezie risultante da questa specifica procedura, quando in realtà il termine appropriato per quest’ultimo sarebbe masala, ovvero un mix di spezie. Mentre kari, che in lingua Tamil significa “condimento”, dovrebbe indicare la pietanza propriamente detta, completa in ogni sua parte ed a base in genere di carne, pesce o verdure. Il masala della Nonna del Villaggio, ad ogni modo, è molto variegato: s’intravede facilmente il giallo ocra dell’haldi (curcuma) e un marrone più scuro dello zeera (cumino). Il bianco è semplicemente sale. C’è poi un rosso intenso, probabilmente polvere di peperoncino anche se alcuni ipotizzano sia proprio della paprika, aggiunta con estrema generosità al calderone. Ma mai quanto l’adrak-lehsun, impasto di zenzero ed aglio, del quale viene immesso un pugno intero, poi agevolmente mescolato con erbette locali, il resto delle spezie ed ovviamente, giunti al momento clou della sequenza, l’ingrediente principale degli ipertrofici crostacei fluviali, con chele, zampe e tutto il resto. Nel corso della lunga cottura dunque, che durerà fino alla sera, l’esperta cuoca continuerà a sorvegliare il suo capolavoro, aggiungendo di tanto in tanto un po’ dell’una o dell’altra sostanza citata. Che cosa la guiderà nel compiere questi speciali aggiustamenti? Lo sguardo, l’odore, il vasto ventaglio di esperienze a cui fare riferimento nel corso della sua lunga carriera di donna che nutre la famiglia? Una domanda, questa, a cui non è facile trovare una risposta. Nel finale della sequenza, in modo atipico per la serie, lei non viene mostrata mentre mangia assieme a dei convitati giunti per l’occasione, quanto piuttosto intenta a sgranocchiare l’ineccepibile curry di granchio in assoluta solitudine, sotto la luce della luna. Fino all’ultimo succulento pezzo di zampa.
Ma forse nessun altro, tra i molti video offerti su di lei presso il canale Food Info della Telugu Media & Entertainment, offre una visione migliore dell’efficacia del coltello bonti, di quello in cui lo usa per affettare a pezzi un’intrigante zucca verde chiaro, dalla forma approssimativa di una pera gigante. Preso il frutto direttamente dal campo, e trasportatolo poco più in là presso la propria postazione di battaglia, la nonna lo avvicina con sicurezza estrema alla lama del suo affetta-tutto, naturalmente rivolta verso l’interno e quindi a pochi centimetri dal suo volto. Questo tipo di attrezzi, normalmente, viene tenuto molto affilato anche grazie alla tradizione dell’arrotino, che viaggiando tra le comunità rurali con cadenza prevedibile si occupa di ripristinarne il taglio perfetto. Ed infatti, al primo contatto la zucca si divide perfettamente in due. Ma non finisce lì. Più e più volte, la cuoca prende i pezzi già affettati e li rende sempre progressivamente più piccoli, facendo ricorso ad una serie di movimenti che presumibilmente, ormai possiede incisi nel suo stesso DNA.
Statue di terracotta risalenti all’epoca della dinastia Pala (XVIII-XII secolo d.C.) hanno dimostrato come l’uso di questo attrezzo fosse allora già diffuso tra i bengalesi, come del resto, probabilmente, lo era da prima ancora. Durante tutto il periodo tardo-classico della cultura indiana, e ancor più nell’epoca che tendeva al contemporaneo, la caratteristica postura necessaria all’impiego di questo attrezzo diventò un elemento di fascino rinomato, spesso ricorrente nell’arte e in seguito, nella fotografia. Il portale gastronomica.org cita, ad esempio, i dipinti della scuola del tempio di Kalighat successivi al 1829, in cui donne intente ad usare il coltello erano spesso un soggetto d’elezione, ma anche un album di fotografie degli anni 30 del ‘900, in cui l’autore Gurudas Chattopadhyay aveva ritratto alcune delle più famose prostitute di Calcutta, completamente coperte con il sari come donne di buona famiglia ed intente a preparare il cibo mediante l’impiego del bonti. È facile immaginare il tipo di suggestioni contenute in una simile immagine e postura, così fortemente associate in questi luoghi ad un mondo puramente ed esclusivamente femminile. Secondo un’usanza popolare, quando una donna del Bengala viene offerta in sposa, il marito deve recarsi presso l’abitazione dei genitori, ed avere l’opportunità di vederla mentre lavora con il coltello simbolo della sua categoria. Nella regione di Barisal, molto spesso, questi le offriva inoltre da tagliare il legume khesari daal, le cui foglie fibrose devono essere affettate in maniera finissima prima di trovare posto in qualsivoglia pietanza degna di questo nome. E soltanto se lei riusciva a ridurle ad una polvere finissima, sarebbe stata degna di essere accolta nella sua futura vita coniugale. Il che aveva anche, a quanto si dice, un ulteriore vantaggio inaspettato: sembra infatti che le mogli di Barisal fossero così abili nell’uso del bonti, da giungere a impugnarlo in caso di pericolo, scacciando facilmente eventuali ladri e predoni dall’abitazione dello stimato quanto inutile consorte. Non sarà dopo tutto necessariamente un caso, se il coltello in questione assomiglia da vicino al timone di una nave, l’imbarcazione che il concetto stesso di nucleo familiare indiano…
Internet al giorno d’oggi è un fiume inesauribile di video che insegnano le discipline più diverse. Qualsiasi mansione altamente tecnica, che un tempo avrebbe richiesto l’osservazione diretta di un maestro all’opera per iniziare il processo di apprendimento, oggi può essere acquisita tramite una rapida ricerca su YouTube. Certo, è indubbio che occorra poi l’intento e il desiderio di fare pratica, per tutto il tempo necessario a raggiungere lo stato di grazia e massima produttività. Ma…Vuoi essere fabbro? Certo. Vuoi fare il pittore? Nessun problema. Vorresti addirittura…Non so, cucinare? Ecco, questa è la più probabile di tutte, direi. Perché ci sono 365 giorni in un anno, ed ogni anno di questa vita, come è noto, passa scandito da una quantità almeno equivalente di pasti. Tutti uguali, oppure ciascuno estremamente diverso dagli altri… È preferibile senz’altro la seconda! Ma per giungere a simili vette della variazione gastronomica, occorre spaziare fuori dal proprio più prossimo vicinato. Fare tesoro di un insegnamento che comunque noi siamo disposti a prenderlo, era lì, pronto per l’acquisizione e la reinterpretazione sulla preferenza di ciascuno di noi.
Certo, non sarà facile ricostruire tutta la sequenza di gesti e le particolari condizioni in cui lavora la Nonna. In particolare, sedersi a cucinare nel bel mezzo di una foresta, dalle nostre parti, potrebbe richiamare più di qualche piccolo visitatore indesiderato. Non sto parlando (solo) di volpi ed orsi. Lo sapete quant’è forte l’odore della cucina indiana? Beh, a quanto pare da quelle parti, le mosche non lo sanno. Strana, ed encomiabile verità. Ma è impossibile da negare. Però ecco, mi chiedo se le nostre sarebbero altrettanto educate…