Sei persone sulla pensilina, congelate ad aspettare un autobus che purtroppo non arriverà mai. Due pescatori seduti sull’argine del fiume, perfettamente immobili, le gambe più lunghe del normale per un probabile effetto dell’accumulo di forza di gravità. Bambini per la strada, e nella scuola, con i professori che li guardano intenti, a pronuncia una lezione totalmente fuori dall’umano. Decine, centinaia di testoline appena abbozzate, che scrutano dagli angoli gli alterni movimenti della loro Imperatrice. Chi non ricorda, tra i giovani della corrente generazione, l’antologico cartone animato della Principessa Mononoke, creato dal grande maestro Miyazaki per esporre le sue idee benefiche in merito all’ecologia, la responsabilità civile, il senso del dovere verso i parenti, gli antenati… Una creazione che costituiva, tra le altre cose, uno spettacolo visuale senza pari. I mostruosi cinghiali ricoperti di vermi, i guerrieri samurai, il meraviglioso lupo gigante, candido e feroce! E poi loro, tutti in fila per fare atto di presenza: gli spiritelli Kodama (木霊) che vivevano negli alberi, piccoli volti a margine dei lunghi sentieri dentro la foresta. Neanche una parola pronunciata, o un gesto che corroborava i personaggi principali. È un’immagine così straordinariamente giapponese! Questa sensazione che ci sia un qualcosa che ci guarda, sorvegliando tutti i nostri gesti, una pluralità di esseri che sono, in qualche modo, meno che umani. Eppure al tempo stesso, molto di più che umani. Talmente insita in questa cultura, che c’è una donna nella prefettura di Tokushima, presso l’isola largamente rurale dello Shikoku, che ha deciso di farne il suo stile di vita. Scegliendo di vivere in un luogo i cui abitanti, sostanzialmente, possa costruirli tutti lei. Ma per comprenderne la posizione storica, prima, una piccola nota sull’etimologia di questa parola, bambola.
Il primo carattere non è affatto complicato: si tratta di una stampella, uncino più, uncino meno, sistemata in posizione eretta sulla riga del foglio di carta. Rappresenta un qualcosa di… grossomodo verticale, con due basi solide (i piedi) non è dunque chiaro ciò di cui stiamo parlando? Si tratta di hito (人) persona, un carattere degli Han che i giapponesi usano, a seconda del bisogno, nei contesti e coi significati più diversi. È tutta una questione, chiaramente, di quello che c’è dopo: un kanji decisamente più elaborato. Che si compone, a sua volta di altri due (radicali) due tronchi uniti da una trave orizzontale e tre trattini diagonali, che ricordano l’acqua che cade ma in realtà, sono qualcosa di molto diverso. Simboleggiano ago e filo di colui che cuce, la pialla del falegname, l’attrezzo di tutti coloro che creano con le proprie mani per risolvere la situazione. I due caratteri posti di seguito formano katachi (形) la forma. Ma se davanti aggiungi anche quell’altro, otterrai ningyō (人形) la forma dell’umano. Ovvero in altri termini, la persona “creata”, il pupazzo dato in dono ai giovani bambini e a quelli non più tanto giovani, per ciò che simboleggia, i concetti che gli riesce di rappresentare. Il pupazzo antropomorfo è un concetto pregno in tutte le culture del mondo, spesso usato nei rituali religiosi, nelle cerimonie d’importanza sociale ed associato a momenti specifici della vita di ognuno. E questo è più che mai vero laggiù, in Giappone, dove per l’ottica della religione Shinto non esiste un solo oggetto destinato a rimanere eternamente inanimato, nessun dio, apparizione o spirito che possa esistere senza essere legato alla terra, ai nostri gesti, alle nostre cose. Durante il remoto Medioevo del periodo Heian (794 – 1185) abili artigiani creavano riproduzioni dei personaggi del romanzo della dama Murasaki, la romantica, amorosa e complicata vicenda di Genji, lo splendente principe del clan dei Minamoto. Simili oggetti venivano considerati simboli di alto prestigio, e non c’erba abitazione che avrebbe rinunciato all’opportunità di esporle. Mentre ancora oggi, ogni anni a marzo le bambine costruiscono l’altarino tradizionale della Hina Matsuri, con fino a 15 figurine rappresentanti i membri della famiglia imperiale. Mentre i loro fratellini, nel contempo, ricevono il pupazzo di Kintaro, il forzuto bambolotto cresciuto sulle montagne con la strega Yama-uba, spesso raffigurato mentre sconfigge un’enorme carpa in mare. Ma non c’è alcun tipo di conflitto, nel pacifico villaggio di Nagoro…
Il tutto ha una genesi remota che è, sostanzialmente, anche un’importante storia che ricorre nel Giappone moderno. Nel breve segmento del documentarista Fritz Schumann, pubblicato sul sito del National Geographic oltre che sul portale Vimeo, la donna racconta di un’epoca felice, in cui il villaggio di Nagoro era il sito abitativo del personale di una diga idroelettrica, successivamente chiusa, e qui vivevano diverse centinaia di persone. Allora lei era solo una bambina, ed era molto unita a suo padre. Con il trascorrere degli anni, dunque, e il conseguente depopolamento sempre più rapido delle campagne giapponese, anche il ridente villaggio nella verde valle di Iya venne progressivamente abbandonato finché anche lei, per ragioni forse lavorative, decise di trasferirsi a Tokyo. Senza portarsi però via sua padre, che resta legato alla sua amata pratica dell’agricoltura. Fast-forward all’inizio degli anni 2000, quando il caro genitore, ormai più che ottantenne, inizia ad avere bisogno di assistenza nella vita quotidiana. A questo punto, con doveroso rispetto filiale, ella fa ritorno ai luoghi della sua infanzia, dove resta accanto all’uomo fino al giorno della sua dipartita. Quindi, dopo una breve delibera fra se e se, inizia a pensare: “Perché mai dovrei tornare nella grande città? Io amo questo luogo.” E questo amore, dunque, inizia ad esprimerlo a modo suo: costruendo uno spaventapasseri con le fattezze di suo padre. Non soltanto le sementi, dunque, iniziano finalmente a crescere indisturbate, ma lei scopre che non c’è niente che possa tenerle compagnia, più che l’immagine idealizzata che è in grado di farsi delle persone. All’epoca del suo ritorno, in questo luogo vivevano ormai circa una trentina di persone, tutte notevolmente più anziane di lei. È inevitabile, a quel punto, che molti di costoro scelgano di trasferirsi in luoghi più prossimi agli ospedali, o ancor più rapidamente non facendo in tempo, raggiungano semplicemente l’epoca del proprio decesso. Così man mano che resta sempre più sola, Tsukimi costruisce altre bambole-spaventapasseri, spesso con le fattezze dell’ultima amica o amico che ha perduto. Gradualmente, inizia a creare anche personaggi di fantasia, dei quali si costruisce nella mente una precisa storia pregressa, onde poterli trattare da pari a pari. In un giorno particolarmente ispirato, poi, costruisce la bambola di se stessa, perennemente intenta a controllare un pentolone sul fuoco. Il messaggio è stranamente chiaro: “Qual’ora dovessi scomparire anch’io, la mia immagine sarà preservata.”
Ma forse una simile preoccupazione, dopo tutto, risulta essere prematura. La stessa donna racconta al filmmaker tedesco di essere sopravvissuta a così tanti dei suoi compaesani, da illudersi ormai di essere immortale. Una battuta (lo si capisce dalla risata nervosa che gli fa seguire) che tuttavia pare anche contenere un velato alone di minaccia: dopo tutto siamo nel paese di Okiku, la famosa bambola custodita nel tempio di Mannenji in Hokkaido, all’interno della quale risederebbe lo spirito di una bambina morta all’inizio del XIX secolo, alla quale, per l’effetto della sua presenza, crescerebbero i capelli fin da allora. Ma le stranezze non finiscono qui: un esame scientifico del giocattolo, infatti, avrebbe dimostrato che i suoi capelli sono quelli di una bambina vera. Non male, come sovvertimento preoccupante della fiaba di Pinocchio, nevvero? E chi può dire cosa possa capitare, da qui al completo spopolamento di Nagoro, quando tutti, persino la grande creatrice, saranno passati a miglior vita… Forse il remoto centro abitato potrebbe tornare nuovamente pieno dei suoni delle alterne vicende umane, la voce dei professori, il rombo dell’autobus prossimo al’arrivo. Ma neppure l’alito di una parola intelligibile… Il tutto accompagnato dal fruscìo della stoffa, e nulla più.