Il concetto stesso di paese definito “in via di sviluppo” può suscitare nell’europeo orgoglioso un ingiustificato senso di superiorità: perché se è vero che un luogo ha ancora margini di crescita, quando le nazioni del vecchio Occidente hanno raggiunto l’apice ormai da una ricca manciata di generazioni, è soltanto naturale che tutti gli altri abbiano ritardato nei loro progetti. Ovvero si siano abbandonati alla civile compiacenza che conduce alla stagnazione. Giusto? Perché mai…Dovremmo prendere in considerazioni le ragioni di contesto, come la necessità di unire sotto il segno del progresso un solo popolo storicamente sparpagliato per un territorio vasto, e montagnoso, attraverso i recessi di un territorio grande il triplo dell’intero Mar Mediterraneo! Un dettaglio piccolo, quasi insignificante. Dopo tutto, gli Stati Uniti non hanno avuto troppo a lungo un simile problema, con le loro ferrovie, o le interstatali interminabili che tagliano i deserti in due, tre, quattro parti. Oppure la Madre Russia, che è stata in grado d’instaurare un rapporto d’interconnessione normativa, con collegamenti stradali transiberiani dal Mar Nero fino alle acque gelide di Okhotsk. Però pensate a ciò che segue, adesso: entrambe queste nazioni, persino ora, sono largamente disabitate. Un’altissima percentuale della popolazione statunitense si trova concentrata sulle due coste e in prossimità della regione dei Grandi Laghi, mentre per quanto concerne l’ex Unione Sovietica, il popolo è adagiato in larga parte sul confine più ad Ovest, in prossimità di Kazakhistan, Ucraina e Bielorussia. Consideriamo quindi i numeri: In Europa vivono 743 milioni di persone. Negli USA, 318. In Russia, “soltanto” 143. Volete sapere invece quanta gente c’è in India? 1,215 miliardi. E in Cina? 1,357. Questo è quello che si intende quando ci si trova a dire: “Sono molti più di noi.” Moltitudini al di fuori della concezione umana. Che richiedono infrastrutture, per noi, semplicemente inimmaginabili.
Ed è questo lo scenario, sostanzialmente, in cui a partire dal 1989 il governo di Pechino ha iniziato il lungo percorso per la costruzione del Zhōngguó Guójiā Gāosù Gōnglùwng, il “Sistema Nazionale dell’Asse Stradale”, una collezione di 7 superstrade che si irradiano a raggiera dalla capitale, 11 che percorrono il paese in senso nord/sud e 18 tra est ed ovest, dando inizio ad uno dei più colossali impieghi del cemento nella storia dell’intera umanità. Negli ultimi 20 anni, dunque, la Cina è riuscita ad unire con simili strade moderne il 90% delle città con la popolazione al di sopra di mezzo milione ed il 100% di quelle al di sopra del milione. Nel farlo, inevitabilmente, ha dovuto raddoppiare il numero di ponti presenti nel paese. Perché come dicevamo, qui non c’è nulla degli ampi orizzonti e le vaste pianure dell’iconica frontiera del remoto, e selvaggio West. Ogni singolo chilometro, sostanzialmente, deve essere conquistato coi piloni e coi denti. Un’affermazione vera ancor più che altrove, qui nella regione centro-meridionale al confine tra la remota Guizhou e lo Yunnan, la terra celebre per i suoi ponti sospesi di vetro e le passerelle infisse nei lati delle montagne. Dove scorre “l’Impetuoso Fiume del Nord” (letteralmente: Beipanjiang) che attraversa tutto il territorio della provincia, scorrendo all’interno di un crepaccio così profondo, che le sue acque restano in ombra per la maggior parte dell’anno. Un valico inaccessibile, un baratro invalicabile. Tanto da aver costituito, negli anni, la ragione per costruire quella che costituisce molto probabilmente la maggior concentrazione di ponti ad alta quota del mondo intero, tra cui il Beipanjiang Guanxing Highway Bridge, lo Liupanshui-Baiguo ferroviario ed il viadotto G60 Hukun, tutti e tre rientranti a pieno titolo nella classifica dei più significativi al mondo. Oltre ad altri quattro, ciascuno dei quali sito a svariati centinaia di metri dal suolo. Ma nessuno tra questi, neppure lontanamente comparabile alla nuova meraviglia inaugurata sul finire della settimana scorsa, con grande pompa e copertura da parte giornali di tutto il mondo (almeno per questa volta, va detto, trattandosi della riservata Cina!) del Beipanjiang Bridge Duge, un titano tra i titani, un vero mostro d’ingegneria applicata che può giungere a sfidare l’immaginazione. Per comprendere immediatamente ciò di cui stiamo parlando, iniziamo dai numeri: 565 metri d’altezza (equivalenti ad un palazzo di 200 piani) per 720 di lunghezza. Un costo di 143 milioni di dollari, di cui una parte significativa investita nella ricerca scientifica, soltanto per concepire un modo che permettesse di assemblare una simile struttura nelle condizioni ventose e inospitali della valle del Beipanjiang. Ma vediamo di approfondire, per quanto possibile, ciò di cui stiamo effettivamente parlando.
Durante un’intervista al canale della CCTV, il capo ingegnere Zhou Ping parla di un metodo costruttivo che lui definisce erezione della trave a sbalzo con lancio longitudinale. E benché sia difficile risalire all’effettiva metodologia, è facile presumere che si tratti di una versione perfezionata del processo mostrato nel video soprastante relativo al ponte sul fiume Ganga di Patna, la seconda metropoli più grande dell’India orientale. Lo stesso portale World Highways parla in effetti della presenza sul sito del Beipangjiang Duge di ben sei colossali gru della Potain, molto probabilmente superiori alle esigenze relative alla costruzione dei soli piloni. Ciò che deve essere successo, dunque, dall’apertura del cantiere fino alla recente inaugurazione del ponte, è l’effettiva costruzione in loco di ciascun singolo componente della struttura, senza l’impiego di parti considerevoli prefabbricate. Si tratta di un approccio molto tecnologico e moderno, che comporta l’impiego di particolari soluzioni meccanizzate e strumentazione molto avanzata, con un sistema che in determinate condizioni permette di ridurre sensibilmente i costi. Ma soprattutto, e questo è l’aspetto chiave dell’intera faccenda, risulta l’unico metodo utilizzabile quando il suolo dista svariate centinaia di metri, ed ogni sezione del cavalcavia deve essere in grado di sostenere quella successiva, mano a mano che si procede nell’estensione dello stesso, non potendo per ovvi motivi fare affidamento su strutture temporanee di alcun tipo.
In questo, va certamente specificato, anche la tipologia architettonica del Duge è stata assolutamente funzionale allo scopo, trattandosi nei fatti di quello che viene definito nel gergo italiano un “ponte strallato” ovvero una soluzione alternativa al vero e proprio suspension bridge, come è ad esempio invece il leggendario Akashi Kaikyō giapponese, che unisce l’Honshu all’isola di Awaji. O almeno tecnicamente, anche il ponte di Brooklyn, che tuttavia usa un sistema intermedio per certi aspetti ricorda quello della nuova creazione cinese. In uno strallato, infatti, manca il cavo a parabola che si estende tra le torri, a sua volta assicurato con dei segmenti portanti alla superficie della carreggiata, sostituito piuttosto da una serie di tiranti (per l’appunto, gli stralli) che si irradiano dal punto più elevato per trovarsi direttamente a contatto con quest’ultima. Il risultato è una struttura più economica, generalmente anche più bassa ed esteticamente appagante, la quale può tra l’altro godere del pieno sostegno strutturale in ogni fase presa in analisi della sua parziale edificazione. Un aspetto semplicemente vitale, questo, nel caso dell’inaccessibile Duge. Esistono due tipi di ponti strallati, a ventaglio, nel quale tutti i cavi partono dalla cima del pilone, e ad arpa, dove invece sono assicurati ad altezze diverse e progressive lungo l’estensione dello stesso. Nel caso che stiamo analizzando quest’oggi, la soluzione scelta è la seconda, benché non ci sia dato di sapere se la scelta sia stata in qualche maniera funzionale allo scopo, piuttosto che una semplice preferenza estetica dei progettisti. Personalmente, lo trovo anch’io più bello da vedere.
Un’impresa importante, quindi, e senza alcun dubbio meritevole di tutta la nostra stima. C’è questo luogo comune, in merito all’inclinazione tecnica cinese, che porterebbe questo popolo a favorire la rapidità e l’economia dei materiali, piuttosto che la realizzazione di un qualcosa di solido e duraturo. Mentre la realtà dei fatti, specie negli ultimi anni, sta dimostrando l’esatto opposto, visto il grado di perizia ingegneristica assolutamente necessario anche soltanto per poter pensare di portare a termine progetti tanto complicati e risolutivi.
Il futuro economico della Cina, a questo punto, potrà anche sembrare incerto, con il miracolo economico dell’industria di scala che appare rallentato dalle attuali condizioni insoddisfacenti della finanza internazionale, ma almeno una cosa sarà sicura: che per raggiungere la città di Ruli e il confine del Myanmar dalla metropoli di Hangzhou (sei milioni di abitanti) da oggi saranno necessarie solamente due ore, contro le 6 di strade pericolose e contorte tra i dirupi che continuano a circondare il corso del Beipan. Migliaia di camion, vetture ed autotreni percorreranno, ogni settimana, un simile fondamentale tragitto. E sono forse proprio le loro corse, più di un ipotetico turismo dei paesaggi che molto probabilmente non giungerà mai, oppure l’aderenza ad un princìpio di sacralità della natura che ormai è necessariamente decaduto da tempo, quello che ci aiuterà a tamponare l’entropia di un sistema nazionale forte ma delicato, purtroppo in bilico sul baratro della crisi. Si tratta di un sacrificio che ci coinvolge tutti, nessuno escluso.