Uno dei punti principali della seconda serie di una delle saghe fantascientifiche più famose del Giappone, il mai abbastanza celebrato “Zeta” Gundam di Yoshiyuki Tomino, tra gli aspetti maggiormente sorprendenti va citato il fatto che il mecha (ehm pardon, mobile suits) pilotato dal protagonista Kamille Bidan, per tutta la prima metà degli episodi non aveva, davvero, proprio niente di particolare. Intendiamoci: l’RX-178 Gundam Mk-II, per l’epoca dell’entrata in servizio dei suoi tre prototipi immediatamente rubati dall’AEUG, il Fronte di Liberazione Terrestre nell’anno spaziale 0087, aveva alcune doti certamente degne di nota: era in primo luogo particolarmente agile, grazie all’impiego per la prima volta del sistema movable frame, in cui la corazza veniva fissata direttamente allo chassis del mezzo bipede guerriero. E una cabina di comando con cockpit panoramico, in grado di dare al pilota una visibilità migliore della situazione di battaglia. Ma risultava nel contempo privo del rinforzo alla corazza offerto dal titolare gundamium o Luna titanium, il materiale che aveva offerto molte delle seconde opportunità in combattimento all’eroe per caso della prima serie, Amuro Ray. Ed è proprio questa, la sostanziale differenza tra le due vicende narrate: scegliere per questa volta un protagonista meno maturo, intellettualmente instabile, con palesi difetti di carattere e che in generale sembra essere molto meno “una brava persona” ma che nel contempo vince le sue battaglie, ed aiuta l’esercito della parte dei buoni (per intenderci, quelli meno simili ai tedeschi della II guerra mondiale) grazie ad un’abilità di pilotaggio totalmente fuori da qualsiasi parametro precedente. Nelle classifiche periodicamente stilate su chi fosse il miglior pilota di Gundam, Kamille è spesso vincitore, benché venga generalmente raffigurato assieme al suo mecha più famoso, il successivo, e molto più performante Zeta Gundam, destinato a rimanere competitivo per un centinaio buono di episodi, venendo impiegato ancora dal successore Judau Ashta contro l’esercito del redivivo Neo Zeon, la forza reazionaria galattica destinata a risorgere un infinito numero di volte, al servizio di una trama sempre più simile all’idea originale che ci eravamo fatti di essa.
Ma non in quel caso, non nella storia di quei fatidici momenti: Zeta costituisce, a mio parere, un esempio splendido di come possa continuare e rinnovarsi un racconto di fantasia, sovvertendo una quantità di cliché superiori persino a quelli della serie Trono di Spade, e con una realistica spietatezza contro gli eroi del racconto che, aggiungerei, lo accomunano ulteriormente a un racconto fantasy televisivo che ha fatto e continuerà a fare epoca, ancora per molti anni a venire. Proprio per questo, nonostante non si tratti certo di uno dei mobile suit più riconoscibili ed amati, approvo la scelta del grafico ed artista di origini ucraine Taras Lesko alias VisualSpicer, naturalizzato statunitense, che il Gundam Mk II ha deciso di ricostruirlo a un’altezza di oltre 2 metri, utilizzando il più accessibile, eppure imprevisto dei materiali: la carta. Di questo l’autore, che tra le altre cose collabora da tempo con gli autori della famosa serie di videogiochi automobilistici Forza Motorsport dei Turn 10 Studios, aveva già saputo farne un marchio di fabbrica, con un canale di YouTube personale che è un repertorio spropositato di automobiline (e non tanto -ine) ricavate dalla sua reinterpretazione dell’arte tipicamente nipponica del pepakura (papercraft) ovvero la piegatura, ritaglio ed incollatura della candida cellulosa. Un approccio diverso da quello dell’origami, che invece prevede l’impiego di un singolo foglio di carta, limitando così necessariamente la grandezza del risultato ottenibile, soprattutto quando il soggetto raffigurato presenta un notevole tasso di complessità. Mentre con il presente metodo, è sostanzialmente possibile continuare ad aggiungere, ancora ed ancora, fino al raggiungimento di un qualcosa che sia chiaramente enorme, gigantesco, torreggiante, persino una percentuale tangibile dell’originale oggetto ispiratore di una simile idea.
Il bello dell’artista VisualSpicer, ad ogni modo, è che lui non si limita a riprodurre con pedissequa precisione, ma per le sue opere migliori non manchi d’introdurre un certo numero di ritocchi nel soggetto stampato, qualche volta facilmente condivisibili, altre, indubbiamente parecchio personali. Il suo Gundam, fra tutti, ne è l’esempio migliore: avrete forse notato, nella parte frontale del mecha, una vistosa croce latina dorata, presumibilmente inclusa per analogia con l’armatura dei cavalieri medievali, benché l’ispirazione dominante di questi robot sia sempre stata, molto giustamente, quella della tenuta bellica dei samurai. E non finisce qui: sulle spalle del mecha, e in diversi altri punti della sua struttura, sono state incorporate svariate citazioni della bibbia (come mostrato chiaramente dal sito ufficiale del progetto) e addirittura un logo triangolare con iniziali che alludono a Padre, Figlio e Spirito Santo. Invece che dalla AEUG, tra l’altro, il mecha sembra essere stato ri-brandizzato da un misterioso “RLPG” o Radiant Light Peace Group. Forse il braccio armato di un’ipotetica setta religiosa futura? Non è comunque chiaro a cosa volesse alludere l’artista, visto come la serie di Gundam sia sempre stata, fin dalla sua creazione, del tutto priva del tema della religione, volutamente accantonata a favore di una visione iper-razionalista e per certi versi, marcatamente socialista degli eventi storici vissuti dai protagonisti. Sembra quasi di stare assistendo ad un improbabile crossover con Evangelion di Hideaki Anno, la serie mecha maggiormente infusa di filosofia pseudo-cristiana! Ma in definitiva stiamo probabilmente vedendo, coi nostri stessi occhi, l’applicazione di una forte spiritualità personale, che costui ha ritenuto di infondere anche nel suo nuovo robot preferito.
Scelta che invece sceglie, molto saggiamente aggiungerei, di soprassedere nel caso dell’automobile migliore che ci abbia mostrato online, una spettacolare Lamborghini Aventador della polizia lunga ben 244 cm, anch’essa costruita unicamente mediante l’uso di “carta” (non mi sorprenderei se si trattasse di cartoncino plastificato) chiaramente estratta con estrema fedeltà rappresentativa dal videogame Need For Speed Hot Pursuit, anche perché i modelli in servizio presso le forze dell’ordine italiane per il trasporto degli organi, come forse già saprete, sono delle Gallardo e Huracàn. L’automobile, targata con un minaccioso COMING4YOU e recante la dicitura della realmente esistente King County nello stato di Washington, ha la caratteristica notevole di essere stata realizzata senza l’aiuto di un plotter, l’apparecchio per il taglio automatico della carta normalmente usato da VisualSpicer nei suoi lavori. Questo perché, molto semplicemente, i fogli impiegati erano troppo grandi per riuscire a passarci dentro. Alla fine, per evidenziare le titaniche proporzioni dell’oggetto, l’autore arriva a metterlo sopra un reale carrello elevatore da meccanico, per inscenare un cambio di pneumatici assolutamente conforme a quello di un’auto vera.
Internet è un mare pieno di spunti creativi, ciascuno chiuso in uno scrigno adagiato sul fondale delle aspettative personali. Vedere questi capolavori di carta prendere forma, semplicemente sapere che esistono, può costituire un varco oltre il quale si nascondeva un possibile hobby, il passatempo di innumerevoli ore di divertimento.
Chi può dire, davvero, di essere immune al fascino intramontabile, ma intrinsecamente transitorio, di questo onnipresente materiale, la carta? Perché le creazioni tecnologiche migliori, reali o di fantasia, sono composte per almeno i tre quarti dalla pura funzionalità. Ma il resto è fascino visuale, instradato attraverso i viali del puro design. Che si tratti di mecha, oppure di car (che tra l’altro, a voler usare il termine secondo il significato giapponese, è pur sempre un mecha, nonostante le quattro ruote). Saper fare impiegando le proprie stesse mani, quindi, diventa “un dono del Signore” come afferma questo abile creativo, ma anche un grande dovere verso se stessi. Non c’è spreco maggiore, in un’epoca di telecomunicazioni e condivisione pressoché perfetta, che restarsene soli all’interno del proprio laboratorio, rifiutando del tutto l’opinione del mondo.