E se vi dicessi che dentro la credenza della vostra cucina, tra le tagliatelle di Nonna Peppina e la scatola dei cereali Schocko Chops, è presente un principio attivo imbottigliato, dalle qualità note fin dall’epoca di Plinio il Vecchio, in grado di salvarvi la vita durante una tempesta in mare? Le case del giorno d’oggi sono piene di risorse inaspettate: forcine per scassinare, forchette per attaccare i quadri al muro, coltellini svizzeri per costruire un F-117 Nighthawk (se di cognome fate MacGyver) ma gli alimenti, normalmente, sono sacri. Qualche esempio? “Non piangere sul latte versato”, “L’imprevisto è il sale della vita” oppure “Con olio, aceto, pepe e sale, sarebbe buono uno stivale.” Ma tra i diversi fondamentali condimenti del vivere mediterraneo, c’è n’è uno, in particolare, che si trova parte di un idioma provenienza molto più specifico “Essere come l’olio tra le onde” dicevano i marinai. Ovvero: placare gli animi esagitati. Per riuscire a comprenderne la ragione, proviamo ad osservare questo breve esperimento di Greg Kestin, che ne fu autore qualche mese fa presso il suo canale di YouTube What the Physics, molto interessante ma, purtroppo, abbandonato dopo la pubblicazione di soli cinque video. In quello in oggetto, lui si inoltrava in barca a remi fino al centro di un laghetto di medie dimensioni. Quindi, ben sapendo cosa stava per accadere, versava in esso un solo mestolo di olio d’oliva. Ottenendo un risultato drammatico e, per certi versi, totalmente sorprendente: le acque della polla d’acqua in questione, infatti, delicatamente increspate dal vento, all’improvviso si placavano diventando lisce come uno specchio, per un’area circolare a partire dal punto “contaminato” di svariati metri. Dopo soltanto qualche attimo, trovandosi sull’imbarcazione pareva di essere stati trasportati all’interno di una piscina chiusa per ferie, mentre al di fuori del raggio d’azione, sotto i propri stessi occhi di navigatore, le onde continuavano a sussistere normalmente. Incredibile, vero?
Ma il potere dell’olio può fare molto, molto più di questo. Nei resoconti marinareschi si narra di galeoni sorpresi da una burrasca, scaraventati da una parte all’altra e prossimi all’affondamento, che all’ultimo momento decidevano di gettare fuori bordo i barili d’olio custoditi nelle loro cucine. Così questi ultimi, sbattendo contro lo scafo, si spezzavano rilasciando il loro contenuto tra l’acqua salmastra, e i cavalloni parevano in qualche modo placarsi. Una procedura di sicurezza tutt’ora valida, ma non più praticata su larga scala principalmente per mutazioni nelle procedure nate a seguito della coscienza ambientalista moderna, prevedeva che in caso di uomini caduti in mare le navi rilasciassero immediatamente l’ambrata e gustosa sostanza, in quantità sufficientemente copiosa da generare attorno al malcapitato una sorta di campo calmo, tale da incrementare notevolmente le sue probabilità di sopravvivenza. Proprio per questo, in taluni modelli di scialuppe di salvataggio è tutt’ora presente la sacca a tenuta stagna del cosiddetto storm oil, l’olio da tempesta, che si suppone venga impiegato durante l’eventuale naufragio per trarre in salvo quanti più passeggeri possibili ed attendere i soccorsi. A patto, naturalmente, che qualcuno tra i già salvati sia informato sul suo utilizzo presunto. Il panico, si sa, non è il migliore dei consiglieri.
Queste capacità salvifiche dell’olio, come dicevamo, era nota fin dal mondo antico, e ne avevano parlato in modo approfondito, oltre allo storico ed ammiraglio Plinio, anche Aristotele e Plutarco. A meno di volersi spingere in un’epoca molto più recente, tuttavia, le ipotesi sul perché accadesse un simile miracolo restavano, a dir poco, piuttosto nebulose: c’era chi diceva che ungere lo scafo rendesse le navi più manovrabili, che scacciasse il vento, mentre altri erano pronti a giurare che il fluido fosse un’offerta gradita da Poseidone. I pescatori del nord della Scozia e della costa della Norvegia, successivamente, furono soliti gettare il fegato dei pesci catturati di fronte alle loro imbarcazioni prima di affrontare una secca o un approdo particolarmente pericoloso, recitando una preghiera agli dei del mare. Molti fra di loro, tuttavia, conoscevano la verità: che spremendo dette interiora con forza prima di lanciarle fuori bordo, si otteneva da esse un’essenza untuosa, la cui natura ed effetto (ma non il sapore, bleah!) assomigliavano da vicino alla stessa essenza d’oliva impiegata per questo scopo dagli antichi romani. Il primo studioso ad effettuare un’analisi approfondita di questo fenomeno fu il celebre americano Benjamin Franklin, come è noto, uno dei padri di quella nazione. Che oggi resta famoso sopratutto per i suoi esperimenti con l’aquilone ed i fulmini, ma fu in effetti, un grande osservatore di tutti i fenomeni naturali, anche quelli a cui gli capitava di assistere per puro caso…
La leggenda vuole che nel 1757 Franklin, qualche anno prima della guerra rivoluzionaria delle colonie contro gli inglesi, stesse recandosi per mare presso re Giorgio II Augusto di Hannover, per presentare una petizione del Parlamento contro le attività della famiglia Penn, i proprietari della Pennsylvania. E che appena lasciato il porto di New York, avendo incontrato un mare piuttosto agitato, egli ebbe modo di notare come due navi del convoglio sembrassero navigare in maniera molto più tranquilla e regolare. Interrogato quindi il capitano in merito alla stranezza della cosa, la risposta che ottenne fu: “Ah si, è ovvio! A quanto pare, i marinai a bordo stanno versando dell’olio fuoribordo.” Rimasto profondamente colpito da questo dato, di cui non era affatto a conoscenza (Internet ancora non c’era) il grande scienziato lo annotò più volte nei suoi diari in momenti successivi, e prese l’abitudine di sperimentarne l’efficacia nelle condizioni e nei casi più diversi. A tale scopo, si dotò di un bastone da passeggio con un’anima cava, all’interno della quale manteneva una certa quantità d’olio. Ogni qual volta si trovasse circondato da osservatori disinformati ed in prossimità di una certa quantità d’acqua, quindi, era solito rilasciare il contenuto dell’oggetto, placando “magicamente” le onde in prossimità dei suoi piedi. Essendo anche un rinomato burlone, quindi, non sempre spiegava l’origine di questo fenomeno misterioso. Ma i suoi studi erano assolutamente seri e almeno in un caso, nel 1774 in una lettera inviata ad alcuni colleghi, arrivò molto vicino a comprendere le implicazioni di questa scoperta: “L’olio che ho sparso presso lo stagno di Clapham è diventato così sottile da produrre i colori prismatici, pur essendo praticamente invisibile nel punto del rilascio, e diventandolo del tutto poco più in là. Nonostante questo, la sua azione continuava a placare le onde per molti metri dalla sparizione…” In un altro celebre momento, Franklin calcolò matematicamente il numero di persone che potevano sentire la voce di un famoso predicatore, sulla base dello spazio occupato in media da individuo umano adulto. Se soltanto gli fosse venuto in mente di combinare i due studi, egli avrebbe scoperto, con un secolo e mezzo d’anticipo, la misura esatta di una molecola d’olio.
Per l’appunto: questa è la ragione il nesso dell’intera questione. Quando l’olio si spande sull’acqua, senza mescolarsi ad essa, non lo fa spinto unicamente dalla forza di gravità e la tensione di superficie. Ma per l’effetto degli ioni negativi contenuti dagli atomi di quella sostanza, che inevitabilmente vengono attratti da quelli positivi delle particelle di acqua sottostante. Il che significa che, in assenza di forze contrarie, l’olio aderisce alla superficie del fiume/lago/mare con una forza considerevole, e sopratutto tende a rimanere parte di un’indivisibile tutt’uno. Il vento, quindi, che aderendo alla viscosità dell’acqua genera normalmente le onde, in quel caso non può far altro che spostare lungo la superficie la macchia d’olio, che tuttavia resta del tutto priva d’increspature. Naturalmente, ci sono dei limiti alla forza di questo effetto, ma nel 1886 A. B. Wyckoff, capo dell’Ufficio Idrografico Americano scriveva nel suo testo The Use of Oil in Storms at Sea che un solo gallone (3,7 litri) d’olio potesse proteggere una nave per un periodo di fino a 24 ore. A tale scopo, su determinati vascelli, veniva designato il ruolo del “ragazzo dell’olio” che posizionato presso la prua, versava continuamente una certa quantità del prezioso fluido, assicurando una navigazione più confortevole per i passeggeri a bordo.
Il calcolo che Franklin non ebbe mai modo di effettuare, tuttavia, non restò per sempre sconosciuto alla scienza. E fu John William Strutt Rayleigh, professore di scienze naturali presso il Royal Institute di Londra, autore di una serie di importanti esperimenti sull’elettromagnetismo, a pensare per primo di misurare quanto olio fosse necessario esattamente perché la macchia alta una molecola ricoprisse un contenitore dal diametro di 84 cm. Effettuando il rapporto tra i due valori, quindi, egli ottenne la prima misurazione molecolare della storia: era il 1890, e una molecola d’olio occupava esattamente 16,3 ångström. A quanto mi è dato di sapere, è ancora esattamente così.
Lord Raleygh scriveva: “Lo strato d’olio sull’acqua forma una sorta di inestensibile membrana galleggiante, che non si presta alle ondulazioni generate normalmente dal vento. Essa può diffondersi soltanto in maniera uniforme.” Lo scienziato stava descrivendo, essenzialmente, lo stesso effetto idrofobico che caratterizza la formazione di tutte le molecole di tipo organico e biologico, alla base della formazione dello stesso organismo umano. Ma prima che qualcuno potesse comprendere questo aspetto bidimensionale della nostra stessa essenza di creature pluricellulari, sarebbe stato necessario aspettare fino al 1925, per gli studi del biologo olandese Evert Gorter.
Fin dall’antichità, i cacciatori di perle del Mediterraneo spargevano l’olio sulla superficie prima di tuffarsi, allo scopo di placare l’acqua e permettere la penetrazione di una quantità maggiore di luce. Questo gli permetteva, come trasmesso dai loro stimati predecessori, di scovare con maggiore efficienza i tesori nascosti negli abissi. Ma essi non sapevano che la ricchezza più grande si trovava, nel corso di tale procedura, sopra le loro stesse teste. La preziosa conoscenza della natura e filosofia del mondo.