Siamo abituati ad accettare i danni alle strutture artificiali come una conseguenza inevitabile dei terremoti, che ci ricordano la nostra posizione insignificante nell’ordine geologico delle cose. Cos’è in fondo l’uomo, dinnanzi alla preponderante essenza della natura? Nient’altro che un buco nel muro del mondo, una crepa nel soffitto del tempo, una spaccatura nel marciapiede delle circostanze. Nel contempo, tuttavia, sarebbe difficile mettere allo stesso piano questo pianeta, la cosa inanimata più grande ed importante delle nostre intere intere vite di esseri dotati di una briciola di raziocinio. “Non si spostano nemmeno le montagne” Si usa dire, oppure: “Loda il mare e tieniti alla terra” quasi a voler confermare che non c’è nulla di più certo, immutabile e solido delle linee che percorrono le nostre mappe, valide oggi come al tempo di Gerardo Mercatore, se soltanto quest’ultimo avesse avuto lo strumento della localizzazione GPS… Eppure, basta guardarle queste raffigurazioni geografiche, per iniziare a sospettare che non sia per niente così così. Le Americhe sono due ammassi frastagliati, collegati da un’istmo colossale stretto e contorto; il Giappone è un pezzo d’Asia messo da parte, separato con il colpo di una spada colossale; l’India, una pinna di squalo all’incontrario, sospesa in un oceano costellato di vulcani. In ciascuna di queste terre, e molte altre assieme ad esse, è possibile notare l’influsso dei processi geologici stessi, la deriva dei continenti che ebbe origine con la creazione del nostro sferoide rotante, che non ebbe mai lo stesso aspetto al termine di un secolo o un eone.
Ebbene continuando a muoverci verso occidente, in questo viaggio con lo sguardo sopra un grosso mappamondo, incontriamo necessariamente questo luogo. Non c’è n’è alcun altro simile, per quanto ne sappiamo, così profondo rispetto al livello del mare (-155 metri) e delimitato da ripide pareti che corrispondono nei fatti allo spessore della crosta terrestre africana. Al confine tra l’Eritrea e lo stato del Gibuti, dove il Corno d’Africa si estende per formare il golfo di Aden, c’è un territorio inospitale in cui s’incontrano tre placche: la Somala, l’Indiana e l’Araba. Così nel cuore di un territorio arido, il deserto di Danakil, si verifica la condizione atipica di una giunzione continentale sulla terra ferma, analoga a quella delle dorsali che corrispondono all’Islanda o alle Hawaii, ma ancor più eccezionale se vogliamo, in quanto tripartita. Ed è proprio qui, tra le sabbie quasi eterne, che sorge la catena di monti e fiamme occupante un’area di 2350 Km quadrati di nome Erta Ale, a cui appartiene il vulcano attivo di Dabbahu. Che il 26 settembre del 2005 eruttò sonoramente in concomitanza con un grave terremoto. Al termine del quale, nel suolo dell’avvallamento antistante comparve istantaneamente una nuova crepa estesa per 60 Km e larga 8 metri. Profonda, a seconda del punto preso in esame, fino all’equivalente di un palazzo di 25 piani. Un suono sepolcrale riecheggiò per la radura. Quindi, migliaia di tonnellate di suolo magmatico furono scaraventate verso il cielo, per poi ricadere seppellendo pecore e cammelli, gli armenti delle coraggiose popolazioni che abitano in questi luoghi… Non molto accoglienti. Dove prima c’era un tutt’uno, adesso sussistevano due lembi, con al centro un ripido fossato. L’Africa aveva iniziato a spaccarsi in due.
La fessura di Dabbhau, come è stata denominata dagli studiosi, non è in realtà che l’ultima dimostrazione superficiale di un processo molto più antico, che vede una tendenza delle tre placche succitate a separarsi progressivamente, di uno spazio approssimativo di un centimetro l’anno. Verrà un giorno, quindi, stimato sui 10 milioni d’anni a partire da oggi, in cui le terre attraverso le quali fuggì Mosè con il suo popolo saranno ricoperte dalle stesse acque che Egli scatenò contro l’esercito degli Egizi, e i due mondi dell’Africa e l’Arabia torneranno nuovamente ben distinti e separati, come vascelli in viaggio verso una remota isola del dopodomani. Niente di troppo imminente, dunque. Questo è scritto nelle Tavole e nel Libro. Ma del resto questo non significa che, osservando un simile fenomeno in corso di realizzazione, non si possa assistere ad eventi totalmente eccezionali…
La depressione di Danakil è una regione posta nell’area settentrionale del triangolo di Afar, dove infiltrazioni d’acqua piovana sono penetrate fino al sottosuolo, in quello che si ritiene esser un cosiddetto pennacchio del mantello terrestre, ovvero una riserva spropositata di magma pronta ad esplodere come una polveriera. Il liquido delle precipitazioni quindi, evaporando in parte, si è riscaldato fino generare una pressione sufficiente a ritornare in superficie, trascinando con se incrostazioni di sale, zolfo ed altri minerali, andando a creare un territorio che persino definire alieno, sarebbe ancora riduttivo. Le modificazioni chimiche subite dal pH dell’acqua l’hanno trasformata in acido corrosivo, mentre vapori potenzialmente letali permeano l’aria tersa e rarefatta proveniente dal deserto vero e proprio. Come un’oasi verde fluorescente, questo luogo rompe la monotonia del paesaggio, ed offre al viaggiatore l’occasione di godere di una temperatura meno elevata per tutto il tempo del suo soggiorno. Ma se soltanto costui osasse bere un singolo sorso dell’acqua contaminata, la sua morte sarebbe niente meno che sicura: a tal punto sono tossiche, le sostanze provenienti dalle viscere del nostro mondo.
A meridione di questo scorcio all’apparenza degno del pianeta Venere, si estende un’ampia pianura, il cui suolo ha un’alto contenuto di materiali di provenienza vulcanica, tra cui soprattutto basalti. Questo è molto rilevante, poiché lo accomuna ad un ambiente molto specifico del nostro pianeta: il fondo degli oceani. È quasi come se, guidata da una coscienza misteriosa, la Terra avesse determinato il futuro destino di questi luoghi, che un giorno torneranno allo stato primordiale di terre sommerse, eliminando in un singolo momento i millenni di storia appartenenti alle tribù locali del popolo omonimo degli Afar. Genti nomadiche e notevolmente persistenti, di religione islamica e tradizionalmente dei mercanti, che oggi sopravvivono soprattutto grazie alla risorsa fondamentale dei loro armenti oltre a un certo afflusso di turisti, non particolarmente intenso ma comunque costante. Tra le destinazioni preferite da questi ultimi, il grande lago magmatico nella regione più elevata dei vulcani di Erta Ale, forse il più antico e spettacolare del mondo. E un altro avvallamento, pieno questa volta d’acqua salata, che costituisce il punto più basso di tutto il continente africano: l’importantissimo lago di Assal.
Abbiamo accennato poco sopra al fatto che il popolo di Afar sia sempre stato un praticante degli scambi commerciali, con l’Etiopia e le carovane provenienti dalla penisola araba, ma non abbiamo specificato esattamente di che cosa. Quale ricchezza potrebbero, in effetti, possedere gli abitanti di un luogo tanto remoto e inospitale? Risposta: la più grande di tutte, ovvero il sale. Questo perché nelle acque del lago di Assal, per cause probabilmente collegate ad un’infiltrazione sotterranea proveniente dall’Oceano Indiano, unita a particolari processi geologici comparabili, ma meno mefitici rispetto a quelli della depressione di Danakil,ve n’è una concentrazione di 10 volte superiore a quella del mare, consentendone l’estrazione mediante evaporazione e il conseguente trasporto fino ai più vicini mercati regionali. Una pratica portata avanti, fin dalle nebbie dei tempi, grazie a lunghe carovane di cammelli, ciascuna delle quali lunga, e intramontabile, quanto la spropositata fessura di Dabbahu.
Il futuro di questi popoli, dunque, appare doppiamente incerto. Sia nel tempo lungo, per la voragine che minaccia d’inghiottire un giorno le loro terre, sia per i tentacoli del mercato globalizzato, che almeno stando al video soprastante di Africa LIVE, starebbe vedendo la concessione di permessi d’estrazione a grosse multinazionali del sale. E se neppure vivere in uno dei luoghi più inospitali dell’intero pianeta Terra, può bastare a concederti la serenità di vivere in pace e senza condizionamenti, viene da chiedersi davvero se non sia meglio accogliere con gioia l’ora della fine… Ovvero gli sconvolgimenti tellurici di un pianeta che, senza il bisogno di comprendere o avvicinarsi alla nostra visione delle cose, interagisce con il fato e modella i sentieri del suo domani. Affinché l’apertura dell’ennesima voragine, con conseguente distruzione di tutto quello che abbiamo di più prezioso, diventi la porta spalancata su un domani ricco di opportunità. Con noi. Senza di noi. Dal punto di vista cosmico, che differenza fa?