Tutti i koala, come è noto, si nutrono esclusivamente delle foglie di una delle 700 specie di questo genere di alberi alti fino a 100 metri, i più imponenti ad essere dotati di fiori al mondo. Ma non tutti gli eucalipti, dal canto loro, vengono mangiucchiati dai koala. Per un fatto totalmente basilare: alcuni di questi massicci tronchi non gettano la loro lunga ombra sull’Australia. Intanto per la vasta esportazione che ne è stata fatta, in funzione della loro utilità come alberi per il legname, per produrre la carta e per l’olio assai particolare che ricopre le loro fronde, usato nella creazione dei profumi, anti-zanzare, medicinali omeopatici e prodotti per la pulizia di casa. Si tratta, inoltre, di piante dalla crescita ultra-rapida, in grado di crescere fino a 3 metri nel giro di 12 mesi. Esistono foreste artificiali, piantate in Uruguay e Brasile, che si espandono di 30 metri cubi per ettaro ogni anno, risucchiando una quantità d’acqua e sostanze nutritive dal suolo totalmente impressionante. Ma ci sono anche 15 specie che fin da tempo immemore sono cresciute naturalmente fuori dal continente dei canguri, trovandosi nell’Asia meridionale, Indonesia e il resto dell’Oceania. Tra queste, nove sono addirittura sconosciute in patria. Ma una sola è attestata nell’emisfero settentrionale, presso l’isola di Manitoba: essa costituisce, sotto un significativo punto di vista, l’albero più spettacolare al mondo.
Sostanzialmente, siamo abituati a definire le piante come variopinte unicamente in funzione dei loro fiori: il più anonimo dei cactus, per soltanto pochi giorni l’anno, si riveste dell’abito infuocato che costituisce la sua via d’accesso alla riproduzione. Ci sono vegetali, come il tulipano o la rosa, la cui stessa esistenza in cattività è giustificata unicamente dall’estetica appagante di quei petali setosi. Mentre il fiore dell’eucalipto, per quanto interessante dal punto di vista botanico, non ha caratteristiche particolarmente d’impatto: si tratta di un ammasso di stami bianchi, che si diramano da un corpo centrale. Il quale fino a un attimo prima del momento della verità è rinchiuso in una capsula verdognola da cui prende il nome l’intero albero (dal greco eu: ben + calypto: coperto) la quale può spalancarsi nel giro di poche ore. Con la crescita degli stami, l’operculum si separa andando a formare il frutto dalla vaga forma di un cono, che gradualmente rilascia i semi da un’apposita serie di aperture. Anche nel caso in cui nessun uccello o altro animale di passaggio dovesse riuscire a fagocitarli, in questo modo l’albero si assicura per lo meno un tentativo di gettare via lontano il proprio patrimonio genetico, affidandosi all’estrema altezza dei suoi rami.
Tutto molto bello, quindi, ma non COSÌ bello; il fascino dell’Eucalyptus Deglupta, o E. arcobaleno, viene da tutt’altra parte: il suo stesso tronco. Si, proprio così: quella parte dell’albero, normalmente piuttosto anonima e incolore, che scaturendo dal terreno sorregge l’alto corpo frondoso. Attirando, in questo caso, la massima percentuale degli sguardi. E ti credo! In se racchiude un’armonia di verdi, chiari e scuri, marroni, rossi, persino blu e viola, disposti a strisce come dalla pennellata di un’artista folle. Giungendo per la prima volta al cospetto di una macchia di simili arbusti, l’osservatore sarebbe giustificato nel pensare che si tratti di uno strano esperimento irrispettoso mirato a ricreare la Notte stellata di Vincent Van Gogh, arrivando a risentirsi verso colui che avrebbe osato ricoprire di vernice tante splendide creature vegetali. Il che non potrebbe che costituire, chiaramente, un grave errore. Perché quest’albero è il creatore solitario di se stesso. Mentre il suo tratto è il frutto di un processo totalmente automatico, parte della sua crescita e rinnovamento stagionale. Lo produce liberandosi della corteccia…
Il genus degli eucalipti, che è estremamente ampio, vede svariate soluzioni evolutive alla protezione del tronco dalle intemperie e i parassiti: ce n’è un tipo forte, ruvido e duro, impregnato di una sostanza di nome kino che risulta simile alla gomma. C’è quella definita in gergo stringybark, fatta di fibre lunghe ed elastiche, che gli aborigeni impiegavano per i tetti delle loro abitazioni. Esiste anche un tipo tessellato, non del tutto dissimile dal sughero sardo. Ma la più notevole resta senz’altro quella del deglupta di Manitoba, che ha la caratteristica di seccarsi progressivamente e venire via tutta intera, in lunghe strisce simili a festoni marroncini. Non prima di aver attraversato l’intera gamma di colori sopra citata, con tempistiche del tutto differenti in base all’area presa in considerazione. Così succede che sullo stesso tronco, soggetto a crescita ed ispessimento continuo come quello di qualsiasi altro eucalipto, la vecchia corteccia venga via naturalmente, formando uno spesso strato di detriti alla base dell’albero, e lasciando quest’ultimo pezzato come una trapunta messa insieme con i rimasugli di tessuti di pregio.
Si tratta, è facile immaginarlo, di una caratteristica tenuta in alta considerazione dai decoratori dei giardini, che più volte hanno tentato di esportarlo in numerose altre zone del mondo. Ma questa specie, nativa di un clima molto umido e facente parte, nei fatti, della vera e propria foresta pluviale, non si adatta bene come gli altri eucalipti la clima europeo, neppure quello temperato del meridione. Inoltre, l’impiego industriale dell’albero è più limitato, in quanto esso non produce, a differenza dei suoi simili, alcun tipo di olio miracoloso. Negli Stati Uniti continentali esso raggiunge normalmente “appena” i 39 metri, meno della metà della sua altezza massima nelle specifiche zone di provenienza. E in Italia, dove gli E. camaldulensis furono famosamente alla base dell’eliminazione delle paludi Pontine all’inizio dello scorso secolo, grazie alla loro capacità di assorbimento d’acqua totalmente inusitata, questa particolare varietà non riuscirebbe invece ad attecchire, nonostante dei tentativi, possiamo presumere, siano stati effettuati da botanici entusiasti dell’idea. La visione del maestoso arcobaleno in legno al suo massimo splendore, dunque, resta un appannaggio di quelle particolari regioni tropicali poste al confine con l’Oceano Indiano, oppure le remote isole delle Hawaii, ove possiamo soltanto presumerlo, potrebbe nascondersi, tra le radici centenarie, l’oro degli Ewok oppure dei Koala.
In particolari scuole della disciplina dell’omeopatia c’è una sorta di mito di quest’albero variopinto, che si ritiene abbia doti curative al limite del sovrannaturale. Su YouTube è possibile assistere a disquisizioni in merito alle molte doti di un ipotetico impacco creato con le sue foglie lanceolate, che dovrebbe ipoteticamente alleviare “Infiammazioni, bruciature, malattie della pelle, dolori articolari, artriti, miopatie…” benché la base scientifica di questa ipotesi, non venga discussa in modo estremamente approfondito. In altri casi, le strisce della corteccia vengono manipolate dagli appassionati cercatori dell’ASMR (la Risposta Autonoma del Meridiano Sensoriale) una sorta di formicolio del cuoio capelluto seguito da un profondo e duraturo stato di rilassamento, che dovrebbe nascere dal ripetuto fruscìo della materia vegetale. Ma potrebbe altrettanto facilmente provenire da altri stimoli apparentemente privi di significato. Una nota a parte merita invece lo speciale olio di eucalipto venduto, specialmente online, all’interno di bottigliette contrassegnate dalla dicitura “Rainbow” la quale non dovrebbe, almeno in teoria, sottintendere la provenienza effettiva dall’albero di deglupta, il quale come dicevamo è del tutto privo di tale sostanza sulle sue foglie. Benché non sia impossibile immaginare un qualche tipo di complicato processo che miri a liquefarle e metterle in flacone, benché a quel punto, direi che il concetto stesso di “medicina naturale” va un po’ a svanire sullo sfondo dell’intera questione. Oppure no?
Immobile e altezzoso, l’albero più variopinto in assoluto è la prova pratica di quanto possa essere splendida e imprevedibile la natura. Praticamente nessuno, nell’osservarlo, potrebbe restare totalmente privo di emozioni. Possiamo soltanto sperare che nessuno, prima o poi, non pensi di farlo assaggiare al più piccolo e falsamente placido degli orsetti pelosi. Chi può dire che non contenga il principio attivo necessario a trasformarli finalmente in dropbears?