Con l’obiettivo chiaro nella mente di un perfetto tetto costruito alla vecchia maniera, ovvero spiovente e ricoperto da tegole utili a far scivolare via pioggia e neve, il capocantiere medio cerca tutto, tranne la velocità. Poiché “presto e bene” è la rappresentazione utopica di un’unione di fattori, che molto spesso appaiono configurarsi, piuttosto, come un duplice binario. Da una parte realizzazione rapida di quanto commissionato, dall’altro un ottimo lavoro. È dunque inevitabile che l’aforisma, fin troppo spesso sussurrato da colui che non si occupa di queste cose, venga sostituito con un’altro, grossomodo corrispondente a “non è una gara”. Tranne nei casi in cui, si! È una gara. O non può fare a meno…Di sembrarlo. Pur non mettendo in competizione diretta due semplici persone, bensì l’estetica di un metodo trascorso, con la rapida efficienza del fantasma di una sparachiodi. Che nei fatti, qui non c’è neppure. Guarda, investigatore della scena, e stupisci. Due addetti alle costruzioni giapponesi, la cui nazionalità appare chiara dal torii (arco sacro) rappresentato sui caschi, compaiono nel video mentre sono intenti in un’attività istantaneamente riconoscibile, benché molto diversa dalla nostra tipica interpretazione: essi stanno ricoprendo un tetto. E le loro tegole, chi le ha mai viste? Sono nei fatti letterali pezzi di corteccia, grezzi e al naturale, strappati via dall’albero di hinoki (Chamaecyparis obtusa, un cipresso) e poi tagliati a strisce di 50 cm di lunghezza, 10 di larghezza, singolarmente messi in posizione e poi inchiodati, l’uno dopo l’altro, su almeno tre strati sovrapposti. Il che, sostanzialmente, implica per un tetto di medie dimensioni…Qualcosa come svariate migliaia di chiodi, usati per tenere in posizione un qualcosa di endemicamente molto più leggero, e quindi meno stabile, dei nostri coppi di ceramica o le altre soluzioni più moderne. Ora il costruttore occidentale, al prefigurarsi di una tale mole di lavoro, assai probabilmente metterebbe il risultato al primo posto, e impiegherebbe senza esitazioni ogni tipologia di meccanismo disponibile, per assicurare il più semplice conseguimento dell’effetto finale. Ma come sa bene chi conosce la cultura del Giappone, non c’è niente, da queste parti, di più importante delle tradizioni. E anche se il committente non dovesse esser lì presente ad osservare il compito in fase di svolgimento, egli ci terrebbe senza dubbio a sapere che tutto è stato fatto con un metodo e criterio decoroso. Che poi significa, del tutto a mano.
Hiwadabuki: si tratta di una procedura tanto strana dal risultare quasi inquietante. Anzi, diciamolo, del tutto preoccupante (per l’esofago di coloro che la rendono possibile). I due operai maglietta-bianca e nera, come primo gesto, afferrano con la mano destra una generosa manciata di chiodi, che per gli stessi motivi di cui sopra non erano stati realizzati in ferro, nossignore, ma sottili schegge di bambù. A tal punto risulta sottile, e quindi facile da perforare, il particolare materiale fatto oggetto della loro attenzione. Quindi avvicinano il pugno alla bocca, lo aprono e ne inglobano gioiosamente il contenuto. Senza deglutire e questo è un bene. Altrimenti, non avrebbero avuto neanche il tempo d’impiegare un metal detector prima di correre presso l’ospedale più vicino. E poi, trattandosi di legno, a che sarebbe mai servito? Completata la prima delicata fase, fido martello saldamente in mano, hanno avviato il vortice dei gesti ripetuti: la mano verso il volto, labbra in fuori, piccolo chiodino che raggiunge la sua posizione, pam-pam-pam; mano verso il volto, etc. etc. Procedendo con metodo ed astuta precisione, dal basso verso l’alto (ciascuna fila dovrà coprire metà di quella sottostante) in breve tempo la piena estensione dell’opera è conclusa. Tempo, quindi, di ricominciare più in alto: sembra di assistere all’opera di una stampante a getto d’inchiostro. Anzi, perché no, ad aghi…
Fin da tempo immemore, la costruzione del tetto in Estremo Oriente ha costituito un momento dalle profonde implicazioni simboliche e talvolta religiose. Aggiungete a questo la speciale connotazione data dai Giapponesi ad alcune cose inanimate, ritenute infuse di uno spirito primordiale e senza tempo, per comprendere il vero significato di un simile complesso metodo realizzativo. Nell’architettura dei loro templi, mutuata direttamente dalla Cina, fu così sempre prevista la ricerca di una forma d’armonia apparentemente spontanea, del tutto diversa dallo sfarzo delle case dei signori e dei samurai. Sia che si tratti di un edificio shintoista, per definizione legato al principio della terra incontaminata dalla mano dell’uomo, e quindi più vicina alla divinità, che di una pagoda concepita per ospitare gli scritti del buddhismo, inevitabilmente influenzato dalla ricerca dell’estetica essenziale della corrente dello Zen… Le sue travi dovranno essere rustiche, le tegole non lavorate. Il profilo dell’edificio, nella sua interezza, sostanzialmente privo dell’estetica grandiosa delle nostre chiese o cattedrali. Eppure, nell’idea di chi lo sta creando, almeno altrettanto perfetto. Proprio in funzione di quel “qualcosa” che c’è dietro, ovvero l’opera dei costruttori che ha un valore duraturo, andante ben oltre il singolo momento della conclusione dell’arduo progetto. E cosa almeno altrettanto importante, dotato di un’origine remota, che può essere fatta risalire fino al momento in cui il cipresso era stato piantato, presso un rinomato arboreto di tanti anni fa. Avrete certamente notato, nel video di apertura, l’ultima parte in cui viene mostrato il processo di raccolta del materiale, con un approccio sostenibile al tronco di alcuni maestosi alberi, sostanzialmente non dissimile da quello usato per il sughero in Sardegna: l’arbusto viene sostanzialmente “spogliato” tramite l’impiego di coltelli specializzati, avendo cura di non danneggiarne il tronco. L’albero di hinoki quindi, grazie alle sue capacità di rigenerazione, sopravviverà. Per tornare nuovamente pronto, dopo qualche anno, a fornire il suo contributo per lo sforzo dell’edilizia tradizionale del Giappone.
Ma il risultato finale, sarebbe difficile negarlo, si nota. Il tetto tradizionale dei templi giapponesi, diversamente da quelli cinesi, prevede una struttura doppia e sovrapposta, che permette di raggiungere un grado di raffinatezza straordinariamente elevato. Talvolta il carpentiere cura la disposizione dei sostegni affinché l’incastro delle travi sia pienamente osservabile dall’interno, creando l’espressione architettonica di uno spazio straordinariamente interessante. Con l’approssimarsi della sommità del tetto, inoltre, diventa possibile l’impiego di un sistema di disposizione radiale dei listelli di corteccia, che vengono collocati per la prima volta lungo il senso longitudinale ed intrecciati con quelli dell’altro lato, creando un effetto molto singolare e memorabile. Simili edifici, ciò è subito evidente, sono fatti per durare ancor più nella memoria, che nei fatti sostanziali: molti dei più grandi e celebri edifici religiosi del Giappone, essendo stati realizzati interamente in legno, sono soggetti ad un processo continuo di restauro, quando non addirittura una ricostruzione periodica rituale di intere parti del complesso, nonostante l’ottima resistenza di questo legno alle intemperie. Come nel caso del Grande Santuario di Ise, per il quale viene coltivato appositamente un intero bosco di cipressi hinoki, detti go-shin-boku, ovvero gli “alberi divini” che trova frequente utilizzo a seguito dell’ennesimo terremoto e catastrofe meteorologica, entrambi fattori fin troppo frequenti tra le isole dell’arcipelago d’Oriente.
Se la cultura giapponese fosse dunque mai stato incline, come il nostro Medioevo e Rinascimento, alla redazione di mistiche profezie, qualcuno avrebbe certamente affermato che finché non cesseranno di esistere i cipressi, il popolo continuerà a costruire le sue spropositate città di cemento e vetro. Mentre gli addetti alla costruzione di ciò che è davvero importante, le guance gonfie come quelle dei criceti, ad infiggere i legnosi chiodi nella pelle artificiale del mondo. Certo, qualcuno potrebbe essere portato a suggerire loro l’impiego di una pratica cintura con porta attrezzi ed annessa bisaccia dei materiali. Ma è palese che a quel punto, non sarebbe affatto la stessa cosa! C’è un motivo per cui i cuochi del sushi non lavorano dietro una porta chiusa. E i pittori calligrafici, quando possibile, realizzano le loro opere dinnanzi al committente. È nella pratica costante, che è possibile raggiungere il momento del satori. Come può pretendere, chi scelga scorciatoie, di riuscire ad apprezzare il panorama della somma Verità?