Sembravano alghe, invece era un drago di mare

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L’animale fantastico per eccellenza, la prova materiale che una creatura innaturale, per quanto frutto della fantasia dell’uomo, può trascendere la più pura leggenda per entrare prepotentemente dentro il regno delle cose vive. I draghi? Camminavano su questa Terra. Sotto forme radicalmente differenti tra di loro. C’era il loro aspetto di lucertole, scagliosi esseri sovradimensionati, nella sagoma remota di svettanti dinosauri, il lungo collo placido e le zanne acuminate dei carnivori veloci. Mentre la capacità del volo, in qualche maniera indiretta, era presente nel battito d’ali degli uccelli ormai estinti, come l’Argentavis magnificens, dalla titanica apertura alare di ben 7 metri. Ma chi ha detto che la nostra controparte leggendaria, interlocutore dei tanti dialoghi nella caverna del tesoro, debba necessariamente essere mostruoso, impressionante, togliere il fiato con la sua maestosità… Quando esiste il caso dei draghi invisibili, sognati dai bambini e dagli adulti, visitatori di sfrenati ed invidiabili sogni notturni. Benevoli, pacifici, eloquenti. Ed ogni via di mezzo, come di consueto, resta altrettanto possibile, se non addirittura probabile. Così verso la parte meno estrema dello spettro, eppur rientrando certamente nella categoria in oggetto, troviamo un piccolo abitante delle coste meridionali d’Oceania, presso le ultime spiagge del pianeta fino alle propaggini del continente congelato del Sud; probabilmente, lo conoscerete di fama. Altrettanto probabile, è che non l’abbiate mai visto: poiché non è affatto facile, trovare, fotografare e giungere a toccare il Phycodurus eques, uno dei pesci più incredibili e accuratamente mimetizzati del suo intero gruppo. Al punto da assumere non soltanto il colore, ma anche la forma e le movenze automatiche del substrato che abita, in prossimità di recessi rocciosi, strutture costruite dall’uomo e bassi fondali diseguali. Non si tratta, in altri termini, di un abitante delle massime profondità. Né del resto avrebbe la necessità di spingersi fin laggiù, quando il suo camuffamento è tanto straordinariamente efficiente, e per di più perennemente attivo, visto come l’evoluzione lo abbia reso ciò che è, fin dalla nascita, in maniera affine ad una subdola stregoneria.
Sarebbe ben difficile, del resto, non restare basiti di fronte a tanta insolita bellezza: il dragone foglia, come viene comunemente chiamato, è una creatura lunga generalmente fino a 24 cm completamente ricoperta di escrescenze dalla forma chiaramente vegetale, che si diramano dalla sua testa, dal collo, dal dorso e dalla coda. Tuttavia, contrariamente a ciò che potrebbe sembrare, esse sono immobili e non aiutano nella locomozione; gli unici strumenti di locomozione della creaturina sono infatti due pinne semi-trasparenti, che gli permettono di muoversi in maniera estremamente cauta, venendo preferibilmente trasportato via dalla corrente. Il che è assolutamente proprio, e desiderabile, perché lo assiste nel passare ulteriormente inosservato. Mentre gli occhi di un sub umano, allenati e propensi ad individuare una cosa tanto meravigliosa, inevitabilmente riescono a scoprire i suoi tratti fisici al di là dell’apparenza, tra cui il lungo muso incurvato verso l’alto, che fa pensare da vicino alle narici di un coccodrillo, e per inferenza, a quelle dei protagonisti sputafuoco dei bestiari medievali. Che tuttavia non serve affatto nella respirazione (il pesce dispone di caratteristiche branchie con aperture circolari) ma costituisce piuttosto una sorta di piccolo aspirapolvere, usato nel fagocitare i gamberetti ed il krill di cui si nutre l’affascinante proprietario. La testa, dal canto suo, ha una forma notevolmente allungata, non del tutto dissimile da quella del cavalluccio marino comune, che dopo tutto appartiene pur sempre alla stessa famiglia dei Syngnathidae. Ma è il resto del corpo, a risultare totalmente fuori da ogni termine di paragone: il dragone foglia, nel suo tentativo di assomigliare per quanto possibile a un rametto sradicato,  è ricurvo e tortuoso, proprio come i temutissimi serpenti riportati agli angoli delle tradizionali mappe nautiche. La somiglianza con la creatura delle fiabe e leggende che gli da il nome in effetti, almeno da questo particolare punto di vista, risulta essere assolutamente lampante. Ma non pensate di toccarlo…

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Questa formidabile ripresa del drago di mare comune realizzata dal sub Shawn Stamback presso le acque territoriali della Tasmania può giovarsi di un’insolita colonna sonora in simil-dubstep.

Il dragone foglia ha uno stretto parente, chiamato anch’esso drago di mare (comune) e nello specifico Phyllopteryx taeniolatus, con cui talvolta arriva condividere gli stessi spazi. Siamo sempre, per intenderci nell’Australia del Sud. Questa versione alternativa dello stesso essere, dotata anch’essa della testa riorientabile, della boccuccia aspiratrice e delle piccole pinne dorsale e cervicale, è tuttavia molto diversa nel suo mancare delle innumerevoli false foglie disposte lungo tutta la curvatura del suo corpo, facendo affidamento solamente su qualche sparuto ciuffo pseudo-vegetale ed un’ancor più spiccata capacità di variazione della propria livrea, benché condizionata dalle situazioni ambientali e la disponibilità di dosi abbondanti di cibo. Il drago comune è anche più grande della sua controparte più frondosa, arrivando a misurare fino a 46 cm, ragione per cui è stato definito a volte “cavalluccio marino gigante”. Le differenze esteriori con tale genìa di esseri sono tuttavia lampanti, a partire dalla mancanza di una coda prensile impiegata per assicurarsi alle piante o gli altri oggetti del fondale. Esiste, tuttavia, un significativo punto in comune: la maniera in cui vengono gestite e fatte schiudere le uova. In tutti i draghi e cavallucci, infatti, qualche tempo dopo la fecondazione la femmina affida le preziose capsule con i suoi futuri piccoli direttamente al maschio, che dovrà custodirli fino al momento della schiusa. Il metodo selezionato varia in base alle specie: mentre gli Hippocampus hanno infatti un’apposita tasca frontale, in grado di distendersi formando un’impressionante approssimazione del ventre di una donna incinta, i draghi di mare sfruttano a tal fine un’apposita zona sulla parte inferiore della loro coda, appositamente concepita per ossigenare i piccoli ospiti e tenerli per quanto possibile al sicuro. Forse proprio in funzione di una tale strada alternativa, la riproduzione in cattività di questi esseri è sempre stata estremamente difficile. E mentre alcuni grandi acquari americani sono riusciti nell’impresa per quanto concerne il drago comune, quello a forma di foglia resta largamente un creatura libera e selvaggia, la cui cattura a scopo di collezionismo è tra l’altro rigorosamente vietata.

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La schiusa delle circa 250 uova può richiedere fino a 9 settimane, a seconda delle condizioni climatiche e la temperatura dell’acqua. Giunto il momento, il maschio inizia la sua “gestazione” che nei draghi consiste nello scuotere la coda più e più volte, per un periodo di fino a 48 ore, finché tutte le uova non si sono staccate ed i piccoli fuggiti via.

Questa particolare strategia riproduttiva, del tutto unica nel regno animale, permette ai Syngnathidae di mettere al mondo una prole già più cresciuta e forte, naturalmente in grado di procurarsi il cibo da se fin dall’attimo stesso della venuta al mondo. Nonostante questo, la sopravvivenza in percentuale resta piuttosto bassa, e soltanto il 5% degli avannotti raggiungerà l’età adulta. Una cifra più vantaggiosa di quanto si potrebbe pensare, quando raffrontata con le medie degli altri pesci di questo ambiente.
Una volta superata la loro capacità di passare inosservati, i draghi di mare risultano praticamente del tutto privi di strumenti difensivi, con l’unica eccezione di alcune spine nascoste tra le loro foglie. Non possiedono alcun tipo di veleno. Non hanno denti, e si muovono (quando effettivamente decidono di farlo) ad una lentezza che può essere definita esasperante. Tutto quello che una persona deve fare per catturarli, dunque, è allungare pigramente il retino e portarseli direttamente via. Il che, ormai da diverso tempo, costituisce un ulteriore problema per la loro sopravvivenza, già minacciata dalla riduzione degli habitat dovuta all’inquinamento. Il dragone foglia tra l’altro, per sua massima sfortuna, rientra nel vasto catalogo degli ingredienti ritenuti utili nella medicina tradizionale cinese. Un suo singolo esemplare, catturato abusivamente, può arrivare a valere 10.000 – 15.000 dollari. La vendita è invece possibile per la variante comune, ma soltanto se accompagnata di documenti che provino la sua provenienza dalla problematica riproduzione avvenuta in cattività. Il prezzo, come potrete facilmente immaginare, non è molto minore, e sono ben pochi gli appassionati privati di acquari che possano vantare di possederne uno.
Il che, ci permette di tornare al discorso di apertura: se i draghi fossero comuni, essi potrebbero ancora incutere in noi un senso di meravigliata soggezione, il sentimento trascinante di scoperta e connessione elettiva con il regno della fantasia? La risposta è un gorgogliante verso di diniego tra gli abissi dell’Oceano sconfinato. Dove le alghe nuotano alla ricerca di una compagna, mentre i pesci, talvolta, giacciono in attesa.

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