L’organismo umano è concepito per trarre nutrimento da un ampio ventaglio di vivande, prevalentemente di derivazione animale e vegetale. Insigni studiosi della nostra fisiologia, attraverso gli studi pubblicati nel corso della loro carriera, sono pronti a giurare al tempo stesso che la carne sia primaria, che la verdura sia irrinunciabile, che il pesce, oppure i legumi, siano la pietra di volta di un’alimentazione che possa dirsi salutare sotto ogni punto di vista. A dimostrarlo, volta per volta, sarebbero la dentatura, il funzionamento dello stomaco, le stesse tradizioni ereditate dagli antenati. Nel frattempo, l’opinione pubblica continua ad essere polarizzata dai vegani. Ma è possibile che tutti, nel mondo Occidentale, abbiano completamente tralasciato il più importante dei cibi, ovvero le alghe? Tra le sostanze che consentono la cooperazione dell’ammasso di cellule costituenti la nostra essenza, i più recentemente approfonditi dalla popolazione generalista sono i mono e polisaccaridi, delle molecole di carboidrati che vanno a depositarsi nelle intercapedini tra i mattoni dell’organismo, agendo da collante e sottile ausilio alla membrana divisoria di noi esseri eucarioti. Ne conoscerete certamente almeno una, il glucosio, naturalmente presente in molti tipi di frutta ed anche nello zucchero da tavola, che ne contiene tuttavia una quantità malsana. Altre parti fondamentali della nostra dieta includono il galattosio (latte, prodotti caseari) xilosio (pere, lamponi, bacche nere) mannosio (fagiolini, peperoni, cavoli) glucosamina e galacrosamina (gamberetti, granchi e frutti di mare) neuraminico (uova e latte materno) e fucoidano, presente unicamente in una particolare classe di alghe marroni, tra cui la Cladosiphon okamuranus, nota ai giapponesi che ne fanno un utilizzo gastronomico col nome comune di mozuku. Un punto fondamentale nella comprensione della faccenda è che ciascuna delle sostanze citate è pienamente NECESSARIA alla nostra stessa sopravvivenza, non importa se un individuo riesca ad assumerle da fonti esterne oppure no. Ora voi, probabilmente, non avete mai ingerito il fucoidano; il che significa, in altri termini, che il vostro organismo lo sta sintetizzando fin dalla vostra nascita, andando incontro ad uno stress notevole e avvicinando impercettibilmente l’ora del suo inevitabile collasso finale. Di…Ore, giorni, mesi? Chi può dirlo. Forse persino anni. Ma non è detta ancora l’ultima, c’è tempo per cambiare.
Abbiamo detto che esistono diverse fonti vegetali di fucoidano, il che è oggettivamente vero, ma ai fini gastronomici ce n’è soltanto una che viene abitualmente portata in tavola costituendo, addirittura, un ingrediente molto amato nel suo paese d’origine, parte di pietanze dall’aspetto e sapore particolarmente rinomati. Essa viene attentamente coltivata nella sua terra d’origine, l’arcipelago delle isole Ryūkyū, collettivamente denominate dal loro paese sovrano (nonostante il doppio contenzioso territoriale con Cina e Taiwan) con il nome più famoso di Okinawa. Tale alga, coltivata nelle particolari condizioni ambientali di alcune secche in prossimità delle spiagge, viene prodotta per un totale annuale fra le 10.000 e le 20.000 tonnellate, per un consumo diretto quasi esclusivamente locale e l’esportazione in forma di integratori alimentari, successivamente allo sminuzzamento e pressatura dell’ammasso di vegetali. Nel video soprastante prodotto dalla BBC per il suo canale Earth, viene mostrato il procedimento di raccolta impiegato all’interno di una di queste fattorie, che consistono unicamente di un’appezzamento di suolo marino, preso in affitto tramite l’Ente per la Pesca nazionale (la JFA) e sul quale sono state ancorate alcune reti, come base su cui far crescere una maggiore quantità di mozuku. Finché non viene il giorno del raccolto, messo in pratica attraverso quello che potrebbe definirsi, sotto numerosi aspetti, un colossale aspirapolvere subacqueo…
Il raccolto della Cladosiphon okamuranus avviene in primavera tra marzo ed aprile, quando l’alga raggiunge la sua altezza maggiore di circa una trentina di centimetri, definita in gergo scientifico lo sporofita. Nel ciclo vitale della pianta è tuttavia presente un concetto di generazioni in alternanza, per cui ogni gruppo di esemplari, successivamente al raccolto, potrà riprodursi unicamente mettendo al mondo una forma successiva microscopica, definita il gametofita. Sostanzialmente, l’equivalente acquatico delle spore. Tale ammasso di DNA, nella quantità in cui sarà disponibile ogni anno, dovrà essere raccolto e spostato all’interno di grossi serbatoi in policarbonato dove passerà l’estate, per poi trovare spazio per la crescita in speciali nursery marine, posizionate in luoghi particolarmente riparati dalla corrente. Verso ottobre, quindi, le piantine già cresciute fino ai 2-5 centimetri verranno spostate nei veri e propri campi sottomarini, dove resteranno fino a quando saranno aspirate spietatamente, lasciate ad essiccare, quindi impacchettate e spedite fino ai recessi più remoti del paese.
L’alga mozuku, successivamente alla lavorazione, assume un aspetto molto peculiare, che ricorda stranamente da vicino quella dei tipici spaghetti dell’Estremo Oriente, quei noodles che ritroviamo nei piatti più diversi, incluso il ramen. Proprio per questo, essa viene talvolta definita localmente come “la pasta del mare” e servita anche da sola, con il solo condimento di un po’ di aceto e l’immancabile salsa di soia. Si tratta tuttavia di un alimento molto più leggero delle alternative, che generalmente non contiene più di 30 calorie per ciascuna porzione. La più accreditata descrizione gastronomica dell’alga la classifica come piuttosto insapore, comparativamente non dissimile dalla più conosciuta nori (Porphyra) che ritroviamo tipicamente nell’involucro del sushi e nelle classiche polpette di riso. Tutt’altra storia, quindi, rispetto alla pungente konbu (Saccharina japonica) che viene impiegata spesso come base per il brodo del dashi e tende a rimanere indigesta, soprattutto agli stranieri. La mozuku è anzi considerato un cibo facile, concettualmente paragonabile alla nostra tipica insalata verde.
Il mozuku è un cibo che viene consumato, dunque, soprattutto perché fa parte della tradizione di un popolo, quello delle isole Ryūkyū, che è sempre riuscito a mantenere la sua indipendenza culturale, ed invero talvolta anche influenzare, talvolta, i propri vicini dell’arcipelago giapponese. Ma non solo. Studi recenti, orgogliosamente sbandierati in modo vago dalle società che vendono online la forma medicinale della pianta, hanno almeno in parte dimostrato alcuni vantaggi notevoli concessi a chi se ne nutre, probabilmente proprio in forza dell’alto contenuto di polisaccaride fucoidano. Nutrirsene quotidianamente, infatti, avrebbe effetti anti-ulceranti, anti-ossidanti, contrasterebbe l’arteriosclerosi e il colesterolo. Tutti benefici concessi dal nostro stesso organismo, che non dovendo più concentrarsi sulla produzione di questa complessa sostanza chimica, potrebbe dunque concentrarsi su funzioni di maggiore importanza. In alcuni test di laboratorio, nel frattempo, sarebbe stato addirittura dimostrato come delle alte concentrazioni di questa sostanza possano attaccarsi direttamente alle celle cancerogene, ostacolandone sensibilmente la riproduzione. E se pure ci fosse una piccola probabilità di allontanare la più temuta malattia dei nostri tempi, grazie ad un piatto d’alghe al giorno…
Certo simili risultati, per il modo in cui ci vengono presentati online, appaiono privi di riferimenti effettivi ai dati tecnici, come purtroppo avviene sempre più spesso nel campo dell’alimentazione. Ma alcuni fatti, per lo meno da un punto di vista empirico, sembrerebbero parlare da se: esiste un villaggio nella parte nord di Okinawa che ha il nome di Ogimi. In tale comunità, composta da 3.500 persone circa, vivono oltre 100 persone con un’età superiore ai 90 anni, che risultano tutte in grado di condurre una vita particolarmente attiva. Coltivano i propri orti, fanno lunghe passeggiate, si recano in spiaggia. E lì, con un rastrello metallico, raccolgono l’alga mozuku e la dispongono attentamente in un secchio, prima di riportarla a casa ed usarla in cucina. Come facevano i loro padri e madri. E i genitori di quelli, prima ancora. Due, tre secoli fa?
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