La paura non è altro che un’illusione. Mentre temere per la propria incolumità, un limite stringente a tutto quello che si può fare, dire o pensare. Così certe persone laggiù in Cambogia, camminando nel vortice tempestoso di schegge erratiche tra il veleno pronto all’uso di 100.000 piccole assassine potenziali, in qualche maniera ne escono cambiate. Non si tratta tanto di un pensiero sulla linea del “Non mi hanno punto oggi, non lo faranno mai!” Quanto l’esito finale, come la punta di un iceberg concettuale, di un’intera visione del mondo secondo cui, se la determinata cosa è sempre stata fatta dai tuoi genitori e nonni, e dai loro trisavoli e antenati ancor prima, non potrai certo essere TU, ad interrompere un simile filo comunicativo col passato. E poi, c’è una sola cosa migliore del miele a questo mondo: i soldi, che puoi fare vendendolo, per acquistare altre api e far sempre più miele. In un vortice appiccicoso che tutto sovrasta, persino la cognizione della propria stessa, insignificante mortalità.
Siamo a Siem Reap, nella regione che si trova tra i leggendari templi di Angkor e il grande lago di Tonle Sap, dove un’istituzione di nome Bees Unlimited, ben pubblicizzata e piuttosto proficua su vari livelli opera da anni, offrendo una finestra agli stranieri in visita sull’affascinante mondo naturale delle foreste del Sud-Est Asiatico, ma in particolare sul singolo approccio più frenetico alla produzione dell’ambrata cibaria insettile preferita dagli umani: andarlo a prendere, con soltanto un po’ di fumo ad aprirti la strada, presso l’alveare delle api giganti dell’India (Apis dorsata) creature notoriamente aggressive come ben poche altre delle loro dimensioni. Che una volta trovatosi sotto assedio, generalmente non esitano a sacrificarsi per andare a trafiggere chicchessia. Il che è davvero molto rilevante perché, come forse non saprete, questi particolari imenotteri eusociali non vengono assolutamente allevati in cattività, mediante la tipica soluzione dell’arnia artificiale, semplicemente perché farlo vorrebbe dire, in un singolo momento di distrazione, rischiare la propria stessa vita. Così la prassi prevedeva, fin dagli albori dei tempi, che una figura di cacciatore specializzato si recasse nel bosco, alla ricerca del gigantesco, singolo favo creato da queste creature, alto fino ad un metro e generalmente posto presso la sommità degli alberi, per farlo quindi a pezzi e trasportarne il contenuto fino al mercato del villaggio più vicino. Finché non venne scoperto un particolare approccio alternativo, molto efficace nell’incrementare la resa e soprattutto sostenibile, che consisteva nella creazione di una cosiddetta coltura con le travi inclinate (in inglese: rafters) per certi versi comparabile all’allevamento allo stato brado talvolta praticato con gli ovini. Che consiste, in parole povere, di creare un ambiente adeguato al sostentamento delle comunità d’api, approntando le strutture suddette in un’area di foresta degradata, e quindi ormai priva dei grossi rami generalmente preferiti dagli insetti. Tali habitat, naturalmente, saranno costituiti ad altezza degli occhi e resi facilmente raggiungibili senza l’impiego di tecniche di arrampicamento. Sopraggiunto quindi il primo sciame (le dorsata in cerca di propagazione si spostano di fino a 150 metri a partire dall’abitazione natìa) questo non potrà far altro che stabilirsi nel luogo a lui dedicato, trovandosi a quel punto perfettamente accessibile per la figura professionale dell’allevatore/ladro di miele. Ed è qui che comincia il bello.
La coppia all’opera nel video, potenzialmente padre e figlio o/e apprendista e maestro, prepara come prima cosa un fascio d’erba verde da far bruciare sotto il favo, al fine di creare una cortina fumogena adeguata. L’espediente risulta semplicemente fondamentale nella caccia al miele, perché induce nelle api una reazione che costituisce nell’ingozzarsi della preziosa sostanza e tentare la fuga da un presunto incendio, inibendo nel contempo l’odore dei loro feromoni, concepiti per trasmettere informazioni sull’aggressione del gigante armato di coltello alle simili dotate di pungiglioni, corroborato da un messaggio che potrebbe riassumersi come “UCCIDI, UCCIDI!” Ma niente di alato e ronzante potrà mai fermare i cacciatori/apicoltori cambogiani…
Il punto principale del fumo è che essenzialmente, un’ape satolla sarà più lenta e meno aggressiva, nonché caratterizzata da un addome rigonfio che inibisce parzialmente l’impiego del pungiglione. Questi esperti cacciatori, dunque, ne impiegano l’esatta quantità e tipologia adatta a rendere l’impossibile, persino invitante, riuscendo ad avvicinarsi illesi alla terrificante città dei ronzii danzanti. Ciò che segue, quindi, è la fase di prelievo, effettuato rimuovendo una particolare parte dell’alveare sita nell’area superiore, ovvero quella in cui le api tengono il miele ma NON le larve. Tale metodo è assolutamente fondamentale, perché l’obiettivo dei due cambogiani non è assolutamente quello di uccidere la comunità insettile, che anzi dovrà continuare a prosperare ancora per molti anni a venire. Le dorsata, infatti, hanno una speciale capacità d’orientamento superiore, che gli permette, anche ad un’intera stagione di distanza, di far ritorno al luogo esatto in cui erano nate. Una dote sviluppata primariamente per l’abitudine della specie a costituire il proprio alveare anche a pochi metri da quello di un gruppo rivale, in una condizione per cui sbagliare indirizzo corrisponderebbe essenzialmente alla morte immediata per sconfinamento. Nulla di estraneo, per quanto simile, può infatti avvicinarsi ad uno di questi alveari impunemente, ovvero senza incorrere nella furia delle piccole, agguerrite creature. Queste api tra l’altro non devono sempre necessariamente sacrificare la loro vita, per colpire: esse dispongono infatti di un meccanismo biologico che gli consente di surriscaldare il proprio addome fino a 45 gradi, una temperatura letale per molti insetti, tra cui le vespe. Ma non per le api. Al momento di respingere un’aggressione, quindi, esse ricopriranno letteralmente il nemico, giungendo a cuocerlo nel suo stesso carapace. Ma il favo delle dorsata, come avrete certamente notato, è estremamente visibile a qualsivoglia predatore, richiedendo strategie ancor più particolari da impiegare nella sua difesa. Nel caso dell’appropinquarsi di nemici più imponenti, come un calabrone o persino un uccello, le api si dispongono quindi in una particolare formazione serrata definita dello shimmering (lo “scintillio”) con una disposizione a 90° rispetto alla superficie del favo, pungiglioni rivolti verso l’esterno. A quel punto, esse iniziano a far oscillare ritmicamente le ali riflettenti, ricordando per certi versi l’effetto onda di un gruppo di tifosi allo stadio. Una visione talmente surreale, e minacciosa, da riuscire a scoraggiare numerosi aspiranti saccheggiatori. Si ritiene che questo comportamento sia stato sviluppato per gradi e fallimentari tentativi, attraverso momenti successivi del loro processo evolutivo.
Procedendo con metodo e precisione, l’uomo con maggiore esperienza seziona la ragionevole parte di favo sottoposta a tassazione inter-specie, avendo cura di far colare il suo delizioso contenuto all’interno di un recipiente. Nulla, o quasi, dovrà essere spiegato. Nel frattempo, il giovane resta a far da palo all’altro lato dello sciame confuso e infuriato, avendo cura che il fumo continui a diffondersi nella direzione corretta. La domanda, in ultima analisi, resta semplicemente impossibile da evitare: siamo così sicuri che costoro non vengano colpiti in alcun modo? Certo, la possibilità di inibire la diffusione del feromone d’allarme evita il sopraggiungere di gravi e pericolosi incidenti, con punture subite su ogni lato nello stesso momento. Ma è lecito sospettare che molta della loro evidente tranquillità derivi da una commistione di tolleranza al dolore ed effettiva parziale immunità al veleno, sviluppata nel corso dei molti anni di pratica nel settore.
Ad un certo punto, quindi, nel video c’è uno stacco. Superate le molte tribolazioni, viene l’attimo lungamente atteso della ricompensa. Il maestro estrae nuovamente dal secchio il pezzo di favo, che si palesa da vicino come un oggetto sorprendentemente morbido e vagamente affine a una spugna. Dopo un attimo di suspense, quindi, egli lo spreme e lo strizza, lo schiaccia spietatamente alla maniera di un agrume. E al di sotto di esso, con lucente e magnifico splendore, cola il dolcissimo fluido, ricompensa dell’eterno lavoro. Il miele, già praticamente pronto alla spedizione o il consumo diretto, non dovrà ricevere alcun tipo di trattamento o l’aggiunta di conservanti, ma soltanto essere filtrato tramite l’impiego di un panno, più che altro per eliminare i pezzi residui del favo. Tutta la cera residua del processo, invece, verrà sfruttata per produrre pregiate candele. Nulla è superfluo, per quanto concerne le api giganti d’India, neppure lo spettacolo straordinario del loro sfruttamento. Ma siamo poi così sicuri, che all’ape non faccia comodo tutto ciò? In cambio di una porzione non troppo ingente della loro produzione complessiva, esse dispongono di un’area protetta in cui farsi la casa, e non rischiano d’invadere proprietà private istigando la tipica risposta distruttiva dei legittimi abitanti di turno. Forse davvero, la rigida e schematizzata gerarchia sociale di questi esseri, unita alla loro prevedibile ripetitività, li ha resi incredibilmente simili a noi. A tal punto che un essere alieno, osservando l’intero processo in corso di svolgimento, potrebbe interpretarlo come una sorta di d’interscambio commerciale tra le due lati della barricata, il micro & il macro, l’artropode e il mammifero, la “formica lungimirante” Vs. la “cicala sconsiderata”. E chissà noi quale ruolo ci troveremmo ad interpretare, in questo eterno dramma delle parti!